Tanti sguardi inquieti ed ironici sul mondo
Pittore, scrittore, poeta, critico, ha attraversato tutti i territori della cultura. A vent’anni dalla scomparsa (il 25 settembre 2002) resta la lezione di una figura «quasi rinascimentale» che non ha mai smesso di osservare la realtà
È impressionante l’ampiezza e la varietà dei territori che Emilio Tadini ha attraversato fino al 2002, anno della sua morte (era nato a Milano nel 1927). Se la sua è stata una presenza centrale nella cultura del dopoguerra italiano, è poi altrettanto impressionante constatare come una personalità così attiva in più ambiti — dalla pittura alla critica d’arte, dalla poesia alla narrativa alla traduzione, dal teatro alla televisione negli ultimi anni — sia stata relegata da tempo in una zona grigia di nebbia se non di oblio. Certo, ci sono state altre mostre postume a lui dedicate e un paio di suoi libri importanti sono stati ristampati, ma è la figura di Tadini nella sua complessità quasi rinascimentale ad essere svaporata dalla memoria comune. Non è il solo caso, naturalmente, ma ogni occasione è buona per sottolineare con quanta smemorata leggerezza proceda verso il futuro la nostra cultura letteraria e non solo letteraria.

Dunque, scrittore, poeta, pittore, traduttore, drammaturgo, saggista, a partire dal settembre 1993 critico d’arte del «Corriere della Sera», autorevolmente chiamato a sostituire Giovanni Testori in virtù di un esercizio critico praticato in periodici di varia rilevanza, cominciando dagli interventi giovanili (siamo nei primi anni Cinquanta) consegnati a «Inventario», il trimestrale fondato a Firenze nel 1946 da Luigi Berti e Renato Poggioli. A quei tempi Tadini non si era ancora manifestato come artista, proponendosi piuttosto come allestitore-curatore di mostre e critico di letteratura, d’arte, di cinema, giornalista culturale e di costume su periodici allora piuttosto combattivi («Cinema nuovo», «Settimo giorno», «Successo»). Su «Quaderni Milanesi» con l’amico Oreste Del Buono aveva elaborato l’idea di «narrativa integrale» quale scrittura sperimentale aperta al modernismo anglosassone. Ma sarà grazie a Giuliano Gramigna, direttore della pagina culturale del «Corriere d’Informazione», consociato pomeridiano del «Corriere» maggiore, che Tadini, a partire dall’aprile 1963, avrà voce su un giornale nazionale, in cui ogni tanto si affacciava persino Montale. Sono 34 interventi che si collocano al crocevia tra la precoce passione letteraria e la lunga e fortunata vicenda pittorica: poco più che ventenne, Tadini aveva esordito come poeta sul «Politecnico», la rivista di Vittorini, con il poemetto La passione secondo san Matteo e nell’ottobre di quel 1963 sarebbe uscito presso Rizzoli il primo romanzo, Le armi l’amore. La collaborazione al «Corriere d’Informazione» testimonia il momento di riflessione sul romanzo e di elaborazione narrativa in vista della svolta verso la pittura, che diventerà pubblica con le mostre del 1966.

Se la lettura di questi interventi corriereschi offre spunti notevoli sul suo percorso poetico e teorico, grazie alla sensibilità culturale e sociale di Tadini la meraviglia del lettore si estende alla temperie generale su cui si sofferma l’acutissimo sguardo dell’osservatore-lettore-commentatore. Tadini è infatti un lettore che nel leggere, analizzare, giudicare un libro non cessa mai di guardarsi intorno: si tratti di poesia, di narrativa, di società o di costume, il suo è sempre un occhio (e un orecchio) curioso e inquieto. Tre filoni di interesse emergono su tutti: le riflessioni metanarrative, l’attenzione ai classici moderni, le auscultazioni delle tendenze editoriali del momento, le incursioni nei miti socio-culturali del momento. E sempre spaziando dall’Italia alla Francia agli Stati Uniti, richiamo costante (anche polemico) dell’intellettuale nell’interpretazione della contemporaneità più viva. Sul versante teorico è inevitabile che ricorra la discussione sul rapporto fra tradizione e avanguardia: questione su cui Tadini doveva sentirsi particolarmente sollecitato dal momento che stava per concludere Le armi l’amore, prova sperimentale in veste di romanzo storico-fantastico, venuta al mondo in perfetta coincidenza con il primo incontro palermitano del Gruppo 63.

