Oddio sembra impossibile: La voce del padrone ha quarant’ anni. Uno dei dischi più importanti della storia musicale italiana è stato pubblicato nel 1981, eppure sembra appena nato, tanto è vivo e vitale nella costruzione delle canzoni e nei testi. E che testi. L’ apoteosi di Franco Battiato, catanese, all’ epoca già abbastanza conosciuto, ma da allora conosciutissimo perché un album così capita soltanto una volta ogni tanto. La voce del padrone, già il titolo era un macramè di allusioni e riferimenti che gli anni di piombo rendevano ancora più stringenti e obliqui, dall’ omonima etichetta discografica con il cane di fianco al grammofono fino al filosofo mistico Georges Ivanovic Gurdjieff (1872 -1949).
Soltanto Franco Battiato avrebbe potuto farlo. Citazionismo e nonsense. Punk e marcette. Una tale sberla innovativa che impiegò quasi un anno ad arrivare in testa, sia quella degli ascoltatori, sia quella delle classifiche. Ma da lì non si è più mosso. Tutti ancora oggi mandano a memoria il ritornello di Cuccurucucù, oppure ammettono di cercare sempre «un centro di gravità permanente» partendo da «una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù».
Insomma, all’ alba degli anni Ottanta si presenta al pubblico nazionalpopolare un artista che oggi (a molti) piace definire trasversale, mal vestito e poco socievole, ma assai sociologo, che in sette brani non si lamenta soltanto del fatto che siamo «sommersi soprattutto da immondizie musicali» (Bandiera bianca), ma risolve anche il problema. Battiato è altro. Riconoscibile, ma inimitabile. Tra i cantautori e le canzonette, da allora c’ è lui, che sta tra color che son sospesi, che resiste a metà tra il pop che si può cantare e la musica che ha bisogno di essere capita, studiata, compresa.
Non a caso a fine marzo, poco prima che Battiato compisse 76 anni, la Universal ha pubblicato una sciccheria per tutti gli appassionati e, allo stesso tempo, una lezione per chiunque ami la musica: un remix in Dolby Atmos dell’ album in versione deluxe più cd a tiratura limitata e altre rarità come la ristampa del 45 giri Bandiera bianca/ Summer on a solitary beach in sole trecento copie. Curato dal «maestro» Pino Pinaxa Pischetola, è una delizia e ha molte «piccole» variazioni, come una versione di Bandiera bianca più veloce perché a Battiato era sempre sembrata un po’ troppo lenta. In ogni caso, nella pulizia tridimensionale di questi suoni si capisce una volta di più perché, oltre a citazioni stracolte da Fusinato a Milva, questo disco ha davvero dato inizio a un’ epoca nuova della musica leggera.
Intanto è uscito paradossalmente nel momento giusto. Se il 1980 aveva chiuso gli anni Settanta anche in musica (ad esempio l’ ultimo disco di Battisti e Mogol, Una giornata uggiosa), il 1981 inaugurò davvero gli anni Ottanta non soltanto nella musica. Alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan, all’ Eliseo si presenta Mitterrand, a Palazzo Chigi c’ è Spadolini, si scopre il virus dell’ Aids e si lancia il primo personal computer.
Persino la tv cambia drasticamente, con l’ angosciante diretta reality della tragedia di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, prologo forse inevitabile, ma di certo inquietante, delle telecamere che invadono anche la privatezza del dolore più devastante.
Senza essere un cronista del cambiamento, Battiato ne è un sensore decisivo, perciò La voce del padrone è anche il metronomo di quel cambiamento. Dopotutto Franco Battiato da Riposto, provincia di Catania, ha sempre avuto la forza di dire tutto senza ancorarsi a posizioni politiche, magari in cambio di ospitate o paraventi promozionali.
Quindi è sempre stato libero.
Così il verso di Bandiera bianca «in quest’ epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’ orrore» è una autorevole mannaia che cala su tante coscienze se non contigue, quantomeno silenziose sul terrorismo che aveva devastato il decennio appena passato e compromesso un plotone di intellettuali compiacenti. Ne inizia un altro, quello del reaganismo, ma anche di Wall Street che esalta i «pronipoti di sua maestà il denaro» e nei «minima immoralia» della musica (neologismo dai Minima Moralia di Adorno) Battiato abbatte le sovrastrutture ideali costruite intorno a Beethoven e Sinatra, ai quali «preferisco l’ insalata; a Vivaldi l’ uva passa che mi dà più calorie».
