Se c’è un’età della vita sulla quale oggi si scrive, si medita e parla molto è la vecchiaia. A dire il vero, fin dall’antichità il tema della vecchiaia ha sempre richiamato l’attenzione, più che altre tappe della vita. Sono pochi i trattati sulla giovinezza o l’adultità rispetto ai trattati sulla senescenza. Se ne conosce uno del XVIII secolo a.C., peraltro molto affascinante, appartenente alla letteratura dell’antico Egitto che rappresenta il primo trattato sulla vecchiaia. Anche Cicerone ha scritto sulla vecchiaia alcuni brani che si ritrovano poi in tante pagine di letteratura e di filosofia in merito all’ultima stagione della vita. Cicerone vedeva quattro motivi per cui la vecchiaia è triste e deprecabile. Anzitutto la vecchiaia allontana dall’attività, separa da dove la vita ferve, dove la vita è costruita e progettata. La seconda ragione è che la vecchiaia indebolisce il corpo e per questo volentieri la si rimuove. Il terzo motivo è che l’anzianità nega quasi tutti i piaceri della vita. In fine, la vecchiaia avvicina la morte.
Vincenzo Paglia
Ebbene, oggi ai giudizi di Cicerone dobbiamo aggiungerne un altro, che probabilmente sconvolge la linearità dei primi quattro motivi ciceroniani. Nell’epoca della tecnica ci troviamo spiazzati e non sentiamo più vero quel che Cicerone e per tanti altri trattati era fondamentale e rappresentava la positività della vecchiaia: il legame tra vecchiaia e sapienza. L’anziano era percepito come un punto di riferimento per tutte le generazioni. Nell’anzianità si percepiva che l’esercizio del sapere aveva dato loro quella capacità di discernimento e di giudizio per cui agli anziani si affidavano i compiti più importanti e decisivi. Oggi, in una società che esalta l’efficienza, la produttività, l’autosufficienza, il mito della giovinezza, l’anzianità non è un valore ma un impedimento, al punto che si declinano le categorie degli emarginati, degli immigrati, dei malati, dei poveri e … dei vecchi, purtroppo anche nella Chiesa e nelle sue preghiere. Ed ecco perché oggi la vecchiaia è soprattutto «l’età da inventare», come la definisce finemente Vincenzo Paglia in L’età da inventare. La vecchiaia tra memoria ed eternità, (Piemme). L’arcivescovo, presidente della Pontificia Accademia per la vita, sente impellente il compito, anzi il dovere di «inventare» la vecchiaia, ossia la capacità di ricreare il senso umano, sociale e spirituale di questo tempo della vita. Un tempo che Paglia definisce «nuovo», perché questo periodo dell’esistenza è, con tutta evidenza, diventato importante a causa soprattutto del suo durare di più rispetto al passato anche non troppo recente e per questa ragione «nuovo» perché inedito, senza modelli di riferimento, esempi da imitare ed esperienze consolidate. «Il Covid-19 elimina gli anziani perché noi li abbiamo abbandonati», è con queste parole che nell’aprile del 2020 Vincenzo Paglia si rivolse al ministro della Salute Roberto Speranza, il quale resta colpito dalla riflessione che il vescovo gli offre di fronte alla strage degli anziani causata dalla pandemia. Di fonte a quella agghiacciante situazione Paglia sollecita Speranza – e attraverso di lui lo Stato e l’intera società italiana – ad uno scatto di intelligenza, di passione, di comprensione di quello che stava succedendo sotto gli occhi di tutti. Le pur essenziali misure di contrasto all’emergenza sarebbero state insufficienti se non accompagnate da un’ampia e profonda riflessione sulla radicale contraddizione che era la causa di tante vittime tra gli anziani. Paglia propone al Ministro la creazione di un’apposita commissione che avesse come fondamentale scopo quello di «delineare una nuova visione della vecchiaia e della stessa società di domani, di cui la vecchiaia sarà protagonista». Il Ministro si mostrò convinto della necessità di creare una commissione ad hoc, a una condizione tuttavia: che lo stesso Paglia ne fosse presidente. E così è avvenuto.
