ARTE E FINANZA

ARTE E FINANZA

 

Esplorazioni alla Biennale di Venezia

L’ARTE INTERCETTA
LE CONTRADDIZIONI
DEL CAPITALISMO

L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Anne Imhof e Damien Hirst: due estremi che sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale. Due mondi lontanissimi che sembrano inconciliabili ma che – in fondo – risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.

 

 

L’arte decostruisce la realtà, la seziona senza pretese didascaliche e poi la proietta nel futuro. L’arte non deve spiegare, bensì trasmettere lo spirito del tempo che la pervade. Ma l’arte che rimane nel tempo è sempre spiegabile da un termine posteriore, anche se rimane criptica, inintelligibile, nel presente.

Venezia, 2017. Biennale dell’arte. German Pavilion ai Giardini. Installazione corale curata dall’artista Anne Imhof. Una performance povera, fatta di plexiglas, popolata da animali e da corpi umani.

Venezia, 2017. Biennale dell’arte. Punta della Dogana, palazzo Grassi. La mostra di Damien Hirst, la più sfavillante di sempre, costata 120 milioni di dollari, riscrive i canoni dell’arte grandiosa ed esagerata.

 
 

Questi due estremi sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale.

Hirst incarna l’esplosione di liquidità monetaria che si è riversata, in modo molto selettivo, sul pianeta Terra, emblema dell’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica.

La performance di Imhof, al contrario, non è mai riproducibile: corpi umani che amano, lottano, urlano, cantano, ballano, e che si ribellano all’interno di una cornice fissa, di uno spazio chiuso, protetti o controllati – e la differenza è tanto sottile quanto cruciale – da due dobermann feroci.

Imhof descrive il disagio, la lotta del corpo al tempo della biopolitica, trasformato in oggetto su cui sperimentare nuove tecniche estrattive, in cavia ultramoderna, ma anche colto nel suo sottrarsi al regime di sorveglianza, al regime del capitale che controlla subdolamente, in modo invisibile.

Imhof ci mette davanti alle nostre catene interiori, il suo Faust provoca uno straniamento quasi immediato. Non è arte contemplativa, questa: è arte sensoriale. Non si rimane incantati: si rimane senza fiato, come colpiti da un pugno al fegato. Imhof non racconta sogni né incubi: aggredisce, al contrario, il reale con il quale – e nel quale –  proviamo a convivere. Quella realtà che cerchiamo di abbellire e mascherare ogni giorno, ma che l’artista tedesca ci sbatte in faccia senza trucchi né belletti: vivida, così com’è.

 
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Damien Hirst, “Demon with Bowl”

 

Ora, lasciati i Giardini, prendo un vaporetto e raggiungo Punta della dogana.

L’atmosfera cambia. Il sobrio lusso dello spazio di Pinault è asettico. Il contrasto è netto: dall’accoglienza del padiglione tedesco, con le giovani donne che sembrano uscite dal quartiere St. Pauli di Amburgo, al formalismo dei dipendenti. Da un posto all’altro, sull’acqua della Laguna.

Damien Hirst utilizza capitali infiniti per costruire un’opera senza precedenti, fuori da ogni canone. Immagina il ritrovamento di un vascello naufragato nel 1800 nei mari del Sud. Crea una serie di reperti sottratti agli abissi, li riproduce in serie da tre, li ributta nelle acque e ne “documenta” il falso ritrovamento. Li espone in una menzognera forma originale: ricoperti di coralli come se fossero rimasti sommersi per duecento anni.

 
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Damien Hirst, “Hydra and Kali Discovered by Four Divers”

 

Tutti i pezzi esposti sono stati già venduti per cifre esorbitanti a diversi tycoon che li esporranno nelle sedi delle loro corporations o in alberghi di lusso in giro per il mondo, oppure saranno acquistati da fondi d’investimento baciati da una liquidità colossale.

Damien Hirst sfrutta le cataratte di cartamoneta che scorrono impetuose a livello globale, intercetta i famelici flussi di capitale in perenne ricerca di sbocchi, di opportunità alternative d’investimento; orchestra un’operazione straordinaria, in cui si prende gioco del mondo dell’arte, oltrepassando i confini del “postmoderno”.