Sono ventate che hanno la sua firma tipica, e già avevano sfiorato i tinelli italiani con L’ era del cinghiale bianco e poi con Patriots. Ma la contaminazione a tratti irresistibile tra cultura altissima e Nicola Di Bari (Il mondo è grigio, Il mondo è blu citato in Cuccurucucù è il titolo di una sua cover con testo dello straordinario Giorgio Calabrese), tra la dinastia dei Ming al tempo di Padre Matteo Ricci e i «programmi demenziali con tribune elettorali» diventa la nuova chiave per leggere il nazionalpopolare. Lo dissacra. E lo ristruttura. Diventando un fenomeno.
La voce del padrone va per dodici volte al primo posto della classifica, diventando il primo disco italiano a superare il tetto del milione di copie vendute. Cifre allora, come oggi, impensabili.
Nell’ anno in cui scompare Rino Gaetano, coniatore di immagini irriverenti ma comunque popolari, esplode coram populo un maestro sofista e sofisticato che fa ballare in discoteca con brani a base di vibrafono, Hammond e sezione archi e con versi che talvolta sono composti esclusivamente da titoli di canzoni famose (in Cuccurucucù ci sono anche Lady Madonna, With a little help from my friends e Like a Rolling Stone di quel Bob Dylan che in Bandiera bianca diventa Mister Tamburino). In poche parole,
La voce del padrone è il disco poderoso di un intellettuale smarrito che vaga «over and over again» tra figure all’ apparenza casuali o insensate come i «furbi contrabbandieri macedoni» o «i gesuiti euclidei». Uno sperimentatore che vorrebbe andare «lontano a naufragare» (Summer on a solitary beach) ma resta a cercare un Centro di gravità permanente che gli dia sollievo, almeno per un momento, giusto per prendere fiato visto che non sopporta neanche «i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk ingleseeee».
Secondo Rolling Stone è il secondo dei cento dischi italiani più belli di sempre. Ma se il primo (Bollicine di Vasco Rossi) ha un enorme significato musicale e generazionale, La voce del padrone allarga l’ orizzonte e apre finestre culturali a un pubblico sterminato che da allora entra pian piano nel mondo di Battiato, senza peraltro mai riuscire ad abbracciarlo per intero.
Troppo complesso. Troppo, a tratti, avvolto dal fumo mistico della solitudine. Ora che lui si è ritirato ed è irraggiungibile, la sua resta la voce di un padrone della cultura musicale che neppure si può imitare. Non è difficile, è semplicemente impossibile.
Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo alcuni stralci di intervista da Franco Battiato tratti dal film e documentario Temporary Road di Giuseppe Pollicelli e Mario Tani. Il cofanetto uscito per la Nave di Teseo (dvd più libro di pagg. 92,euro 27, 2018) contiene appunto il film documentario di Giuseppe Pollicelli e Mario Tani, presentato al Torino Film Festival, e un libro di Franco Battiato (intervistato da Giuseppe Pollicelli), arricchito da foto del backstage, in cui l’artista rivive la sua carriera e le sue tante, repentine, rivoluzioni.L’intervista è di Giuseppe Pollicelli ed è stata pubblicata sempre da “il Giornale”
Alla fine degli anni Settanta ha inizio la collaborazione con Giusto Pio, poi rivelatasi decisiva nella tua affermazione come musicista pop.
«Pio è stato il mio insegnante di violino per tre anni e in effetti è con lui che ho posto le basi per il passaggio alla canzone».
Passaggio che è avvenuto con l’ album L’ era del cinghiale bianco del 1979. Tra coloro che parteciparono alla registrazione di quel disco, oltre al già citato Giusto Pio, c’ è Alberto Radius. In cosa è consistito il suo apporto?
«Il ruolo di Radius è stato importante in quanto fu lui a occuparsi delle chitarre (mentre al basso c’ era Julius Farmer, alle percussioni Tullio De Piscopo e alle tastiere Antonio Ballista e Roberto Colombo) e perché fu nel suo studio di registrazione che l’ intero disco venne inciso».
Per te L’ era del cinghiale bianco segna anche l’ approdo alla EMI, che resterà la tua etichetta discografica fino al 1995. Chi fu l’ artefice di questo passaggio?