Enzo Bianchi
Va da sé che questo libro riflette anche il lavoro della Commissione ma non solo. La riflessione parte dalla realtà della longevità di cui, in realtà, non si sono ancora prese fino in fondo le proporzioni del fenomeno. L’Italia è il primo Paese al mondo in cui il numero degli ultrasessantenni ha superato quello dei ragazzi con meno di quindici anni. Sì, è la prima volta nella storia dell’umanità che la vecchiaia è diventata di massa. Si tratta di una nuova generazione, una sorta nuovo «continente» tutto da esplorare. C’è poca consapevolezza, poco pensiero, poca riflessione su questi anni che concludono la vita di un uomo, di una donna. Paglia mostra non solo la capacità ma anche l’audacia di tracciare una riflessione ad ampio raggio sulla «terra incognita» della vecchiaia approfondendola e sviscerandola da un punto vista umano, sociale, economico, biologico, sapienziale e spirituale, senza sottrarsi anche alla dimensione «politica» dell’anzianità. Intense sono le pagine dedicate alla visione cristiana della vecchiaia, mostrando come la fede permette di discernere in questa età della prova delle opportunità e anche delle benedizioni come pure dei rischi, ciò che del resto è proprio a ogni età della vita. Denuncia lucida e implacabile, ma estremamente reale e soprattutto vera, è la parte dedicata alle strutture di assistenza per gli anziani, non a caso intitolata «L’esilio negli istituti».
Non solo per chi vi risiede, ma nella percezione comune, questi istituti sono generalmente percepiti come l’anticamera della morte. Un luogo di non-vita dove si perde ogni speranza e non resta altro da fare che attendere la propria ora. L’esigenza della sicurezza che in questi tempi di pandemia è più volte risuonata è in realtà per Paglia «il tentativo di acquietare la propria paura sia della responsabilità che della confusione a proposito di ciò che è meglio fare per una persona considerata, in definitiva, comunque come un malato». Per il vescovo è una questione di civiltà: gli anziani devono, per quanto possibile, restare nelle loro case! Questa è una delle conclusioni alla quale è giunta la Commissione voluta dal ministro Speranza: le famiglie non devono essere lasciate sole a gestire gli anziani, ma la società intera è chiamata a prendersi cura dei propri vecchi, attraverso la creazione e il sostentamento di una rete di sostegno al tempo stesso umano, sanitario ed economico che consenta agli anziani di vivere a casa loro, solo così «la vecchiaia sarà un tempo di brace e non di cenere».
L’esercizio della pazienza.Non c’è la parola web in “Ogni cosa alla sua stagione”, di Enzo Bianchi, ma c’è l’essenza, il silenzio, il ricordo di quando le parole erano poche e avevano grande significato. C’è la costruzione di una vita, di come si impara a vivere
Enzo Bianchi, priore di Bose
Rileggo Ogni cosa alla sua stagione di Enzo Bianchi. La vita che è gioia e dolore, memoria e speranza e, almeno per il fondatore della Comunità monastica di Bose, mai oblio. Dai giorni degli aromi a quelli del focolare, dai giorni del presepe a quelli, appunto, della memoria, dalla cella si parte e alla cella si torna in un epilogo struggente, dove la guida resta il Vangelo, «un libro che non ci estranea dalla vita ma ci fa entrare in essa con il desiderio di condividerla con gli altri, un libro che non chiede ascesi se non per ordinare l’amore, un libro che non fornisce una legge, non impone fardelli troppo pesanti ma “in-segna”, fa segno, indica un percorso vitale, invita tutti alla responsabilità, spalanca le strade dell’amore…».
Ma non ci sarebbero queste pagine, non ci sarebbe vita, non ci sarebbe lo stesso Bianchi (certamente lettore attento del filosofo Roberto Esposito), senza la comunità. Quella inventata da Etta e Cocco, la maestra e la postina che decisero di dividere tutto e che in un paesello del Monferrato presero a cuore i suoi giorni più duri (orfano di madre a otto anni, con un padre difficile), e quella fondata da lui stesso, dopo gli anni dell’Università, a Bose, perché «la comunità è l’insieme di persone unite non tanto da un possesso, da una proprietà, da un “di più”, ma da un “di meno”, da un debito che ciascuno vive verso gli altri».
