Il teorico della paesologia Franco Arminio tenta il salto: da scrittore di qualità, appartato e insolito, a scrittore di successo, col rischio di scivolare nel banale e nel luogo comune.
La nuova letteratura impegnata segue soprattutto due strade, e non di rado le percorre entrambe. Da un lato denuncia le ingiustizie della società, per stigmatizzare il male; dall’altro si propone come terapia, per identificare il bene.
Il nuovo libro di Franco Arminio ha un titolo inequivocabile, La cura dello sguardo, e un sottotitolo perfino più eloquente: Nuova farmacia poetica. (Bompiani, Milano, pagg. 202, € 16).
Franco Arminio
Nella nota introduttiva, l’autore si presenta come un malato e insieme un guaritore, armonizzando due sottogeneri narrativi oggi fra i più diffusi: opere che raccontano un’infermità, opere che propongono qualche forma di assistenza o auto-aiuto. Alla confluenza tra i due ambiti, Arminio offre «istruzioni semplici», «consigli che posso dare, piccoli precetti fatti in casa» – dove l’accento cade tanto sull’artigianato, quanto sull’efficacia della scrittura («la poesia è letteralmente un farmaco»; «la lingua è una grande cura»; «la medicina del futuro è la poesia»). Anche al di fuori dei confini del libro, Arminio insiste molto sul sollievo che la letteratura non può più esimersi dal procurare; in suo recente intervento sulle pagine del «Corriere della sera» afferma che «scrivere è sollevare la trave che ogni giorno ci cade sulla pancia», e che «oggi nessuno ha tempo da perdere con la letteratura che non sa consolare, che non sa orientare».
Il cenno al tempo da risparmiare (per chi legge ma direi anche per chi scrive, visto che Arminio ormai pubblica un libro all’anno) collega con chiarezza la questione dell’effetto a quella delle forme. Per funzionare, cioè per agire sul numero più alto possibile di lettori, un testo deve essere veloce: «un mondo che si è fatto velocissimo richiede una letteratura semplice e breve, diretta e limpida»; «molti ancora indugiano a scrivere come se le persone avessero ancora tempo per star dietro ai giochi con la lingua». Certo, Arminio rivendica per sé una parola non solo semplice, ma anche «densa» (non c’è scrittore disposto a riconoscere di scriver male). E certo in teoria non c’è incompatibilità tra linearità del dettato, apertura al pubblico e ricchezza culturale e psicologica. Ma in pratica è davvero questo il caso della Cura dello sguardo? Quanta densità contiene questa parola diretta e superveloce?
Aprendo il libro di Arminio troviamo innanzitutto una grande quantità di “poesia”, intesa come emotività decomplessata; ma una poesia che si dispiega quasi sempre nella prosa – cioè senza la fatica, la scommessa e il rischio dell’andare a capo (i testi versificati sono sei in duecento pagine). Il lirismo in questione è apertamente sentimentalistico: si esprime attraverso analogie canoniche («l’anima non è nient’altro/che una rosa»), o similitudini acrobatiche («ora ho il cuore come un pulcino e la punta si solleva, si apre, come se potessi nutrirlo di qualcosa») – le une e le altre potranno essere considerate, a seconda dei punti di vista, di energico impatto emotivo, e quindi di comprovata efficacia, oppure di raggelante cattivo gusto. Vengono somministrate – è il caso di dirlo, trattandosi di una farmacia poetica – forti dosi di oltranza metaforica («uscivano frasi piene di vento»), alternate però a fraseologia corriva («Il Molise è un luogo appartato e schivo»): una miscela di pathos e luoghi comuni sempre più frequente nelle scritture contemporanee che non hanno o non vogliono più avere il tempo di rileggersi. Simmetricamente, sovversioni ben temperate («Nessun giorno senza un rischio», «Sia benedetto ogni vizio») fanno macchia ogni tanto tra molte considerazioni di generosa ovvietà, dalle quali dissentire è impossibile («siamo troppi e troppo invadenti rispetto alle altre creature del pianeta»; «dobbiamo trovare il modo di tenere vivo l’amore»; «dobbiamo frenare l’isteria di questo mondo»).