Nel vascello sommerso, il tempo collassa in una singolarità, il fluire lineare va in cortocircuito in mezzo a reperti d’ogni epoca: si passa da sculture egizie con tagli di capelli post-punk e piercing alle icone Disney come Pippo, Mickey Mouse e Mowgli. Nel vascello c’è spazio per tutto ciò che l’artista ha visto e che ricorda, nelle forme di opere rigorosamente riprodotte in serie da tre e probabilmente vendute prima ancora di essere concepite

 
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Damien Hirst è l’imprenditore di se stesso, entrepreneur of the self, l’uomo-brand con un fatturato superiore a una fabbrica di medie dimensioni. Damien Hirst è il culmine del sogno del terzo millennio, l’individuo idealizzato dal tardo-capitalismo.

Poi chiudo gli occhi e torno a pensare all’iper-realismo del Faust di Anne Imhof, l’arte invendibile, irriproducibile, il corpo dei singoli e i corpi dei molti in lotta con i demoni e gli aguzzini: oltre i confini dell’epidermide, dentro la mente e fin nell’inconscio, dove la biopolitica volge in psicopolitica.

L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Due mondi lontanissimi, all’inizio e alla fine di questo percorso, che sembrano inconciliabili ma che – in fondo –  risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.

L’ordine della sorveglianza e la risparmiocrazia, la ricchezza fine a se stessa e il rigore imposto oltre ogni misura, il lavoro vivo dequalificato fino a metterne in discussione la sopravvivenza stessa contro il lusso sfrenato della finanziarizzazione.

Le opere di Hirst finiranno in ogni angolo del pianeta a simboleggiare la globalizzazione dei capitali, quelle di Imhof vivono già nel mondo, non sono riproducibili perché già riprodotte miliardi di volte dalle vite di donne e uomini.

Lascio Venezia, questa città oltre ogni definizione, con un senso di stordimento addosso e la convinzione che l’arte – nelle sue molteplici, svariate forme – è il filo conduttore dell’umanità.

 Articolo tratto dal sito www.idiavoli.com un progeto di Guido Maria Brera

La Biennale di Venezia 2015

La Biennale di Venezia 2015

Pubblico l’articolo, ripreso da Dagospia, scritto da Benjamin Genocchio per news.artnet.com. L’accusa di Genocchio è di una Biennale, così come voluta dal curatore Enwezor, politicizzata e poco attenta all’arte come fatto soprattutto estetico. L’autore sembra dimenticare che l’arte ha bisogno delle sue libertà e che ogni tempo ha la sua arte. Come dimenticare, ad esempio, la Biennale del Dissenso, allestita nel  1977 da Carlo Ripa di Meana, vincendo le ostilità dei comunisti italiani e di parte degli industriali (come Agnelli della Fiat e Visentini dell’Olivetti) interessati agli affari con l’URSS? Poteva essere allestita una mostra più “politica” di quella, ma nello stesso tempo più utile alla libertà dell’arte, e che suscitò una ventata di libertà politica ad Est del Muro e un dibattito fecondo in Occidente? Senza questa visione l’arte è solo un modo di imbrattare una tela (ammesso che ancora lo si faccia) . Forse Genocchio è troppo giovane per ricordare o è troppo attento alle regioni del mercato?
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Okwui Enwezor ce l’ha messa tutta per ri-disegnare la Biennale di Venezia. La “sua” Biennale lo fa sembrare niente più e niente meno di ciò che è: un uomo della sua terra. La mostra può essere descritta come la più cupa, infelice e brutta che Venezia possa ricordare. Nel nome del cambiamento sociale e dell’azione, la mostra sconcerta i visitatori con teorie politiche, più che regalare il piacere della vera arte. La visione del mondo di Enwezor è sconfortante, cupa e depressa.

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Il compito della Biennale, giunta alla sua 120esima edizione, è ancora quello di dare diverse, e a volte conflittuali, letture di ciò che significa fare arte oggi. Per questo motivo si può dissentire dalla visione utopistica di Enwezor per quanto riguarda l’arte – io dissento – ma il mondo si trova di fatto davanti a grandi crisi e il futuro è più incerto che mai. Per questo vale la pena esplorare come queste forze influenzino gli artisti.