Ogni cosa alla sua stagione ha l’ardire di farci assaporare i giorni, persino quelli più temuti dell’autunno che chiama l’inverno. Ogni cosa alla sua stagione, ogni cosa a suo tempo, andrebbe ricordato a chi si precipita, a chi ha fretta, a chi intende spostare sempre un po’ più in là l’obiettivo, a chi si ostina a tornare indietro, perennemente indietro perché vorrebbe saldare conti che non si possono più saldare e così fuggire al presente, a ciò che è, a ciò che ci si para davanti e chiede attenzione, ascolto, partecipazione, misura.
Non c’è la parola web nel libro di Bianchi, ma c’è l’essenza, il silenzio, il ricordo di quando le parole erano poche e avevano grande significato. C’è la costruzione di una vita, di come si impara a vivere, a fortificarsi, a forgiarsi e a temprarsi, perché «vivere, infatti, è duro, e occorre imparare a vivere come si impara un mestiere. Occorre soprattutto esercitare la “pazienza”, accettare la fatica come il prezzo di tutto ciò che si acquisisce in umanità, non aver paura di vivere l’amore anche quando presenta la faccia del sacrificio per l’altro… Sì, per amore ci si può sempre curvare, sapendo che comunque la vita ci curva e che ognuno se ne va portando con sé un segreto: come ha potuto trovare senso nella propria esistenza».
L’edificazione di sé, per dirla con Salvatore Natoli, è un lento, paziente e perseverante esercizio quotidiano. Vale per chi si è dato un convento dove abitare e per chi è fuori, per chi pensa di vagare libero per il mondo mentre è rinchiuso dentro altre mura. Ogni cosa alla sua stagione, ma le stagioni passano, si rincorrono e chi ha tempo non aspetti tempo.
LA FEDE E’ SEMPRE FATICOSA, PAROLA DI ENZO BIANCHI, L’ABATE DI BOSE- SI HA FEDE QUANDO L’AMORE VINCE SUL DUBBIO, MA E’ UNA LOTTA CHE DURA PER SEMPRE, PERCHE’ OGNI UOMO HA L’INFERNO DENTRO DI SE’-
Ha sempre creduto ciecamente in Dio?
«Ciecamente mai. La fede è faticosa, è una lotta, come dice San Paolo, non è una pace.
Nella fede si vivono tanti dubbi, poi l’ amore per il Signore Gesù Cristo vince sul dubbio e si va avanti così. Ma si ricordi che il monaco è un esperto di ateismo».
Come è possibile?
Enzo Bianche con l’Abbè Pierre
«Il monaco sa che ogni uomo ha l’ inferno dentro di sé, ha delle regioni non evangelizzate, degli abissi che deve esplorare. Gli atei sentono una vicinanza e una simpatia per i monaci per la ricerca solitaria profonda in cui a volte nell’ oscurità si incontra la nientità, che è niente di niente: sa che vertigini può dare?».
Enzo Bianchi è un uomo piccolo e vero. Si definisce «terrigno», «terrestre». È veloce, nervoso, proteso all’ essenziale. Ci incontriamo a Bose, nella comunità che ha fondato l’ 8 dicembre 1965 e che oggi conta 55 fratelli e 35 sorelle, comprese le «fraternità» di Assisi, Cellole, Civitella San Paolo e Ostuni. Parla chiaro, semplice.
E si illumina di una gioia quasi infantile quando mostra sull’ iPhone i frutti del suo orto: insalata canadese anche in inverno, peperoni piccoli e rossi d’ estate e una pianta di pomodori cresciuta sul marciapiede di fronte alla sua «cella», tra le portulache.
Cominciamo dalle donne. Quali sono state più decisive per lei?
«Ho un debito enorme verso mia mamma, Angela. Ha fortemente voluto la mia nascita contro il parere di tutta la famiglia, perché era malata di cuore e asmatica e già non aveva portato a termine una prima gravidanza. Mio padre mi disse tante volte: “Tra te e lei preferivo lei”».