Prevale un clima diffuso di fiducia e speranza («Esulta per la cena, per il sonno, per l’abbraccio, canta ogni letizia, ogni terrore»), che non rinuncia però a qualche escursione drammatica («ogni attimo è un testamento»), e a qualche generica, innocua, perfino tenera insubordinazione a un potere non meglio identificato («a un metro nemmeno il suo odore puoi sentire. Chi comanda è contento di questa spartizione»; «non ci vuole la normalità, ci vuole la rivoluzione»). Le strizzate d’occhio ai grandi eventi della cronaca (dal coronavirus al crollo del ponte Morandi) convivono con rinvii magniloquenti a grandezze assolute («Ci vuole un testimone per i nostri incontri, un garante dell’infinito»).
Come si vede la sintassi è piana, liscia, elencatoria – al riparo da complicazioni inutili come subordinate o incisi, semmai disposta alle pause e allo stile nominale. Anche perché raramente le prose superano la misura della singola pagina; il metro più comune è quello del foglio di diario, o dello status da social, solcati entrambi da formule predicatorie («Se decidete qualcosa, che sia una decisione chiara»), o slogan veri e propri («Carezze e intimità per tutti»). Lessico basic, in sintonia morale col «dovere di essere limpidi»; ogni tanto qualche neologismo per segnare col minimo sforzo uno scarto “artistico” dalla lingua comune («questi attimi di bene che si scastrano dal muro della mestizia»). Colpisce non solo nella lingua ma nella struttura stessa del libro il tasso scarsissimo di allusività; così decontestualizzati e soli, i pochi contatti con la tradizione letteraria hanno il sapore del plagio più che del dialogo («Ho scoperto che si può fare l’amore con un’ombra, ombre noi stessi» è per esempio un calco montaliano: «ma è possibile,/ lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi»). Anche questo significa andare veloci: risparmiare al lettore il confronto con forze remote e sempre meno decifrabili come il passato culturale, limitarsi a prelevare di peso un frammento memorabile e usarlo a scopo suggestivo.
Può sembrare bizzarro che un autore come Arminio, da sempre identificatosi con la poesia della civiltà contadina – che è logico associare alla lentezza, se non proprio all’immobilità – si presenti adesso come un campione della fretta, che accosteremmo piuttosto alla tecnologia, al digitale, ai mass media. Ma in realtà non c’è contraddizione: l’apologia della marginalità e del tempo lungo («mi piacciono i luoghi scartati», «la purezza dei contadini di ottant’anni»), come il rifiuto della tecnologia («lasciare il telefonino per un paio di ore al giorno»), si esprimono nella Cura dello sguardo attraverso uno stile sbrigativo, frammentario e senza spigoli che è tutt’altro che “periferico”, ma al contrario dominante, imperialistico e social. Il tutto lubrificato da un pensiero a sua volta veloce, perché consensuale: perfettamente sincronizzato al senso comune di quelli che Arminio riconosce come i suoi lettori. L’adesione alla periferia è quindi un mero contenuto (alla moda, tra l’altro); la gamma delle scelte di stile è di fatto la più globale che esista, la più vicina alle regole della comunicazione di massa. E come la comunicazione stessa, Arminio si fa veloce e facile per essere alla portata di tutti.
Nella Cura dello sguardo c’è un passo, rivelatore, in cui chi scrive esprime il proprio umanissimo bisogno di conferme: «Ho sempre cercato vanamente l’approvazione del paese, come quella del padre. Ma forse per un poeta questa è la cosa più difficile». Infatti. Per molto tempo Arminio ha cercato l’approvazione della critica, che lo ha consacrato scrittore “di qualità”; adesso cerca l’approvazione di un pubblico vasto, che lo consacri scrittore “di successo”. E tuttavia non si può dire che il suo impianto retorico sia sostanzialmente cambiato (come non è cambiato il suo ansioso bisogno di padri); si è solo adeguato a un posizionamento differente, attenuando i marcatori stilistici associati alla qualità “per pochi” (per esempio il registro lugubre e autoptico, l’ipocondria nera, l’ironia fantastica, la fissità elencatoria) ed enfatizzando quelli che si associano alla letteratura “per tutti” (per esempio l’enfasi sentimentale, lo slancio terapeutico, i picchi patetici, i dispositivi oratori). Ma gli uni e gli altri erano già presenti nella sua scrittura; lo provano veri e propri remix, per cui brani della Cura – «sono stato bene solo nel 1979, tra novembre e dicembre» – si rivelano minime interpolazioni di testi che Arminio ha pubblicato dieci anni fa, in libri celebrati dalla critica più esigente («Ugo Fusco si è sentito bene nel 1976, tra maggio e giugno»).
