AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

IL FASCINO INTATTO DELLA BEAT GENERATION SULLE ORME DI KEROUAC E GINSBERG– DAI RICORDI DI GARY SNYDER, POETA PREMIO PULITZER, DALL’ALTO DELLA SIERRA NEVADA, LA STAGIONE DI ON THE ROAD E DI HOWL, CHE SCOSSERO L’AMERICA BIGOTTA E PURITANA.

Non accetto visitatori», premette e promette Gary Snyder, poeta americano, 87 anni, ultimo grande protagonista della Beat Generation e della rivoluzione hippy con Lawrence Ferlinghetti e Michael McClure. Ma se a San Francisco il 98enne Ferlinghetti ancora possiede l’ omerica libreria City Lights e McClure a 85 anni ha un’ esposizione pubblica intensa, Snyder è un eremita della foresta, affilato come il freddo dei suoi altopiani. Il suo segreto mondo antico Snyder lo ha battezzato “Kitkitdizze”, come i nativi Miwok qui chiamavano la Chamaebatia foliolosa, un arbusto locale, aromatico e sempreverde.

Il poeta Gary Snyder

Arrivarci a Kitkitdizze, una bizzarra casa di legno conica e orientale, a oltre tre ore da San Francisco, è tortuoso. Sulla Sierra Nevada, oltre i mille metri, la neve resiste, come Snyder. Sotto il ghiaccio la strada è sterrata.

Snyder, premio Pulitzer per la poesia con Turtle Island, vive qui da quasi cinquant’ anni. Senza rete elettrica ma con illuminazione a kerosene, un pollaio, una sauna e un telefono alimentato da un’ antenna satellitare. «Alla fine degli anni Sessanta», insieme ad Allen Ginsberg e altri buddisti zen, «ho comprato questo pezzo di terra da un amico. Da quassù», sottolinea Snyder, «scorre tutta l’ acqua che arriva a valle nella California, verso l’ oceano. Questo è un luogo di vita».

Da quando però dieci anni fa è morta la sua seconda moglie Carole Koda, cui Snyder ha dedicato un soffice poema nell’ ultima raccolta Questo istante presente (ed. Jouvence, curata da Giuseppe Moretti), «vivo col mio cane, Emi, che dopo 14 anni mi fa ancora compagnia». Della morte Snyder non ha paura («non mi sono mai organizzato la vita come se dovessi vivere in eterno, come fanno in tanti oggi») «e non mi sento solo».

Dopo la stanchezza della corsa all’ oro, l’ area è nuovamente popolata. E oggi questi “ri-abitanti” sono contadini, post-hippy e montanari che «mi passano a trovare. Parliamo di politica oppure meditiamo insieme: ma non è una festa. La meditazione è un intervallo difficile, è l’ osservazione della propria coscienza».

Foto giovanile di Allen Ginsberg

Kitkitdizze è l’ incontestabile tempio spirituale, il codex ideologico dell’ eco-poeta Snyder: qui ci sono il suo ambientalismo puro e primordiale, il suo irriducibile naturalismo, il suo orientalismo e il buddismo zen amati sin dai primi studi di cinese e giapponese e sfamati dalle costanti trasferte giovanili in Asia.

«Noi della California e della Costa occidentale siamo diversi, da tutto e tutti», chiarisce Snyder, «da qui guardiamo al Pacifico, sappiamo che gli asiatici arrivarono ben prima degli europei attraverso il Mar di Bering. Io ho fatto il viaggio opposto: a 18 anni ho preso una nave per il Giappone e sono diventato monaco». Poi ha girato India, Cina e altra Asia, insieme alla prima moglie Masa, ad Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, il sodale Philip Whalen e il “pionnier” della Beat Generation Jack Kerouac, che a Snyder dedicò il personaggio di Japhy Rider, mezzo hippy mezzo santone buddista, mezzo vagabondo letterario, protagonista del suo romanzo I vagabondi del Dharma, sequel tortuoso di Sulla strada.

Ma non lo dite a Snyder. «Perché dobbiamo parlarne? Perché?

Allen Ginsberg con Peter Orlowski

Japhy Rider non sono io, non sono io! È chiaro?». Ma è un personaggio evidentemente ispirato a lei. «Kerouac ha scritto tanti altri bei romanzi, come Il Dottor Sax, che non conosce quasi nessuno perché le persone non leggono con attenzione. I vagabondi del Dharma, anche se ha ispirato la cultura americana del viaggio e dell’ orientalismo, sicuramente non è uno di questi».

Ma, al di là dell’ aspetto caricaturale che la irrita, è vero che Kerouac le scrisse affranto dopo i suoi giudizi negativi e scene poco gradite come quella del sesso tantrico?