«A propormi alla EMI nella mia nuova veste di cantautore fu Angelo Carrara, con cui ho collaborato fino alla fine degli anni Ottanta».
È vero che La voce del padrone, primo album italiano a superare il milione di copie vendute, era considerato dalla EMI la tua ultima chance dopo il parziale insuccesso dei due LP precedenti?
«No, non è affatto vero. L’ album Patriots, uscito l’ anno precedente, nel 1980, aveva venduto centomila copie e il singolo Up patriots to arms era andato benone. Io, peraltro, pensavo che la mia dimensione fosse quella, ritenevo di avere già toccato il mio apice di popolarità come musicista. Non avevo idea di cosa fosse la fama. L’ ho capito, con gli interessi, dopo il successo inaudito de La voce del padrone».
Come hai vissuto quel momento?
«Non bene. Volevo mollare tutto, è stato Giusto Pio a farmi desistere».
Aneddoti legati a quel periodo?
«In una discoteca sono stato letteralmente assalito, per diversi minuti, da fan impazziti che mi strattonavano di qua e di là. Finii con tutti i vestiti strappati. Dovunque andassi trovavo centinaia di persone ad attendermi. Un incubo. Una volta, addirittura, mi sono svegliato di notte, in un hotel, perché avevo sentito dei rumori: nella mia stanza c’ erano delle ragazze che ridacchiavano! Qualche sconsiderato, tra il personale dell’ albergo, le aveva fatte entrare. In che modo ne sei venuto fuori? Facendo l’ album L’ arca di Noè, che andava in tutt’ altra direzione rispetto a La voce del padrone e ha quindi disatteso le aspettative del pubblico. Vendette comunque molto, ma lo apprezzarono in pochi. La gente per strada mi diceva: A Battia’, non m’ è mica piaciuto! Era divertente. Ed è stata la mia salvezza».
Chi sono coloro che, a tuo avviso, hanno raggiunto le vette più alte del misticismo?
«I buddisti tibetani, il loro livello è il più elevato in cui io mi sia mai imbattuto. Uno dei cardini del buddismo è il superamento della materia.>
Questo tema si ritrova spesso nelle tue opere, compresi i tuoi film. Penso all’ anziano Beethoven che, in Musikanten, malgrado tutti gli acciacchi fisici e la grave limitazione all’ udito, non può fare a meno di comporre e, in tal modo, di tendere verso l’ alto.
«Liberarsi dalle catene della materia è fondamentale. Anche il nostro corpo è spesso un fattore che ci lega. Ricordo che una volta Michelle Thomasson, la moglie di Henri Thomasson (il quale fu uno dei principali discepoli di Georges Ivanovic Gurdjieff, il grande mistico e filosofo armeno capace di elaborare un sistema che ha reso accessibile a noi occidentali tanta sapienza orientale), essendo stata urtata da qualcuno cominciò a sanguinare copiosamente dal naso.
Be’, Michelle seguitò a parlare con la massima indifferenza, limitandosi a togliersi il sangue dal viso con la mano. Un esempio di controllo assoluto di sé, e di distacco dalle cose corporali, che non dimenticherò mai».
Ritieni di avere fatto qualche errore, nella tua carriera?
«Certamente, com’ è inevitabile ho commesso non pochi errori. Ma sono proprio gli sbagli ad aggiustarti il tiro. La cosa affascinante della nostra presenza su questo pianeta, per quanto illusoria essa sia, è la possibilità di effettuare delle comparazioni. È decisivo imparare a capire se una persona sia per te positiva oppure no: se sotto questo aspetto non sei svezzato, puoi finire in balìa di qualsiasi cialtrone».
I due pezzi che avete letti sono stati tratti dal sito DAGOSPIA
FRANCO BATTIATO, il cantautore di Milo, ha appena annunciato il suo ritiro dalle scene- Una lunga carriera dal pop alla musica di protesta, dalla canzone romantica a quelle colte e d’avanguardia, fino all’ ispirazione esoterica e di mistica quotidiana.- Ecco come un critico ne tratteggia il ritratto, fra divertito e beffardo.