Il percorso di questo autore, al di là di ogni liquidazione o idolatria, è interessante per almeno due ragioni: mostra dove va la letteratura che vuole farsi leggere da molti, e quale prezzo può pagare per realizzare questo scopo; fa riflettere sulle contraddizioni della critica – su come la qualità, al pari dell’impegno, possa rivelarsi niente più che un’etichetta.
Articolo di Gianluigi Simonetti per il Sole 24 Ore
I pensieri impensati di Franco Erminio, poeta dei paesi spopolati, che non sono piccole città, ma ricchezza felicemente inoperosa, destinata a salvare le città, ridotte dalla modernità a terre desolate.
Fatemi un favore, dice Franco Arminio, alla fine di ogni suo incontro con il pubblico, andate a visitare un paese più piccolo del vostro, se il vostro paese conta seimila abitanti visitatene uno che ne ha quattromila, se ne ha quattromila andate in uno più piccolo, e così via, senza motivo, senza che ci sia una sagra, una festa, un evento, andateci e basta. Poi cercate una persona anziana, sedetevi vicino a lui o a lei, e ascoltate quello che ha da dire. “I paesi per prima cosa bisogna guardarli, andare a trovarli con un moto di passione. Attraversarli e guardarli”. Salvarli con gli occhi, come scrive in una delle sue poesie più belle. Chissà se in Italia i paesi in via di spopolamento si salvano in questo modo, chissà se davvero vanno salvati o se interessa a qualcuno farlo. Sono più di vent’anni che il poeta e paesologo Arminio scrive e si occupa di questi temi: il suo oggi può suonare come appello ingenuo, poco realistico, tuttavia non lo è affatto.
Nel 2019 appare più chiaro che la via dell’attenzione sia l’unica possibile. Mescolare geografia e commozione, poesia e etnologia, politica e canti. “Non ho mai creduto alla morte dei paesi. I paesi si trasformano. Soprattutto, non bisogna pensare al paese come città mancata”. L’hanno capito l’economista e politico Fabrizio Barca, il ministro per il sud Peppe Provenzano ascoltano questo signore dell’Alta Irpinia che predica la poesia come forma di conoscenza. Lo aveva capito per primo Gianni Celati che nel lontano 1992 pubblicò Arminio nella raccolta Narratori delle riserve (Feltrinelli), e scrisse che il suo “era un modo del tutto inedito di guardare le cose al sud”.
Bisaccia, provincia di Avellino
La paesologia non è altro che una forma di attenzione. E forse non sono le città che salveranno i paesi, ma viceversa. Quelle città che in tutta l’Europa vanno a una velocità diversa dal resto delle province che le circondano. Dovremmo cominciare a pensare che i paesi “felicemente inoperosi” dell’Italia interna, quelli abbandonati dalla politica, quelli di cui si occupa il forum Diseguaglianze diversità presieduto da Barca, sono la ricchezza di una nazione fatta da una miriadi di piccoli comuni e attraversata in verticale da una lunga catena montuosa oggi sempre più disabitata e divisiva.
Bisaccia. Per ripopolare il paese il sindaco ha proposto la vendita delle case a 1 euro
Un processo Dal vivo Franco Arminio non ha i toni del predicatore laico, quelli che ti aspetteresti dopo aver letto le sue poesie, poesie che a volte sono scritte in forma di preghiera e fanno pensare talvolta a un nuovo francescanesimo. È un uomo simpatico, insonne, coltissimo, una “creatura dell’urgenza”, come lui stesso si definisce, un’anima svelta, secondo un mio personale distinguo che applico alle persone che incontro. La lentezza non è prevista nei movimenti di quest’uomo vicino ai sessanta, la sua vitalità è quella del ragazzo. Racconta che da bambino non riusciva a stare fermo, né a scuola né in chiesa né in pizzeria: non è cambiato di molto.