«Sì, mi doveva delle scuse. Ma oramai era troppo tardi.

Con Jack eravamo buoni amici, anche se mi sono reso conto di non averlo mai conosciuto fino in fondo. Jack è stato sempre un po’ sciocco, ma comunque carino e brillante a modo suo, e pure divertente. Peccato che sia poi ripiombato nella cristianità e di lì a poco sia morto. Ginsberg era sicuramente più simpatico. Basta parlare di Kerouac».

William S Borroughs con Jack Kerouac

E allora parliamo di Ginsberg: «Negli anni Cinquanta, dopo la laurea, me lo presentò Kenneth Rexroth (altro grande poeta del Rinascimento di San Francisco, ndr). Di lì nacque una bella amicizia e viaggiammo molto insieme, anche in Asia, dove incontrammo il Dalai Lama», che Ginsberg voleva iniziare all’ Lsd, «ma non sono mai stato gay, tantomeno con lui, chiaro?». Ok.

Ginsberg alla Six Gallery di San Francisco, mentre declama Urlo.

Ma Snyder è anche uno dei pochissimi superstiti della notte magica del 7 ottobre 1955 alla Six Gallery di San Francisco (oggi ristorante turistico), dove Ginsberg lesse per la prima volta lo scandaloso Urlo sobillando censura e processi: «Che momento!», esclama Snyder mentre affastella i ricordi, «eravamo tutti lì a leggere poesie che non sarebbero mai state accettate da alcun dipartimento di inglese, figuriamoci dagli intellettuali di New York. Ma oramai eravamo un’ onda inarrestabile. Un linguaggio incontenibile. Quella sera avvenne il primo vero evento pubblico di una nuova subcultura, quella della West Coast: molto più tollerante ma ribelle, eterogenea ma invasata da uno spirito estremamente libero rispetto a quella della costa orientale e cristiana. Fiorì così la tradizione orale della poesia americana del XX secolo. C’ era una sinfonia organica e silenziosa tra noi».

«Lo stesso accadde allo Human Be-in», il grande raduno a San Francisco del 1967 liberato dal soffio di Snyder in una conchiglia che seminò la rivoluzione hippy.

«Quanta gente c’ era. Quell’ Estate dell’ Amore provocò una sommossa materiale, contadina, poi radicatasi nelle campagne, come ho fatto io. Gli anni Sessanta e Settanta stravolsero ogni piano della società, della cultura e delle arti americane. Ma la più grande eredità per me è stata una nuova sensibilità per la natura».

Quella sera dell’ Urlo di Ginsberg, Snyder lesse A Berry Feast, (la festa della bacca). «Perché è il senso ultimo della natura: le bacche crescono spontaneamente nei boschi, cibano animali e persone senza che questi se ne accorgano.

È il naturale regalo della natura.

La cosa più importante che ho imparato a Kitkitdizze è studiare il comportamento degli animali. Mi fanno capire così tanto della disciplina della natura e quindi della vita. Perché noi umani siamo animali, sospesi nella congiunzione tra natura e umanità. Se ci considerassimo davvero animali, riusciremmo a rispettare e soprattutto a condividere la natura. Ecco come bisogna vivere questo nostro istante prese

Articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica

 

Un articolo sulla beat generatione e Keruoac lo potete trovare sul sito (qui) 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NANDA E I BEAT

NANDA E I BEAT

 

FERNANDA PIVANO, ALTO BORGHESE, LICEO D’AZEGLIO E CONSERVATORIO A TORINO, LAUREA IN LETTERE. POI UN MATRIMONIO TORMENTATO COL GIOVANE ETTORE SOTTSASS, SQUATTRINATO E BEN AL DI LA’ DI DIVENTARE ARCHISTAR- L’AMICIZIA CON PAVESE, SOPRATTUTTO, CALVINO E L’EDITORE EINAUDI LE APRONO LE PORTE DELL’AMERICA- DIVENTA SORELLA,MADRE, TUTRICE DI UNA GENERAZIONE GENIALE E DISSIPATA: LA BEAT GENERATION- NELL’ ARTICOLO CHE SEGUE SI RICORDANO LE SUE DOTI DI TRADUTTRICE E CRITICA LETTERARIA

 

 

Li chiamava «i miei eroi». Ma l’ eroe, l’ eroina, era lei, Fernanda Pivano. Lei ha capito quanto fosse importante, nella letteratura e nella società, il loro urlo trasgressivo. Senza Fernanda Pivano – la Nanda – in Italia non avremmo conosciuto la Beat Generation o l’ avremmo conosciuta in ritardo, magari filtrata da una critica letteraria accademica, paludata e schizzinosa; quando sarebbe stato forse troppo tardi.