IN FONDO ASCOLTATE TORNEREMO ANCORA, ULTIMO E INTENSO LAVORO DEL MAESTRO, QUASI UN TESTAMENTO SPIRITUALE
Un paio di giorni di fa, in un sabato di quarantena qualunque, la scrittrice Michela Murgia nel corso del programma in videochat Buon vicinato ha condiviso con la collega e conduttrice Chiara Valerio le seguenti considerazioni su Franco Battiato:
“Franco Battiato è considerato un autore intellettuale. E invece, tu ti vai a fare le analisi dei suoi testi e sono delle min… assolute, citazioni su citazioni e nessun significato reale. Togli due testi, forse, e il resto…. “
Parole che hanno scatenato il finimondo. I social networks sono stati invasi da inviti spesso non eleganti a farsi gli affari propri, a darsi ad altro rispetto alla musica, a tacere, a non intaccare la sacralità del maestro con chiacchiere e opinioni di bassa lega….. il giornalista Andrea Scanzi ha riassunto il tenore medio delle reazioni suscitate dalle battute di Murgia:
Gentile Murgia, dotata di qual grazia e infinita meraviglia, fammi il favore. Prima di parlare a caso (per non dir peggio) di Battiato, che sta peraltro combattendo una battaglia difficilissima ed è quindi oltremodo osceno attaccarlo adesso, raggiungi la bellezza assoluta di testi e musiche come Gli uccelli. Up patriots to arms. E ti vengo a cercare. Povera patria. Eccetera. O gli arrangiamenti monumentali di Polli di allevamento, che creò con Giusto Pio per Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Poi, quando avrai anche solo raggiunto un centesimo di tutto questo, e per ora tra le messe cantate a Radio Capital e le sbrosce mosce dei tuoi libretti neanche ti ci sei lontanamente avvicinata, parla. Se proprio devi…..
Nelle ultime ore, la scrittrice ci ha tenuto a precisare che era tutta una provocazione, che lei ha sofferto a dire quelle cose perché lei in realtà Battiato lo ama, e litigare per il gusto di litigare fa parte della trama del programma.
Il tema tuttavia è un altro. Con buona pace di Scanzi, le parole di Murgia al di là delle sue reali intenzioni ripropongono un’accusa che spesso è stata rivolta a Battiato: usare le proprie canzoni per uno sfoggio di cultura fastidioso, kitsch e senza senso. Canzoni che devono il loro successo al fatto che chi le ascolta può darsi un tono da intellettuale, risparmiandosi la fatica richiesta dal seguire la musica veramente intellettuale – la dodecafonia, il free jazz, la world music più sofisticata. In breve: Battiato sarebbe un autore di canzonette infarcite di citazioni inutili, che servono solo a far pensare a chi le ascolta che: “no, io le canzonette non le ascolto. Io ascolto Franco Battiato”. Non essendo un vero intellettuale, risulta essere un intellettualoide. Ma quanto c´è di vero in questa critica? Per rispondere a questa domanda, proviamo a partire da alcuni fatti che sembrano confermare un’ immagine negativa del Maestro.
A volte Battiato fa ridere
Il potenziale comico di alcune canzoni di Battiato è difficile da negare. Spesso il senso del comico nasce esattamente da un citazionismo a volte fuori controllo. Era davvero necessario incontrare Igor Stravinskij sulla prospettiva Nevskij? Ermeneutica non è forse un titolo un po´ pretenzioso? È un contributo estetico imperdibile raccontare che in un determinato punto nelle Strade dell´est fece campo tale Mustafa Mullah Barzani? Come ti salta in mente di pensare che due persone che si incontrano ad Alexanderplatz all´epoca del muro come prima cosa si chiedano “Ti piace Schubert?”? E soprattutto, per quale motivo buttare in mezzo a un delirio sul tramonto occidentale la seguente informazione: “Friedrich Nietzsche era veget-ariano, scrisse molte lettere a Wagner”? Davvero è possibile attribuire a queste citazioni una realistica pretesa intellettuale? Tutto ciò non fa semplicemente ridere?
Tramonto occidentale, uno dei momenti più deliranti della produzione del maestro. Synth aggressivi, quasi tamarri, sono il tappeto volante sul quale Battiato sale portandosi appresso i suoi deliri su vichinghi, famiglie in crisi, analisti, sigarette. Capisco che per qualcuno/a può essere davvero troppo.