A Gubbio arriva in una giornata di diluvio per il festival “Umbria in voce”, quinta edizione di una piccola ma preziosa festa della voce diretta e ideata da Claudia Fofi. In Geografia commossa dell’Italia interna scrisse che l’Umbria è “una terra inchiodata, incastrata al centro d’Italia, terra che non luccica, non freme”.
Bisaccia
“Non conosco bene queste terre, ma non sento un grosso fremito, no. L’esito delle elezioni regionali non mi ha stupito per nulla. Per ricostruire le zone terremotate, bisogna che ci siano delle energie telluriche, mentre qui in Umbria non ci sono. Certo, ci vogliono i finanziamenti, le burocrazie, ma se un paese sta morendo è difficile che riesca a ricostruirsi. La ricostruzione è il completamento di un processo che era già cominciato prima del terremoto. Adesso c’è un grande lavoro da fare, non bisogna ricostruire i paesi, ma le cose”.
Arminio ha cominciato a scrivere proprio raccontando la ferita più grande, quella del terremoto dell’Irpinia. “Andare nei paesi è stata una scoperta, un processo che adesso è diventato consapevole. Un tempo andavo nei posti per vedere, non per essere visto. Adesso sono un famoso sconosciuto, ma rimango abituato al vento contrario che di solito mi accoglie nei paesi. Scrivo per riparare il vaso rotto, trasformare le ferite in opportunità”. I viaggi per lui sono uno scarto tra un posto e l’altro. Un modo di sentirsi al confine tra un luogo e l’altro. “Il paese da cui vengo e dove vivo, Bisaccia, è tra Campania e Puglia, e la mia scrittura è tra prosa e poesia”.
Grazie a questa scrittura, Arminio ha conquistato un seguito notevole. Basta andare a sentire uno dei suoi incontri, quasi mai nelle città, raramente nelle librerie – “Le librerie no, non mi piacciono, non c’è mai l’atmosfera giusta” – per rendersene conto. Arminio spiega che lui vende direttamente i suoi libri, che a sua volta compra dalla casa editrice, o alle presentazioni o tramite il baratto: “Mi mandano olio, salumi, regali di ogni tipo, e io spedisco il libro”.
L’impatto che ha sulla gente, anche sui non lettori, è di certo anche frutto di un lavorio continuo e molto pionieristico sulla rete, quella rete che come dice lui “ha unito le città e i paesi”. Autore di una ventina di libri, le sue raccolte di poesie hanno avuto un’accoglienza non comune: Cedi la strada agli alberi ha superato le ventimila copie; L’infinito senza farci caso, uscito da poco per Bompiani, ha già venduto novemila copie. Se si escludono i libri di Guido Catalano o altri “poeti” nati per così dire su internet, nessuno in Italia ha raggiunto un pubblico di lettori così ampio scrivendo in versi.
Strade i Bisaccia
Canto, poesia, stile Al festival di Gubbio è arrivato per un reading-concerto assieme ai figli Livio e Manfredi. Lui insiste sempre sull’importanza del canto. Il canto e la poesia sono forme di conoscenza, ripete, la letteratura è una forma di conoscenza. Di più, sono forme di politica: spazi che possono riconnettere le persone per un tempo più o meno breve e attraverso una comunanza di intenti. Momenti in cui si costruiscono quelle che lui chiama “intimità provvisorie”.
Arminio lavora moltissimo sulla lingua e non lascia mai la presa della frase: “Sono molto legato alla lingua, alle sue sfumature. La lingua è la mia stella polare. La letteratura è come si dicono le cose. Il mio ultimo libro è una raccolta di poesie d’amore scritte in un linguaggio semplice, ma a me non interessa l’amore in sé, m’importa della lingua. Anche in prosa, non faccio reportage, ma introduco sempre un elemento incongruo, immaturo, arbitrario”.