Lei ha da subito convissuto con quella banda di mostriciattoli. Li ha capiti. Ha inseguito le loro utopie. E ha fatto diventare realtà i loro testi. Li ha tradotti. Li ha «imposti» a editori tentennanti. Li ha arricchiti di prefazioni illuminanti. E poi ha fatto venire, anche fisicamente, in Italia gli autori beat.

Li ha ospitati in casa sua a Milano sopportando e ridendo dei loro scherzi a volte infantili, a volte geniali, a volte osceni. Li ha accompagnati in giro per le città in rocambolesche tournée.

Come quella volta che, a Spoleto, Allen Ginsberg scatenò un putiferio tra il pubblico. Arrivò la forza pubblica. Volevano portare Ginsberg in guardina. Intervenne la Nanda: «Non potete arrestarlo, è un poeta!», disse. «Sì con quella faccia e quella barba», risposero le guardie dell’ ordine.

«Ora ve lo dimostro», sussurrò con dolcezza la Nanda. E aprì una pagina di Urlo ; e lesse quattro versi. E i gendarmi si arresero.

D’ altra parte Fernanda Pivano dei suoi amati beat è sempre stata sorella tollerante ma non complice e madre saggia ma non oppressiva. Parlando di uno di loro (Jack Kerouac?) ricordava: «Mi disse: non bevi, non fumi, non ti droghi, ma perché hai voluto conoscermi?».

IL VIAGGIO IN AMERICA

In America Fernanda Pivano arrivò la prima volta nel 1956, allo sbocciare dei fermenti beat. Con il tempo e con le frequentazioni dei suoi amici artisti, scoprì e fece sua una politica meno ideologica e più concreta, meno teorica e più reale di quella che aveva vissuto in Italia. Si trovò in mezzo, in America, a chi faceva un gran casino per portare in piazza e nei cervelli della gente le sue, le sue della Nanda, stesse idee. La Nanda era pacifista e i Beat erano pacifisti e contro la guerra in Vietnam.

Lei non concepiva l’ odio ed era piena d’ amore per tutti e i Beat predicavano amore senza confini di morale, religione, patria, partito, sesso, regole, soldi, potere.

Fernanda Pivano giovane. Nata nel 1917 a Genova è deceduta a Milano nel 2009

Poi persino gli Hippie con la loro amorosa rivoluzione dei fiori l’ hanno affascinata. Tanto che dopo l’ appassimento del Sessantotto si domandava: «Ma che fine hanno fatto i fiori?». Su questo, sugli Hippie, non andava tanto d’ accordo con l’ amato Kerouac che liquidava i figli dei fiori con un secco: «Quelli sono venuti dopo di noi». A proposito di Kerouac: nel 1966 la Nanda lo portò in tv, alla Rai, per un’ intervista. Lei bella, giovane, gentile, dolce. Tradiva solo un po’ di tensione perché maneggiava continuamente un paio di occhiali che poi non ha mai indossato.

Lui, gesticolante come un francese del Canada da cui veniva la sua famiglia, era già consumato da quintali di droghe ed ettolitri di alcol. Maneggiava sigarette e whisky.

Ma rispose a tutte le domande. Tranne una: «Perché non sei felice?». Silenzio e un gesto: rotondo e malinconico come può essere un gesto senza voce.

L’ILLUSIONE DELLA FELICITA’

Ma era felice, la Nanda? «Ho provato l’ illusione di esserlo – diceva – quando mi sono immaginata che quegli ideali, proprio quelli della Beat Generation potessero appiccicarsi alla realtà del mondo. Ovvio che mi sono sbagliata. Ho capito che sono stata felice solo quando ero bambina con un papà e una mamma meravigliosi».

Fernanda con Ettore Sottsass

A volte si dice: l’ educazione dei figli. Con un babbo miliardario (in lire) e una mamma bellissima e di gran classe si sarebbe potuta perdere nei labirinti in cui sono caduti tanti figli di papà (quando ancora piccola si trasferì a Torino per andare a scuola faceva la stessa strada di Giovanni Agnelli). No, neanche quei diavoli di Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs l’ hanno fatta sballare.

Eppure lei voleva capire a tutti i costi che cosa significasse il loro «cercare nuovi stati di coscienza». Fino a cantare, a recitare, accanto a Ginsberg, facendo tintinnare un triangolo musicale: «Use Dope, Don’ t Smoke» (non fumare, drògati); lei che non aveva mai sfiorato nemmeno un fungo messicano.