Questo potenziale comico non è sfuggito a Stefano Bollani. Pianista jazz di livello mondiale, iper-virtuoso dello strumento, nonché efficace cabarettista, Bollani ha dedicato a Battiato Hai mai letto Kundera?, imitazione di un brano ipotetico del maestro. La musica piano-minimal alla Michael Nyman accompagna un testo che riunisce vari topoi di Battiato, come meccaniche celesti, dinastie dei Ming, parole inglesi a caso, oltre a libere re-interpretazioni sul tema, tipo: “pavoni di grandezza inusitata si scagliano sul cielo di Bangkok”. Il tutto cesellato da un drammatico monito: “non sottovalutate Kundera”.
Per qualcuno, l´imitazione di Bollani svolge un ruolo di smascheramento. Attraverso la parodia, si mostra che in realtà le citazioni di Battiato fanno ridere, e quindi non c´è niente di intelligente nell´ascoltare le sue canzoni. Sono appunto solo canzoni, e se fanno ridere, è perché Battiato le investe di pretese intellettuali fallite, il cui fallimento genera appunto un effetto comico. Sono canzoni intellettualoidi.
Questa argomentazione tuttavia è bacchettona e anche poco stringente dal punto di vista logico. Si basa infatti sull’assunto che una canzone che in alcuni passaggi suscita un sorriso sia ridicola o stupida. Ma in quale tavola delle leggi è scritta questa presunta legge della musica? Non è possibile che alcune canzoni di Battiato possano essere apprezzate proprio perché la densità spropositata e delirante di citazioni contribuisca a renderle paradossalmente lievi? Non è possibile che tramite questo delirio citazionista Battiato in realtà si prenda meno sul serio di un cantante indie che ci tiene tanto a farci sapere quanto ha sofferto in età post-universitaria? A volte non è meglio non sapere il senso di una canzone, o la presunta volontà o intenzione dell’autore che l’ha scritta? Certe canzoni non fanno schifo proprio perché purtroppo capiamo fin troppo bene il loro senso e la banale intenzione di chi le ha scritte?
La mia personale risposta a tutte queste domande è: sì. A conferma della mia ipotesi, porto Clamori, una canzone estremamente “intellettualoide” di Battiato, addirittura scritta assieme al mistico francese Henri Thomasson. Una canzone piena di parole difficili, isotopi, “nuclei pulsari, neutroni e quasari”. Eppure, una canzone leggerissima, soprattutto quando il maestro ammette di avere bisogno di “tonnellate di idrogeno”.
A volte Battiato scrive delle canzoni terribili
I critici di Battiato, magari presi in una serata in cui sono disposti/e a riscoprire il fascino di synth hardcore e di parole orientaleggianti, possono concedere questo punto. Ok, a volte le citazioni spropositate di Battiato fanno ridere, addirittura a volte contribuiscono alla levità e alla riuscita della canzone. Ma questo non accade sempre. Ci sono altri contesti sonori in cui il citazionismo contribuisce drammaticamente al disastro sonoro. “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”, scriveva il poeta.
Il problema è che a volte i frammenti non fanno da puntello, ma da struttura di episodi musicali a dir poco infelici. Questa lunga intro è il preludio a uno dei brani più sfortunati del maestro: Casta diva del 1998. Un brano fastidioso sin dal suo incipit – “Greca nascesti a New York” – in cui le invettive di Battiato contro il vile che rubò serenità e talento a Maria Callas vengono inframmezzate da acuti campionati della soprano. Ogni volta che la ascolto, una coltre di imbarazzo si impadronisce di me, e non mi abbandona per minuti, a volte persino per ore. Casta diva mi ruba la serenità, soprattutto quando Battiato ci ricorda che Maria Callas era “una ragazzina assai robusta”.
Dunque Battiato, come ogni cantautore/trice del resto, ha avuto le sue cadute. Talvolta queste cadute avvengono anche all’interno di canzoni che definire riuscite sarebbe un eufemismo. Lo so, anche voi state pensando a quel momento in cui nel bel mezzo di una delle canzoni di amore e affetto più struggenti degli ultimi decenni il maestro si ritrova in un campo del Tennessee, senza sapere come vi era arrivato. Ogni volta che ascolto La cura, l’intermezzo mi colpisce come un cazzotto in un occhio con una ferocia che non accenna a diminuire. Non mi colpisce nel senso che mi invita a riflettere, ma semplicemente perché lo trovo singolarmente brutto, fuori luogo e gratuito, soprattutto nel quadro della maestosità della canzone.