A differenza di uno scrittore come Roberto Saviano – che lo ha definito “uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato” –, Arminio interpreta l’impegno in un modo diverso, non gli interessa denunciare . “Non penso che i paesi moriranno o comunque non mi interessa. Il punto non è un paese morto in più o in meno. Il punto è che la nostra cultura politica, i nostri intellettuali non s’interessano dell’Italia interna o lo fanno in maniera terroristica. Non serve denunciare, ma fare le politiche giuste. Invece le politiche liberiste sono miopi perché hanno puntato sul risparmio, sui tagli. Mentre bisogna valorizzare il capitale umano virtuoso, bisogna premiare chi fa cose belle. Ci vuole più politica, non meno politica, perché per premiare devi essere forte. Per questo mi sono candidato”.
Una strategia Franco Arminio si è candidato ben tre volte senza mai essere eletto: una con il Partito democratico al tempo di Walter Veltroni, cinque anni fa con la lista Tsipras e una nel maggio scorso come sindaco di Bisaccia, il paese dove vive, in Irpinia, con una lista civica.
Zungoli Avellino, case a 1 euro
“Alla sinistra manca completamente una narrazione sui paesi e sulle zone montuose. Non sa letteralmente che dire, il Pd pensa che il distacco sia una qualità, non lo è. La Lega invece ha una radice popolare, poco salottesca. Lo dico sempre a Peppe Provenzano: potete fare tutti i dispositivi legislativi che volete, ma se il vostro partito non ha una narrazione sui luoghi e non considera giovani e vecchi, non serve a nulla”.
Che cosa bisogna fare dunque? “L’importante è coinvolgere tante persone nella strategia contro lo spopolamento: penso ad artisti e intellettuali che vadano nei piccoli luoghi e motivino le persone a restarci. Non credo sia solo una questione di opportunità economiche. Bisogna che ci siano giovani agenti di sviluppo locale che vadano fuori a fare esperienze e poi siano chiamati a risiedere per lunghi periodi nei paesi. In un piccolo centro spesso il capitale umano va alla malora. Provenzano deve avere il coraggio di individuare dei meccanismi per premiare i virtuosi. E gli intellettuali non possono stare alla finestra, devono assumere la questione delle aree disagiate dell’Italia come una questione cruciale. Poesia e impegno civile a servizio dei piccoli paesi. I paesi li salvano persone che vanno e vengono, che portano intimità e distanza”
Per i paesi ci vogliono pensieri impensati, dice Arminio. Di fronte alle notizie delle sardine che hanno invaso le piazze, viene da dire che a volte i pensieri impensati sono quelli giusti. Tuttavia, il nuovo movimento si esprime di più nelle piazze della città, mentre la Lega – per fare l’esempio di una regione dove si andrà al voto a gennaio 2020 – in Emilia-Romagna prevale nei piccoli paesi, in vaste aree dell’Appennino, in varie zone della Bassa e nel delta del Po. Il fatto è che in Italia le aree interne rappresentano il 52 per cento dei comuni; il 22 per cento della popolazione e circa il 60 per cento della superficie. Il territorio montano rappresenta il 35,2 per cento della superficie nazionale, ma ci abita solo il 12,2 per cento della popolazione.
Il problema della mobilità è enorme. Nell’entroterra le strade e le linee ferroviarie non funzionano o scarseggiano; mentre in senso verticale, quelle che collegano il sud con Torino o Milano, funzionano. “È l’Italia voluta da Agnelli. L’Italia interna era più collegata ai tempi dei romani”. In questa Italia, lo spopolamento è molto forte anche nel nord. “Nel settentrione l’effetto dei paesi vuoti è ancora più grande perché le persone stanno meno in giro, anche per via del freddo. Eppure, le città di quelle regioni sono più attrattive rispetto a quelle del sud. A Bisaccia restano quasi quattromila persone, perché intorno a noi le città vicine sono Foggia, Avellino, Benevento, Potenza: città dove non trova lavoro neppure chi ci abita”.
