STORIE DEL CAPITALISMO ITALIANO

24 Lug 2025 | 0 commenti


Ci due metodi per leggere criticamente un libro di storia che viene riproposto da un editore a oltre dieci anni dalla sua comparsa sul mercato delle idee. Il primo è evidenziare le novità documentali che arricchiscono l’oggetto del libro. In questo caso, però, non ci sono nuove fonti, mentre c’è una nuova introduzione dell’autore. Il secondo – quando le condizioni dell’oggetto sono radicalmente mutate – è leggerlo, nella sua impostazione, tenendo ben a mente quello che, all’oggetto del libro, sta capitando.

La ripubblicazione, per scelta di Feltrinelli, del volume di Giorgio La Malfa Cuccia e il segreto di Mediobanca, a undici anni dalla sua prima uscita, arriva nelle librerie italiane mentre Mediobanca è sottoposta ad una operazione ostile, condotta da Monte dei Paschi di Siena – una banca più piccola, salvata con i soldi pubblici e guidata da un tecnico stimato ma finora poco avvezzo al Grande Gioco come Luigi Lovaglio – e animata da un incrocio di interessi fra il capitalismo privato di origine edilizia di Francesco Gaetano Caltagirone e la manifattura nata dall’occhialeria di lusso e di mass market della famiglia Del Vecchio. Un’operazione resa ancora più “scabrosa” dalla presenza nell’azionariato del Monte dei Paschi del Mef, fedele esecutore del dirigismo formalistico e muscolare del governo di Giorgia Meloni che – secondo gli osservatori più maliziosi – sarebbe interessato a mutare, a cascata, gli assetti azionari delle Generali di Trieste, cuore del risparmio, della finanza (e del debito pubblico) del nostro Paese.

Libro che si suggerisce a chi volesse approfondire l’argomento

Nel libro di La Malfa, il cui ceppo famigliare nel senso del padre Ugo ha formato uno degli elementi essenziali dell’albero del laicismo repubblicano di cui facevano parte Enrico Cuccia e molti altri esponenti di una Italia minoritaria soltanto nei numeri, riluce di brillantezza ermeneutica la lettera che Raffaele Mattioli scrive a Cuccia il 9 novembre 1961: «Carissimo Enrico, ieri sera alla fine del nostro vivace colloquio ti dissi che a me dovevi far sapere le cose, indipendentemente dalla difficoltà (?) di una periodica convocazione del Comitato. L’accenno prese una piega personale e quindi interruppi il discorso, anche perché tu avevi fretta e io non volevo che le parole mie potessero essere colorite dal residuo della concitazione che aveva più che colorito il nostro dialogo. Ma la questione non era personale. Posta in termini sereni e non brutali, essa è: nell’interesse di chi è amministrata Mediobanca? La partecipazione Mediobanca delle Bin non è un impiego di portafoglio. Mediobanca è uno strumento delle Banche di interesse nazionale. Le quali hanno anche nei confronti dei depositanti di Mediobanca una responsabilità che, pur riducendola al minimo, è sempre molto più grande di quella di Mediobanca verso i portatori di obbligazioni collocate sotto il patrocinio di Mediobanca. Ora, io sono felicissimo che mi si insegni quale è il mio interesse. Ma come faccio ad apprenderlo se ciò che dovrebbe insegnarmelo resta avvolto nelle misteriose tenebre del più ermetico segreto? Pensaci, Enrico».

Enrico Cuccia, banchiere

Nelle parole dette da Mattioli a Cuccia si avvertono il potere e la responsabilità, il disegno della banca e di chi la guida, fino alla edificazione del culto della indipendenza di Mediobanca. Il dialogo fra Cuccia e il fratello maggiore Mattioli resta muto: non ci sono risposte del primo al secondo. Il silenzio diventa un fattore storico di lungo periodo. In una dimensione quasi sapienziale, Mediobanca è un luogo di costruzione delle priorità e di determinazione del destino delle (spesso fragili e sterili) famiglie del capitalismo italiano. Mediobanca modella così, a lungo, la società e l’economia.

Si legge in una nota di Cuccia del novembre 1992 sulle aziende pubbliche: «La trasformazione degli enti di diritto pubblico in società per azioni ha sancito, in effetti, la fine della ricapitalizzazione di questi enti mediante assegnazione di fondi da parte dello Stato: la chiusura di questo “rubinetto” ha messo le società per azioni nella necessità di prevedere un ricorso al mercato. La privatizzazione nasce dall’impossibilità di continuare una politica in cui il contribuente era chiamato a fornire i fondi occorrenti per tenere in piedi le imprese cosiddette “parastatali”».

Dal 1946, anno della sua fondazione, al 1992 esiste una consequenzialità fra il pensiero di Mediobanca sulle cose da fare, il velo di segretezza sulle sue operazioni, la concretezza demiurgica – nel bene e nel male – delle sue decisioni. La intangibilità di Mediobanca viene incrinata già allora: Mediobanca non è centrale nelle privatizzazioni definite, anche, con l’ausilio tecnico dell’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi fra Via XX Settembre, Palazzo Chigi, Via Nazionale e il porto di Civitavecchia, dove attraccò il panfilo Britannia, per le riunioni con gli investitori internazionali.

Oggi siamo nel 2025. L’assalto a Mediobanca e a Generali è ancora lungo. Ma tutto è cambiato. Francesco Gaetano Caltagirone avrà altri segreti. Lo stesso i liquidissimi e molto rissosi eredi di Leonardo Del Vecchio. Idem Giorgia Meloni e i suoi stretti collaboratori, passati dalla sezione missina di Colle Oppio a Palazzo Chigi di nuovo – dopo il periodo di Massimo D’Alema – trasformata nell’unica merchant bank dove non si parla inglese (cit. Guido Rossi). Quella forma sapienziale, tecnocratica, elitaria e segreta ha però perso consistenza già alla fine del Novecento. Non a caso scrive La Malfa: «Negli anni Novanta, tutto sembrava tranquillo nella banca e intorno a essa. Salvo che spesso Cuccia pronunciava, pensando al futuro, una strana frase: “Se è caduto l’Impero romano, perché non dovrebbe cadere Mediobanca?”».

Articolo di Paolo Bricco per Il Domenicale del Sole 24 Ore.

0 0 voti
Article Rating
Notificami
0 Commenti
Vecchi
Più recenti Le più votate
Feedback in linea
Visualizza tutti i commenti

Potrebbero interessarti

Contact Us