Monastero di Bose
Un’ immagine di sua madre.
«Davanti a un crocicchio, quando mi portava dai nonni a Montabone: con le sue braccia magrissime fragili mi spingeva verso la croce e mi diceva “abbraccia il Signore”. Era il suo affido estremo, avevo tre o quattro anni. Poi la ricordo seduta ai fornelli mentre cucinava, faticava a stare in piedi per la malattia: ci preparava patate fritte quasi tutte le sere. È morta il 17 settembre 1951, a 32 anni, quando io ne avevo otto. L’ anno dopo al Galliera di Genova cominciarono a operare la stenosi mitralica, di cui soffriva».
Altre donne?
«Elvira, la maestra, che chiamavo Etta. E Norma, la postina, detta Coco perché usava la coccoina, la colla: chiedevo di andare da lei per attaccare i pezzi colorati. Tutte e due molto credenti, molto diverse, mi hanno mantenuto agli studi e mi hanno permesso di viaggiare».
Enzo Bianchi
Fidanzate?
«Sui vent’ anni ho avuto due ragazze con cui c’ è stato un rapporto di giovani innamorati. Si sono sposate, ci vediamo ancora quando vengono a trovarmi a Bose».
Nessuna, dopo, l’ ha mai fatta vacillare nella scelta monastica?
«No, dopo che ho preso la decisione non ho mai più avuto tentazioni di lasciare il celibato».
Però in passato ha dichiarato di aver sentito la mancanza di un figlio.
«Sì, l’ ho sentita qualche volta come una nostalgia impossibile».
Tornando indietro ne adotterebbe uno?
«No, nella vita monastica non si dà un legame di quel tipo. Per un figlio bisogna avere caratteristiche paterne e assicurargli una madre: non sarebbe nella mia storia e nella mia verità».
Le donne sono importanti a Bose?
«Siamo fin dall’ inizio una comunità di uomini e donne, e questo si deve a Maritè, Maria Teresa, la prima sorella».
A gennaio avete scelto un priore maschio.
«È sempre possibile che in una prossima elezione venga eletta una donna: non c’ è assolutamente impedimento. Le gerarchie restano parallele: il fratello priore non ha giurisdizione diretta sulle sorelle, che rispondono alla loro responsabile. Lo stesso varrebbe al contrario».
Dicono che le sorelle siano più sacrificate dei fratelli, a partire dall’ abbigliamento.
«Questo non è vero. I lavori manuali sono condivisi e lo stesso gli impegni intellettuali. C’ è magari chi è geloso e vorrebbe in altre comunità la libertà che c’ è a Bose. Sull’ abbigliamento, l’ unica regola è vestire in modo semplice e con colori scuri, ognuno sceglie da solo».
Qual è la preghiera che le risuona di più?
«Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me. Non ho tante cose da dire al Signore…».
Quale brano del Vangelo le piace di più?
«Quello che chiedo venga letto al mio funerale ed è il capitolo di Giovanni 21. Gesù chiede a Pietro: “Simone, mi ami più di tutte le tue cose?”. Attenzione, traducono “mi ami più di tutti gli altri”, ma sarebbe vergognoso se Gesù mettesse in concorrenza Pietro con gli altri discepoli. Qui ci sono due verbi, agapao , ti amo, e fileo , ti voglio bene. Pietro risponde sempre ti voglio bene, lo stesso farò io quando mi sarà chiesto conto».
Enzo Bianchi con papa Giovani Paolo II
Perché non «ti amo»?
«Perché noi non conosciamo l’ amore fino in fondo, a Gesù possiamo dire solo: cerco di volerti bene. Pietro sapeva di avere rinnegato Gesù tre volte, e io come posso dire di non averlo mai rinnegato?».
Quando?
«Gesù dice: avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere; ero malato e non mi siete venuti a trovare. Questi sono i peccati di omissione e io non posso dire di non averli fatti. Sono quelli che mi bruciano di più la lingua quando annuncio il Vangelo, perché dico agli altri quello che nella vita non sempre sono riuscito a fare».
Ha detto che siamo più propensi a dare 50 euro ai terremotati che a spenderne 10 per ospitarli in casa. Voi a Bose li avete ospitati?