Non è dunque un caso che la collaborazione si apra con un articolo in difesa dell’avanguardia: non «pasticcio incomprensibile», come vorrebbe il luogo comune, ma piuttosto tentativo di «esprimere con il linguaggio» una realtà «integrale», «una più ampia serie di fatti e di rapporti vitali». Detto ciò, non c’è da pensare che Tadini aderisca senza riserve ai giochi formali più astratti: il suo aggettivo ricorrente è «concreto». Parla di «avidità di concretezza» tessendo l’elogio di Né vivere né morire (1963), il nuovo romanzo di Del Buono. È la tensione tra linguaggio e realtà a evitare il pericolo di trascendere in «vuota complicazione o meccanica formale». Più in là, recensendo un’antologia di racconti, Tadini metterà in guardia dai «manierismi formalistici» e dall’uso del termine avanguardia come «puro mito fonetico». Del resto, Tadini non esita a dichiarare la sua incondizionata adorazione per Joyce e in particolare per Finnegans Wake che, pur essendo «il più complesso edificio narrativo che sia mai stato tentato» e il romanzo «più decisamente rivoluzionario del secolo», è il contrario di un libro «astratto e informale» i cui elementi compositivi «esprimano soltanto se stessi». È piuttosto «un libro in cui l’intento di narrare, di figurare concretamente, viene esteso fino ai più lontani limiti concepibili…». Eccola lì, di nuovo la concretezza. La stessa che Tadini apprezza in Melville, altro suo modello. Prendendo le mosse da un parere riduttivo di Hemingway (che non condivide), in un articolo-saggio del novembre 1963, Tadini legge Moby Dick quale opera che rifiuta la convenzione puntando su una struttura composita e nuova: ecco mostrato come «la forma del romanzo possa cambiare senza che l’atto del narrare venga indebolito o declassato. Sempre che, naturalmente, lo scrittore abbia qualcosa da raccontare e non abbia soltanto la mania di qualche “meccano” linguistico».

Si sarà capito di quale talento comunicativo disponga il Tadini giornalista-critico, giornalista e critico. Che parte sempre da incipit folgoranti, che siano colloquiali, narrativi, aneddotici, aforistici, sempre in qualche modo sorprendenti, per sviluppare poi argomentazioni dallo stile cristallino, semplice, perfettamente aderente allo scopo. Eccolo soffermarsi sulla affascinante (e drammatica e patetica) biografia di Hemingway scritta dal fratello Leicester (e letta da Tadini in inglese). Ecco un approfondimento sul movimento modernista a proposito di un saggio di Michele Ranchetti, ecco l’amata poesia francese: Valéry e Mallarmé (raccontato anche come uomo incoerente e pettegolo). Ecco Il pasto nudo di William Burroughs, un «subbuglio di depravazione e di ascesi» dove Tadini intravede una «troppo greve corpulenza della materia letteraria». Ecco l’autobiografia intellettuale di Henry Adams che con una sorta di «battagliera disperazione faustiana» mette in scena la «coscienza dei propri fallimenti». Ecco la meravigliosa recensione de La milleduesima notte di Joseph Roth. Ecco una lettura del «positivista impazzito» Raymond Roussel, nella cui opera «la metafisica letteraria si capovolge, si rigenera in meccanica». Ecco la «proliferazione del vuoto» in Ottiero Ottieri, la «segregazione sessuale» in un romanzo nero di Mary McCarthy, ecco la deformazione satirico-grottesca messa in scena da Goffredo Parise ne Il padrone (che non convince Tadini). Ecco la «realtà eccitata» di Carlo Dossi. Ecco l’America grottesca e orribile della propaganda sui rifugi antiatomici: «farsa tragica», «la fine del mondo vista secondo l’iconografia pubblicitaria del benessere», l’accettazione dell’«orrore definitivo».
Se dalla letteratura si passa al costume, l’analista cede allo scrittore, colorandosi qua e là di quelle punte ironiche se non comiche di cui la personalità di Tadini era tutt’altro che esente nel suo passeggiare in scioltezza tra conversazione alta e toni più giocosi e divertenti. Basti leggere l’articolo del 23-24 maggio 1963 sulla moda franco-americana degli «happenings» per apprezzare la verve ludico-parodistica nel racconto dei nuovi fenomeni in voga: «L’ambiente può essere una galleria d’arte, ma va bene anche un salotto… Gli amatori si siedono lungo le pareti. Poi entrano gli autori-attori e fanno qualcosa, non importa che cosa, purché sia fuori luogo. Se poi, oltre che fuori luogo, è anche piuttosto rivoltante, va ancora meglio». Si va dunque dal vomito sulla propria giacca alla passione di impacchettare tutto ciò che capita alla vista, compresi gli spettatori. Interessante la conclusione a cui arriva Tadini nel dispiegare un confronto con le provocazioni dadà di inizio secolo, «clamoroso tuffo nel buio dell’irrazionale, eseguito, clamorosamente, in pubblico». Vero scandalo, insomma, laddove per gli americani e i francesi d’avanguardia il «gioco degli happenings» è «manifestazione mondana, qualcosa di simile alle recite arcadiche che si tenevano nelle corti del Settecento». Conclusione: «Costa così poco, in fondo, ed è così eccitante, trovarsi dalla parte dell’avanguardia!». Chissà come riderebbe Tadini di tante eccitanti «trasgressioni» attuali.
Articolo di Paolo di Stefano per Il Corriere della Sera
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