‘A NENNILLA

‘A NENNILLA

 

LE TEMERARIE USCITE DI LAURA CASTELLI, SOTTOSEGRETARIA  ALLE GAFFE IN UN GOVERNO DI IRRESISTIBILI GAFFEURS- A DISAGIO NEL PALAZZO E COI RAGIONAMENTI IN GENERE, HA SICURI TALENTI PER LA SCENEGGIATA NAPOLETANA. 

 

 

sallusti castelli a otto e mezzo 6

Un giorno gli storici ci spiegheranno perché gli italiani, esasperati dall’ antipatia dei competenti, in una domenica di malumore decisero di affidare l’aereo Italia all’equipaggio più pazzo del mondo. Il comandante Di Maio, il pilota automatico Conte e i responsabili dei disservizi di bordo, lo steward Toninelli e Laura Castelli, viceministra dell’ Economia per mancanza di prove.

LAURA CASTELLI

L’altra sera in tv la professoressa Gruber le ha fatto una domanda difficile, difficilissima: «State stampando le tessere elettroniche del reddito di cittadinanza?». Per superare l’ interrogazione, Castelli aveva studiato giorno e notte «L’ economia di zio Paperone», ma questa non la sapeva. Avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere, invece ci ha provato lo stesso. Che momenti.

Sembrava Sordi quando all’ esame di francese gli chiedono di tradurre «Il giardino di mia zia», e lui, con lo sguardo terrorizzato e la voce a simulare una naturalezza inesistente, biascica: «Le jardin de ma sziii». La Gruber incalzava: «Quante sono le schede, cinque o sei milioni?» E Castelli: «Cinque milioni e mezzo circa». «Chi le sta stampando, il Poligrafico?» insisteva la commissione d’ esame. «Forse ve lo diremo presto». Appena qualcuno lo avrà detto a lei, avvertendola che non si può stampare qualcosa che il Parlamento non ha ancora deliberato. Era questa la risposta giusta, accidenti. Perché Toninelli dal primo banco non gliel’ha suggerita?

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”

 

LO STRANO DESTINO DELLA POP-ART ITALIANA IN USA

LO STRANO DESTINO DELLA POP-ART ITALIANA IN USA

 

 

 

NEL LONTANO 1963 L’ARTE ITALIANA TENTA UNO SBARCO A N.Y., RESPINTA CON PERDITE- GLI ARTISTI ITALIANI NON CAPIVANO LA POP-ART AMERICANA? OPPURE GLI INTERESSI DEI GALLERISTI HANNO PREVALSO, IMPEDENDO FRA LE DUE SPONDE UNA IBRIDAZIONE CHE AVREBBE POTUTO ESSERE FECONDA PER L’ARTE PITTORICA DEL SECONDO NOVECENTO? 

MARIO SCHIFANO E ANITA PALLENBERG

Mario Schifano con Anita Pallenberg

Nell’autunno del 1963 R un pittore italiano di nome Mario Schifano s’imbarco sul transatlatico Cristoforo Colombo diretto a NewYork, in compagnia di un’attraente e brillante studentessa dell’Accademia di belle arti, Anita Pallenberg, appena diciottenne. All’epoca la citta americana era in cima ai pensieri di tutti i giovani italiani che volessero respirare un’aria diversa da quella di sacrestia che stagnava nella societa italiana.

In quegli anni gli artisti e quelli che, con orrendo termine, venivano chiamati intellettuali, erano o si dichiaravano tutti o quasi tutti comunisti. Ma questa appartenenza implicava l’ideologia, non il mercato. Nessuno di loro si sognava di invocare «A Mosca, a Mosca» come le Sorelle di Cechov.

Nessuno pensava di vendere quadri ai funzionari del Cremlino, avendo in cambio qualche matrioska.Tutti volevano andare in quella che veniva de nita «la metropoli della infame plutocrazia americana» – ma dove venivi pesato in base a quello che valevi e ai dollari che eri in grado di guadagnare.

Schifano era attratto dalla citta stessa, non dai dollari, ma dal lusso di modernita che soffiava su Manhattan come il gelido vento in arrivo dall’Atlantico: l’esatto opposto dello scirocco romanesco. Prima di partire aveva abbandonato la galleria la Tartaruga, gestita da Plinio de Martiis, ed era passato nel giro di Ileana Sonnabend, una scaltra e potente gallerista, che lavorava pero insieme a Leo Castelli.