“La cura” del 1996 fa parte de L´imboscata, un disco dai suoni eccezionali con musicisti di livello internazionale. Segnaliamo tra gli altri Gavin Harrison, in seguito batterista dei King Crimson. Il passaggio nel Tennessee fa ancora più male in questo contesto.
Le canzoni di Battiato si reggono su un equilibrio fragile, in mezzo a vari azzardi musicali e testuali. Nelle canzoni menzionate l´equilibrio si rompe: la canzone si appesantisce, diventa fastidiosa, a volte quasi imbarazzante. Ma questo non avviene perché in quelle canzoni Battiato smette di fare il canzonettiere e prova a fare l´intellettuale, come vorrebbero i suoi detrattori. Alcune sue canzoni sono piene di riferimenti bizzarri e allo stesso divertentissime, in altre invece la miscela non funziona. È una questione di miscela, non di intenzioni, volontà, aspirazioni intellettuali. La compiacenza con cui qualcuno spera di vedere cadere il maestro nel suo volo oltre le sue reali possibilità è fuori luogo, manca il bersaglio, oltre a essere una forma inutile di moralismo pettegolo applicata alla musica.
Il Battiato incontestabile
Oltre queste polemiche, Battiato è un artista che sembra aver prodotto delle canzoni incontestabili. Difficile trovare anche tra i suoi detrattori qualcuno/a che non sia disposto ad ammettere che anche lui ha fatto delle cose buone. E ti vengo a cercare è uno dei suoi brani meno divisivi, insieme a La cura, forse Povera patria o L´animale. Tra i nerds e le nerds della musica sperimentale, il disco pre-svolta pop Sulle corde di Aries del 1973 è una pietra miliare difficilmente contestabile. Personalmente, ammetto di avere un debole per Sequenze e frequenze.
Ma anche qui, al di là delle elucubrazioni mentali sulle presunte intenzioni artistiche, il gusto soggettivo e forse anche la biografia giocano un ruolo insuperabile. Ad esempio per me il Battiato incontestabile è quello di Fleurs (1999). Una raccolta di brani classici degli anni ´60 e dintorni trattati con incredibile rispetto e originalità, proprio dove non ci si aspetterebbe originalità – un album di cover. Una serie di scommesse vinte, tra cui ci si può limitare a segnalare la migliore cover di De André mai registrata (“Amore che vieni amore che vai”), la semplicità di “Te lo leggo negli occhi”, e forse su tutte “Aria di neve” di Sergio Endrigo. Battiato sembra cantarla come se fosse una canzone scritta da sempre, che tutti conoscono ma non hanno mai sentito. E forse proprio un album di cover paradossalmente è il luogo migliore per poter apprezzare Battiato al di là della noia, delle chiacchiere inutili, delle lotte di bassa lega che si addensando attorno a quella parola lì: “intellettuale”.
Battiato come pretesto
Battiato, in breve, è un cantautore che tende a polarizzare. A molte persone non piace, altre lo adorano. Molte altre – ad esempio chi scrive – ama molto alcune sue cose, un po´ meno altre, e trova alcune sue cose davvero infelici. Ogni posizione è ovviamente legittima in sé stessa. Quello che non convince, è attribuire le fortune o le sfortune artistiche di Battiato al suo essere intellettuale, o per i suoi detrattori, “intellettualoide”. Da un punto di vista del giudizio estetico, chi critica le sue canzoni per via della loro presunta intenzione intellettuale, è allo stesso livello di chi le ascolta per sentirsi una persona più elevata culturalmente rispetto a chi si limita ad ascoltare che so, Lucio Battisti. In entrambi i casi, i giudizi sulle diverse persone – su sé stessi, su Battiato, su chi lo ascolta, su chi lo capisce – prendono il posto del giudizio sulla musica.
Colpisce sempre l’accanimento con cui ci si azzuffa per stabilire se Battiato abbia raggiunto lo status di intellettuale, oppure se abbia fallito, rientrando così nella triste categoria di intellettualoide. Ma colpisce ancora di più quanto spesso su questi giudizi si costruisca un’opinione estetica verso la sua musica: Battiato è un grande perché è riuscito nel suo presunto intento di essere un vero intellettuale; Battiato fa schifo perché le sue canzoni non rispettano le sue pretese intellettuali, e quindi risultano intellettualoidi. In questo modo, la musica viene appesantita da considerazioni pseudo-sociologiche e un po’ pulciare – se “ce l´ha fatta”, allora merita il nostro rispetto, altrimenti no, va ridicolizzato, come tutti quelli che vorrebbero innalzarsi al di sopra del loro status e falliscono, e ben gli sta. In entrambi i casi, sembra prodursi un tipico meccanismo di proiezione: probabilmente non è Battiato, ma sono alcuni dei suoi fan e alcuni dei suoi detrattori che lottano per definire e per raggiungere lo status di intellettuale. Usando la musica di Battiato come pretesto.