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Enwezor, di origini nigeriane, è famoso per il suo interesse per la geopolitica e il convinto approccio anti-capitalistico nei confronti dell’arte. Come curatore, nutre dubbi fin sul tema generale dell’esposizione: “Tutti i Futuri del Mondo”. Ma, ancora più rilevante, la mostra sembra avere forti dubbi su di lui e sul tipo di arte che cerca di promuovere. Tutti sanno infatti che il mercato gioca un ruolo fondamentale nell’arte contemporanea, e ignorare il mercato e le sue implicazioni può risultare naïve e controproducente.

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Enwezor cerca di evidenziare tramite l’arte il malcontento riguardo allo stato attuale delle cose. Le persone sono stanche delle logiche che dominano il mondo dell’arte, logiche che accentuano la diseguaglianza tra gli artisti in maniera anche distruttiva. La risposta a questa situazione è stata affidare all’architetto David Adjaye la costruzione di uno spazio all’interno del padiglione Italia, dove gli artisti sono stati invitati a leggere i capisaldi della letteratura politica. Per esempio Isaac Julien ha contribuito leggendo quattro volumi del “Capitale” di Marx, cosa che ha provocato le risa e le proteste degli altri artisti, che si sono chiesti cosa centrassero Enwezor e Marx nel contesto di una Biennale.

Ma sembra senza senso continuare a discutere sul tema della biennale. Quella andata in scena è la visione del mondo di Enwezor, tramite l’arte che lui ammira. Non so come mai non ci sia stato nemmeno un briciolo di compassione, di amore, di bellezza o di speranza. Nel complesso era tutto così disperante e grigio da escludere qualsivoglia sussulto di piacere estetico e divertimento. Sembra che il curatore abbia usato la mostra per giustificare la sua visione del mondo anti-capitalista, decentrata e profondamente anti-americana. Cosa che a mio parere serve solo a nascondere quelle che sono le vere forze in gioco nel mondo d’oggi.

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Da queste premesse “All the World’s Futures” passa in rassegna tutta la miseria del nostro tempo. Dall’Ebola alle guerre civili, il traffico di esseri umani, le catastrofi naturali e lo sfruttamento. È tutto qui, racchiuso in opere talmente concettuali da essere in molti casi didattiche, didattiche in una maniera noiosa.

Questo show moralizzante è allestito in maniera da sembrare un’accozzaglia di opere isolate, più che una raccolta organica sullo stesso tema. Sotto il punto di vista organizzativo, poi, la mostra è un vero casino. Ma forse fa parte di quel decentramento tanto caro al curatore.

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Anche Lorna Simpson, Adrian Piper, Steve McQueen, Chantal Akerman, Georg Baselitz, Chris Marker, Melvin Edwards, e Katharina Grosse sono sulla lista del curatore, e tutti con buoni lavori che sembrano allineati con il tema e decisamente rilevanti nel contesto attuale. L’artista Theaster Gates si è presentato con un nuovo filmato e, al padiglione italiano dei Giardini, Robert Smithson ha esposto “Dead Tree”, una scultura naturale del 1969.

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Grandi tende nere pendono dal padiglione italiano, facendolo sembrare una veglia funebre. L’arte mondiale è a lutto? Dentro il padiglione, insieme al lavoro di Robert Smithson, c’è il video di Christian Boltanski di un uomo che vomita sangue, un’altra stanza è stata pitturata con i teschi da Marlene Dumas. Morte e violenza sono ovunque. Anche quando compaiono bellezza e felicità, come nel quadro dell’aborigena australiana Emily Kame Kngwarreye, “Earths Creation”, 1994, tutto è adombrato dalla triste condizione in cui vivono gli aborigeni. Generalmente guardo la CNN o la BCC quando voglio la mia dose di notizie tristi, non le opere della Biennale.

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Per una mostra che doveva parlare del futuro, è strano come molti artisti scelti da Enwezor rimangano nel passato. Anche i suoi eroici storici dell’arte sembrano venire da un’altra epoca – Walker Evans, per esempio, è un artista che lui ammira e le cui opere sono alla biennale. In questo senso “All the World’s Future” guarda profondamente al passato: il curatore cerca nel passato risposte all’importanza dell’arte come nuova strada verso il futuro. È nostalgico e utopistico, nel senso buono, credere nell’idea che l’arte e gli artisti possano cambiare il mondo. Ma dopotutto, come esperienza visiva, è assolutamente tetra e sconcertante.

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