È arrivata ad amare talmente le persone del mondo che, sposando la deriva triste e delusa dei suoi «eroi beat», nei momenti di serena rassegnazione alla sconfitta della sua utopia e del suo corpo malato, diceva: «La morte è la mia amica; aspetto che venga a trovarmi; almeno mi libererà da quel po’ po’ di roba che c’ è nel mondo: guerre, armi, fame, sfruttamento, schiavitù, consumismo, ingiustizia, odio. Basta!

Lo sai perché ho amato On The Road ? Perché là dentro c’ era la verità. Anzi la Verità».

NANDA CRITICA  E TRADUTTRICE

Non sarebbe giusto ricordare il contributo di Fernanda Pivano alla conoscenza dei Beat senza dar conto del suo spessore critico, anche se lei lo ha sempre negato. E invece saper decifrare, come ha fatto lei, come ha scritto lei, quel mondo dei suoi amici è stato fondamentale. Sembra scritto oggi; è l’ introduzione del 1964 a Jukebox all’ idrogeno di Ginsberg:

«Il piccolo borghese americano ha quell’ automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio per cui è indebitato fino al collo lavora inebetito finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili». (Il prossimo 18 luglio Fernanda Pivano compirà cent’ anni).

Articolo di Francesco Cevasco per “La Lettura – Corriere della Sera”

 

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LA BEAT GENERATION NEI RICORDI DI LAWRENCE FERLINGHETTI, UN ITALO AMERICANO CHE PUZZAVA DI PEPERONE E CIPOLLA, AMICO ED EDITORE DI UNA SCHIERA DI ARTISTI CHE SONO ORMAI NELLA STORIA    

 

 

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Ferlinghetti e Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac

«Bravo Bob, bravo», sussurra in un italiano felice Lawrence Ferlinghetti. Per il grande poeta e scrittore americano, che ha vissuto quasi un secolo su questa Terra, «il Nobel di Dylan è il Nobel di una generazione. Chi è rimasto di noi dovrebbe esserne fiero. Bob Dylan è la vera, unica eredità della Beat Generation nel XXI secolo».

A 97 anni, dorati da una rara e toccante lucidità, Ferlinghetti è l’ultimo padre vivente della Beat Generation. La generazione che ha coccolato Bob Dylan, prima che anche lui se ne andasse on the road, per la sua strada.

Dagli anni Sessanta lo frequentò anche Ferlinghetti quel menestrello del Minnesota: «Una volta eravamo io, Bob Dylan e Allen Ginsberg a un Cafè in San Francisco e ci cacciarono perché eravamo troppo bohémien, troppo matti. Ma non posso definire Dylan un amico, quello semmai era Allen Ginsberg. Io non sento Bob da molti anni».beat2

Lawrence Ferlinghetti, in Italia pubblicato da Minimum Fax che di recente ha riproposto il suo capolavoro A Coney Island of the Mind, parla dalla sua casa di San Francisco, nel quartiere italiano North Beach. «Oramai sono quasi cieco», confessa. Gli sfugge una lacrima: «Dopo il glaucoma, non riesco a leggere più niente. Questa è la cosa che mi fa più male, alla mia età. Non può capire quanto».

Si sposta dalla sua camera in soggiorno, a fatica. Ha il fiatone. Non vuole svegliare suo figlio Lorenzo: «Dorme ancora». Lorenzo, nome italiano, come il suo quartiere, come il nipote (Leonardo), come mezza famiglia: il padre veniva da Chiari, Brescia, e morì sei mesi prima che Lawrence nascesse. Adesso, “Ferling” è fiero della sua italianità, clandestina in gioventù: il suo cognome per decenni gli fu dimezzato. La sua famiglia si vergognava di essere associata «a chi puzzava di peperoni e cipolla ».beat3

Tutti i “beatniks”, dagli anni Cinquanta in poi, si incontravano da Lawrence. L’appuntamento era nella sua storica libreria ed editrice City Lights, angusto epicentro di una rivoluzione che ha sconvolto il mondo pubblicando Ginsberg (una performance del maledetto Urlo gli costò persino il carcere nel 1957), Burroughs, Kerouac, Kaufman, Corso, e poi Prévert, Chomsky, Bukowsky. Ma non Dylan.

«Uno dei miei rimpianti più grandi è quello di non essere riuscito a pubblicare Bob. Quanto ho agognato e sperato di pubblicare in poesia almeno una versione del suo primo album omonimo! Che versi profondi, irraggiungibili! Ma allora, a metà degli anni Sessanta, era già troppo famoso».

E cosa successe?