Alcuni paesi stanno scomparendo. Altri sono stati snaturati da una modernità che porta solo desolazione, ma qualcosa c’è ancora. Un tessuto da cucire c’è. Proviamo per questi anni futuri ad ascoltare l’insegnamento di Franco Arminio, non resta che pensare un po’ meno alla storia e un po’ più alla geografia: “Amare è un impegno da geografi, /esploratori che mentre vengono accolti / si fanno terra da esplorare”.
NEL MANIFESTO DI TREVICO LA RISCOSSA DELLE COMUNITA’ E NUOVO UMANESIMO- I PICCOLI PAESI NELLA VISIONE DI FRANCO ARMINIO POETA E SCRITTORE IRPINO-ESSERE PAESANI MA CONNESSI CON IL MONDO
“Se vai da una persona che sta male non gli reciti un sonetto, ma gli stringi la mano e la guardi con affetto”
Panoramica di TREVICO, alta Irpinia
Al parlamento comunitario di Trevico può accadere di tutto. Per esempio, che nel bel mezzo di una discussione politica qualcuno si alzi in piedi e declami: “Mondo cosa dici, la bellezza sta mettendo le radici”. Pure gli animali, in questo singolare consesso, hanno diritto a intervenire, e allora può andare a finire che ci si trovi ad attendere che un gallo, “simbolo della rinascita agricola”, lanci al microfono il suo personale chicchirichì. Infine, chi avrebbe mai potuto immaginare di ascoltare Somebody to love in versione irpino-lucana, con tanto di arpa e fisarmonica?
Come spiega il poeta, scrittore e agitatore culturale Franco Arminio, che ne è l’ideatore, “i parlamenti comunitari sono composti di casi unici e irripetibili”: il musicante Sergio Santalucia che compone in versi nel dialetto di Montemurro – la “dolce provincia dell’Agri” del poeta Leonardo Sinisgalli – la cantante-performer lucana Caterina Pontrandolfo, il cuntista di Altamura Donato Emar Laborante.
Sono i cervelli che hanno resistito alla grande fuga dai paesi del Mezzogiorno interno, quelli che trovo riuniti in un week end di fine febbraio alla Casa della paesologia di Trevico, “il balcone della Baronia”, quel pezzo d’Irpinia d’oriente che si allunga fino alle Murge pugliesi.
La casa nativa di Ettore Scola a Trevico, oggi sede della casa della paesologia
Qui, nel comune più alto della Campania (siamo a quasi 1.200 metri d’altitudine), si sono date appuntamento alcune centinaia di persone che rivendicano con orgoglio il patrimonio, umano e immateriale, di un pezzo di sud Italia in via di dismissione: i centri storici, il silenzio, il vento, “l’abbandono che diventa beatitudine”.
Oggi si può essere paesani in un modo diverso rispetto al passato, non provinciali ma connessi con il mondo
Qualcuno di loro è emigrato e poi rientrato, come Daniele De Michele, alias Don Pasta, dj-performer e “gastrofilosofo militante”, che ha abbandonato gli studi da economista a Parigi per dedicarsi alla parmigiana di melanzane alla salentina e a John Coltrane. Oggi trascorre il suo tempo a farsi invitare a pranzo o a cena da contadini e pescatori per carpire i segreti profondi delle ricette tradizionali, “figlie della condivisione di informazioni tra le persone che appartenevano a una comunità, un’intelligenza collettiva finita vittima della modernità”.
Pure l’antropologo Mauro Minervino è tornato a studiare e raccontare la sua terra in libri come La Calabria brucia (Ediesse) o Statale 18 (Fandango), e descrive la discrasia tra le centinaia di comuni della Sila e l’enorme e disordinata crescita urbana sulla costa, un ammasso informe di abitazioni tenuto insieme dalla “strada” che, costeggiando il mare, circumnaviga la regione per quasi 900 chilometri. Oggi, dice, “si può essere paesani in un modo diverso rispetto al passato, non provinciali ma connessi con il mondo”.