«Terremotati no, ma da anni ospitiamo alcuni migranti. Di certo non inviamo sms con 1 o 5 euro, ma finanziamo progetti in Africa e borse di studio in Medio Oriente. Resto convinto che il giorno in cui la Chiesa ha organizzato la carità, a partire dal IV secolo, il precetto dell’ amore del prossimo si è indebolito. Di recente ho scritto che i parroci non dovrebbero più organizzare cene per i poveri a Natale, ma chiedere a ogni famiglia di chiamarne uno alla propria tavola. Mio padre, socialista, non credente, non ha mai fatto la carità a un povero sulla porta, lo ha sempre fatto sedere alla nostra tavola, pure se era cencioso, puzzolente e scalzo».
Dove vorrebbe essere sepolto?
«In un luogo discreto senza che ci sia troppa memoria di me. In realtà da vent’ anni c’ è un accordo con il Cimitero dei servi di Maria a Monte Senario, vicino a Firenze. Ma oggi ho più dubbi, desidero un posto più semplice e comune».
Ha scritto decine di libri. Uno su tutti?
«Due. Pregare la parola , del ’71: ha fatto scoprire la lectio divina . E Il pane di ieri , un libro di sapienza umana, pubblicato nel 2008».
Ora a cosa sta lavorando?
«A un testo sulla vecchiaia, che uscirà in primavera con il Mulino, dove annoto ciò che mi sembra necessario per viverla con gioia».
Quali segnali osserva su di sé?
PAPA PIO XII
«Tanti. Il primo è l’ udito: tre anni fa al mare i miei amici mi parlavano e siccome non capivo mi dicevano: ma stai diventando sordo? L’ altro è la vista: da due mesi porto sempre gli occhiali, prima solo per guidare. E poi un’ altra cosa: nella mia cella per andare a letto devo fare le scale; l’ anno scorso ho fatto mettere dei corrimani…».
Qual è il regalo materiale a cui tiene di più?
«Mi regalano prodotti da mangiare, che condivido con gli altri. Oppure rose».
Rose?
ALBINO LUCIANI PAPA GIOVANNI PAOLO I
«Sì, bianche o rosse sono quelle che preferisco, non amo tanto le rose pallide».
Ha conosciuto sei papi. Che ricordo ne ha?
«Pio XII è stato il papa dell’ ammirazione di un ragazzo: a 9 anni sono stato da lui e gli ho portato una damigianina di vino del Monferrato, ero stato premiato per la conoscenza del Vangelo con altri bambini di ogni regione».
Papa Giovanni?
«Grazie a lui e al Concilio esiste Bose».
Paolo VI.
«L’ ho amato per la finezza spirituale, la cultura, la capacità di sentire la modernità e anche la sua sofferenza».
Giovanni Paolo I.
«È stato una meteora, nulla da dire».
Giovanni Paolo II.
«Da un lato lo amavo per le aperture all’ umanità e alle religioni, dall’ altro mi sembra che qualche volta avesse una interpretazione restrittiva del Concilio Vaticano II».
PAPA RONCALLI
Benedetto XVI.
«Per me un grande teologo e un caro amico che conosco dal 1976. Mi ha nominato esperto a due sinodi: è stato un gesto di elezione e fiducia verso di me di cui gli sarò sempre grato».
E ora Papa Francesco.
«Mi sembra che abbia portato nella Chiesa una primavera, un’ apertura, un clima di libertà e un’ attenzione ai poveri di cui mi rallegro».
Quand’ è San Enzo?
«Non c’ è. Mia madre mi ha battezzato Giovanni; mio padre che non voleva il nome di un santo mi ha registrato in Comune come Enzo».
PAPA MONTINI
Si candida a diventare lei il primo santo?
«Non solo non succederà, ma non ne ho nessun desiderio. Resto critico sui criteri con cui si fanno i santi, sovente per contingenze storiche: non sempre vedo ragioni di esemplarità».
Ma la sua vita è esemplare!
«No, davvero. E non glielo dico per umiltà, io sono una persona molto terra terra, tentazioni verso l’ alto non le ho mai avute».