«Quando provai a chiedere i diritti, me ne andai con la coda tra le gambe. Quei soldi non li avrei mai avuti in vita. E comunque aveva già deciso di essere un uomo “song and dance”, canto e ballo».

Norman Mailer diceva che «se Dylan è un poeta, io sono un giocatore di basket».

«Che stupidaggini. Bob Dylan è un poeta, prima di ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica, è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa».

Il Nobel a Bob Dylan è anche il Nobel ai “beatniks”, a Lawrence Ferlinghetti e a un’intera generazione?beat-4

«In un certo senso sì. Anche se noi abbiamo cominciato negli anni Cinquanta, lui poco dopo. Ma è indubbio che le commistioni tra Beat Generation e quel revival folk aspirato dal primo Dylan si sovrapponessero molto rispetto alla stessa intellighenzia liberal di sinistra.

 

Bob era uno di noi, basti vedere il flusso di coscienza dei suoi primi testi. E, dalla pace alle droghe, dalla psichedelia al buddismo, ha articolato in maniera irraggiungibile slogan e temi della nostra generazione. Soprattutto negli anni a venire, è stato il vero padre culturale della hippy generation».

Più di Ginsberg, ponte tra beat e hippy?

«Allen è stato una leggenda, ma non era niente al confronto di Bob Dylan. Piangeva mentre ascoltava le sue canzoni. Non a caso, presto lo capì e anche lui si portò un’armonica dall’India e cominciò a musicare i versi, persino i Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake».

Dylan era di origini ebraiche, ha cantato le storie degli ultimi come i neri e il jazz amato dalla Beat Generation e ha riportato la questione sociale in primo piano, come fece Steinbeck anni prima.

«Vero. Poi certo, la musica di Dylan è una storia impossibile da riassumere in poche righe: partì da Woody Guthrie e sappiamo dove è andata a finire. Anche il paragone con Steinbeck è azzeccato. Non a caso era uno degli idoli di Dylan, e anche di Jack Kerouac».

Qual è secondo lei la “canzone” più letteraria di Dylan?beat5

«Non saprei. Solo Masters of War ne meriterebbe due di Nobel: per la Letteratura e per la Pace».

Che ne pensa degli intellettuali oggi? C’è chi dice che spesso sono troppo silenti di fronte ai mali del mondo.

«Silenti? Questi dormono proprio! Va bene che la sinistra sta perdendo pezzi giorno dopo giorno. Ma io vedo solo un grande sonno».

Perché, secondo lei?

«Oggi gli intellettuali hanno lo stomaco pieno. Hanno tutto, da subito, soprattutto i più giovani. Quando arrivai a San Francisco negli anni Cinquanta non avevo niente in tasca. E così molti miei colleghi. Avevamo una fame dentro, una tale rabbia, che non potevamo star zitti».

Lei invece, a 97 anni, dopo una carriera indimenticabile, cosa fa il giorno?

«Niente. Passo tutto il tempo a casa. Sono cieco».

Non va mai nella sua storica libreria?

«Ogni tanto. Ma oramai c’è gente straordinaria che ci lavora al posto mio, io non servo più».

Nel secolo scorso sfidavate la censura facendo arrivare dall’Europa i libri proibiti, Bob Dylan fece lo stesso con “Pasto Nudo” di Burroughs nel 1959. Oggi lo stesso meccanismo, nell’era di Amazon e della grande distribuzione, rischia di far chiudere parecchie librerie indipendenti, anche la vostra.

«Ma noi, City Lights, siamo sopravvissuti. E non moriremo mai. Perché la nostra non è solo una libreria. È una comunità. Quando la inaugurai, nel 1953, decisi di restare aperto fino a notte, sette giorni su sette.

Le altre piccole librerie che chiudevano alle 5. Loro sono morte, noi no. Quei predatori di Amazon non ci avranno mai. Perché non riusciranno mai a essere come noi. Per esempio, la settimana prossima ci verrà a trovare Ralph Nader (ex candidato presidente in America, verde,ndr) ».

A proposito, lei da anarchico e ribelle antisistema, cosa voterà alle elezioni? Sceglierà un altro Nader, i cui voti da sinistra fecero perdere il democratico Gore a favore di George Bush?

«Stavolta no. Mi turerò il naso con due mani e voterò per Hillary Clinton. Trump è troppo pericoloso e rischieremmo davvero con una guerra mondiale con lui al comando. Ma, il giorno dopo la vittoria di Clinton, sperò che il movimento “Occupy” occupi la Casa Bianca stavolta, dopo Wall Street. Questo sistema politico è insostenibile, crea troppe disuguaglianze. Prima o poi, toccherà cambiarlo»

Articolo di Antonello Guerrera per La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

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