Ettore Scola, fra i maggiori registi italiani, morto quest’anno
Tra un bicchiere di vino e una fetta di caciocavallo, al parlamento comunitario si discute pure di politica, dalle pale eoliche alle imposizioni europee che cambiano la vita dei contadini. I paesologi sognano “un ’68 delle montagne” e si chiedono perché “la nuova sinistra debba sempre nascere a Roma”. Stilano un documento nel quale si legge: “Noi proponiamo l’intreccio di poesia e impegno civile. Abbiamo bisogno di poeti e contadini. Amiamo Pasolini e Scotellaro, amiamo chi sa fare il formaggio, chi mette insieme il computer e il pero selvatico”.
È il manifesto politico della paesologia, singolare scienza naturale e sociale che il suo inventore Franco Arminio da Bisaccia, un piccolo comune poco lontano da qui, definisce come “una forma di attenzione ai paesi, in un momento in cui ai paesi non pensa nessuno, neppure chi li abita”. Lo scrittore irpino ha fatto del “viaggiare nei dintorni” un marchio di fabbrica: i suoi libri, da Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza) a Terracarne (Mondadori), raccontano virtù e contraddizioni di un sud ai margini delle mappe mediatiche. “Quando ero bambino davanti a ogni casa vedevi un animale: un asino, galline, il maiale. Nel 1960 a Bisaccia c’erano tremila muli, quando stavano male li curavano, la morte di un animale era considerata quasi più grave di quella di una persona”, racconta.
Marcello Mastroianni e Sophia Loren in una scena di Una giornata particolare, il capolavoro diretto da Scola
Oggi invece della “civiltà contadina” narrata dal paesologo ante litteram Rocco Scotellaro, sindaco-poeta di Tricarico nella Basilicata del dopoguerra, rimangono poche tracce. I cultori dei piccoli paesi vogliono recuperarne innanzitutto lo spirito comunitario e il rapporto viscerale con i luoghi e la natura.
Potrebbe apparire un raduno di nostalgici del piccolo mondo contadino antico, questo parlamento comunitario riunito su un cocuzzolo dell’Irpinia, ma non è così. Nel “manifesto di Trevico”, approvato dopo tre giorni di discussioni, si leggono richieste politiche molto precise: l’istituzione di un parco rurale “che parta dall’Appennino ligure e arrivi fino alle montagne della Sicilia”, una legge sui piccoli comuni “che favorisca con investimenti importanti il riequilibrio delle popolazioni sui territori”, lo stop al consumo di suolo e una politica che favorisca l’aumento della superficie agricola utilizzabile. Inoltre, si chiede che gli investimenti nell’eolico siano pubblici e non privati, si dice no allo “sfruttamento delle risorse naturali” e si decide che il 17 aprile voteranno sì al referendum per fermare le trivellazioni petrolifere.
Franco Arminio, poeta e scrittore, erede di Rocco Scotellaro e animatore del movimento paeseologo
Inoltre, scrivono, “per fermare l’anoressia demografica bisogna mettere al centro il lavoro giovanile e trasformare i piccoli paesi da musei delle porte chiuse e degli anziani soli a luoghi di accoglienza per i migranti, per i nuovi agricoltori e per gli artisti”. Qualche tempo fa, lo stesso Arminio aveva lanciato una provocazione: “Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati”. Nessun sindaco aveva raccolto la proposta.
La sera si proietta uno dei primi film di Ettore Scola: Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam, sceneggiato dall’allora caporedattore della redazione torinese dell’Unità e futuro sindaco comunista di Torino Diego Novelli. Girato in 16 mm e prodotto dalla Unitelefilm, la casa cinematografica del Pci, è la storia di un giovane emigrante, Fortunato Santospirito, che va a lavorare a Mirafiori, si avvicina alla politica grazie a una studente di Lotta continua ma alla fine si decide a tornare a casa per cambiare le cose nella sua terra.