“Ti invito al viaggio…in quel paese che ti somiglia tanto, dove i soli languidi dei suoi cieli annebbiati hanno, per il mio spirito, l’incanto dei tuoi occhi, quando brillano offuscati. Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”
Sono i versi della canzone di Franco Battiato Invito al viaggio, ispirata a una poesia di Charles Baudelaire.
Li riporta nel suo bel articolo, apparso sul Foglio domenicale, Simonetta Sciandivasci, una giovane e brava giornalista, battezzata, materialista e meridionale, come si definisce.
Franco Battiato è da tempo malato, il suo ultimo album Torneremo ancora è stato accolto come fosse un testamento: contiene un solo inedito, che appunto dà titolo alla raccolta. Potete sentirla riprodotta in fondo all’articolo. Il video ha ricevuto migliaia di commenti in pochi giorni, troppi hanno il tono di un necrologio, tutti esprimono il rammarico per qualcosa che si ama e che si vede poco per volta spegnersi.
Le rovine del monastero di Ganden nl 1958, prima del restauro
Il cantautore ha una voce vacillante, incerta, quasi provenisse da lontano, da un essere in volo sulle vie di una terra senza confine, su quel mondo che offuscato si allontana ai suoi occhi, ma che pure continua a esplorare.
Non credo dispiaccia a Battiato l’etichetta dell’esploratore, del viandante, del migrante, da momento che nelle sue canzoni il viaggio è l’essenza stessa della vita. Errare, scrive acutamente Simonetta Sciandivasci, è sì un dolce e curioso vagabondare, una maniera per sottrarsi alle angustie e alla noia quotidiane, ma è anche sbagliare. Perché, come canta Battiato, se siamo esseri mortali caduti nelle tenebre, siamo anche costretti a cercare la verità senza trovarla, ma pure dobbiamo farlo, fino a che l’ultimo viaggio non ci apre quel mondo inviolato che ci aspetta da sempre.
Panoramica del monastero, di Ganden dopo gli interventi di restauro
Il contautore sente la morte vicina, ma l’affronta in Torneremo ancora con leggerezza, luminosità, la musica si trasforma in preghiera, con i toni di quella cura che vuole dire protezione, sostegno, amore.
Vista di Tozeut- Tunisia
Quanti luoghi ci ha fatto immaginare Battiato con le sue canzoni? Il Tibet con monastero di Ganden, la Tunisia di Tozeur, la Russia di Prospettiva Nevskij, i campi del Tennessee, ci ha fatto girare sui metro giapponesi. Scrive Sciandivasci: “ Come potrebbe essere questo un testamento, quest’altro viaggio… l’ultimo di decine di altri, tutti popolati da danzatori sufi, profughi afgani pellerossa americani, squaw pelle di luna, uomini con clave e uomini civili, vecchie bretoni, nomadi, viandanti, forestieri, pigmei dell’Africa, aborigeni dell’Australia.”
“Il mistero, per Battiato, è la legge davanti alla quale i vivi e i morti sono uguali, ed è la sola verità che sente di avere compreso e di volerci lasciare, non perché ci rimanga come testimonianza, ma perché valga come invito e sprone” per quel viaggio verso dove, come scriveva Baudelaire, tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà.
Roberto Ferri, vecchio amico e collaboratore di Battiato, ha detto alla stampa che avrebbe scritto con lui un brano inedito. In esso il cantautore direbbe: “E mi ritrovo a fissare il muro…oggi il cielo non si fa guardare… un giorno nasce, un giorno muore. Io, non sono più io… ho bisogno di sognare quello che non riesco a fare ed il mio sentirmi male mi fa credere anche in Dio”. Ebbene, quel “io non sono più io”, voglio interpretarlo non come un atto di resa al male, ma come l’inizio di un dialogo che un uomo, nella sua fragilità, ha oramai con Dio.