L’abitazione del regista di Brutti sporchi e cattivi e di Una giornata particolare, 350 metri quadri più 80 di terrazza donati al comune da Ettore e suo fratello Pietro perché fosse messa a disposizione dei cittadini della Baronia per attività culturali, è stata trasformata in casa-museo e i paesologi la usano per le loro iniziative. Si trova in un vicolo a pochi metri dalla bella piazza sulla quale spicca un grande tiglio, nel punto più alto e ventilato del paese, dove nelle estati dell’infanzia di Ettore Scola, in occasione della festa del patrono sant’Euplio, il 12 agosto, veniva montato un telone bianco e i proiezionisti ambulanti facevano conoscere il cinema ai cittadini (come nella Colombia del giovane Gabriel García Márquez, dove due emigranti irpini, i fratelli [Francesco e Vincenzo Di Domenico]( http://www.treccani.it/enciclopedia/colombia_(Enciclopedia-del-Cinema)/), portarono la settima arte nelle piazze agli inizi del novecento).
Franco Arminio insieme a Vittorio Sgarbi
Fu in questa piazza attraversata dai venti provenienti dai Balcani che il futuro cineasta – come ha raccontato in Ridendo e scherzando, il film autobiografico che gli hanno dedicato le figlie Paola e Silvia – vide il suo primo film, portato in giro da proiezionisti ambulanti: Fra’ Diavolo di Hal Roach, con Stanlio e Ollio, la coppia più famosa del cinema comico.
A Trevico, diceva Scola, la scelta era tra “fare il calzolaio o il falegname, due mestieri che mi affascinavano: da ragazzino frequentavo tutte e due le botteghe, e per una parte della mia vita ho pensato che quello potesse essere il mio destino”. Non è andata così, naturalmente, e oggi un manifesto funebre ricorda l’illustre concittadino, figlio del medico condotto e nipote del notaio che durante il fascismo fu anche podestà.
Leonardo Sinisgalli, in un autoritratto. Scomparso nel 1981, fu a lungo responsabile della rivista Pirelli, fucina della cultura industriale in Italia
Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam è apprezzato, piace la scelta alla Pasolini di non usare attori professionisti ma operai meridionali veri, ma tra i paesologi fa discutere la scelta artistica di non mostrare mai Trevico. In realtà, a ben scavare, il paese d’origine fa capolino qua e là nelle opere di Scola: la Maria Libera di Brutti sporchi e cattivi è la Madonna locale, mentre in una scena di Splendor viene montato un telone bianco in una piazza flagellata dal vento.
La cantante e attrice Caterina Pontrandolfo
In questo paese di poco più di mille abitanti affacciati su una splendida vallata, dove oltre a un bar e a un generi alimentari non c’è più nulla, i paesologi hanno risistemato una vecchia casa del centro storico. Ora è a disposizione, per tutto l’anno, di chi versa una sottoscrizione a un’associazione chiamata Comunità provvisoria: ci si può venire per una residenza letteraria, un progetto artistico o anche solo per una vacanza.
Rocco Scotellaro, nel dipinto di Carlo Levi indimenticato autore di Cristo si è fermato a Eboli.
Tra i motti alle pareti, colpisce quello che recita “qui l’Italia un poco sparisce e questa è una cosa buona”. Seduto su un divano sotto una lavagna sulla quale troneggia la scritta “contadino”, Arminio spiega: “L’obiettivo è rivivificare questi paesi, altrimenti destinati alla fine”. Lui lavora a questo obiettivo da tempo. Ha cominciato anni fa nella non molto lontana Cairano, il comune più piccolo della Campania (ha poco più di 300 abitanti), dove aveva messo in piedi una “festa della luce e del silenzio” grazie al supporto economico di un emigrante illustre: Franco Dragone, regista teatrale e direttore per alcuni anni del Cirque du Soleil.
Poi è arrivato il festival estivo La luna e i calanchi ad Aliano: tre giorni di parlamenti comunitari, performance artistiche e reading di poesia nel paesino del materano che ispirò il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. La scorsa edizione ha registrato numeri record: 15 mila presenze. A Trevico, per ora, l’obiettivo è più modesto. Dopo la casa, si vuole mettere in piedi una “masseria paesologica”. Al prossimo parlamento comunitario, annunciano, parteciperanno pure dieci pecore.
Articolo di Angelo Mastrandrea NTERNAZIONALE del 6 marzo 2016