MARIO SCHIFANO E ANITA PALLENBERGSCHIFANO COME GIUDA?

Il pittore sperava che questa mossa potesse aprirgli le porte del mondo dell’arte nuovayorchese. Fu un’ingenuita e anche uno sbaglio madornale. Nel frattempo il vero proprietario della Tartaruga, il barone Giorgio Franchetti, un gentiluomo che amava due cose, le opere d’avanguardia e quella regione dell’Italia chiamata Tuscia, aveva mandato una sorta di ukase a Plinio: «Convocate Schifano in galleria e schiaffeggiatelo sul viso, mentre gli dite: Giuda, sparisci dalla nostra vista».

Il passaggio da Roma a New York era avvenuto senza traumi. La citta sembrava congeniale al giovane artista: era come se fosse sempre vissuto al Greenwich Village. La sera andavano al Five Spot a vedere i film di Andy Warhol, infilandosi delle scarpe da ginnastica, per correre piu veloci quando sarebbe intervenuta la polizia. Oppure erano in prima fila a sentire Thelonious Monk e Charlie Mingus o erano invitati a feste under- ground dove incontravano Ferlinghetti, Corso e quell’amabile poeta pazzo di Ginsberg che faceva vedere a tutti la scatola di  ammiferi dove conservava la sua collezione di peli pubici.

ANDY WARHOL FOTOGRAFATO DA MARIO SCHIFANO

Andy Warhol in una foto di Mario Schifano

LA DOLCE VITA DI N.Y.

Era tutto un incontrarsi, rincorrersi, e reincontrarsi. E in quegli anni stanziali a NewYork Schifano sembrava, ha scritto Furio Colombo, un husky da slitta che correva di punta trascinando tutti gli altri. A volte, Mario e la Pallenberg venivano invitati dalla Sonnabend a cenare all’Elaine’s, un ristorannte costoso e alla moda.

La Sonnabend si atteggiava a protettrice e madre badessa del giovane e affascinante pittore italiano, difendendolo dagli attacchi maligni di Jasper Johns e Rauschenberg, definiti dalla Pallenberg, nelle sue memorie, due tipacci cinici e snob. Ma in realta i loro rapporti erano resi opachi da molte ambiguita e finzioni. Negli Stati Uniti, in pochi anni, l‘arte autoctona era passata, con un salto mortale simile a quello degli acrobati nei circhi, da generi di retrobottega, come romantici paesaggi del west e ritratti di cowboys, alle piu spinte opere del modernismo.

MARIO SCHIFANO E ANITA PALLENBERG

Mario Schifano con Anita Pallenberg

Tutto era cambiato con l‘arrivo dei surrealisti europei in fuga dai nazisti, che stavano bruciando le loro opere definite degenerate. La fuga era stata guidata da Andre Breton e finanziata dall’impareggiabile Peggy Guggenheim, che a New York aveva portato non solo i pittori, ma anche centinaia di opere mai viste prima negli Stati Uniti. La contaminazione avvenuta in quegli anni e stata all’origine della prima grande scuola americana.

Venti anni piu tardi un altro doppio salto, quello provocato dalla nascita della Pop art, rafforzo la presa di potere degli Stati Uniti, di NewYork in particolare, nel mondo dell’arte. Gli arbitri del mercato mondiale, ossia, i compratori americani, che ogni anno scendevano a Parigi per acquistare opere d’arte astratte, che non capivano e che pagavano a caro prezzo, perche non c’era altro a disposizione, furono estasiati davanti alle bottiglie di Coca-Cola, alle zuppe Campbell, ai ritratti di Marilyn.

Schifano

LA POP-ART E’ SOLO YANKEE ? 

Un’arte all american che parlava da sola. Il piu abile o il piu furbo degli artisti Pop era uno che faceva dichiarazioni demenziali come: «Io sono il piu grande pittore del mondo come Duccio e Giotto». Ma teorizzava anche che la pubblicità era il contenuto delle opere e diceva che dietro non c’era nulla, ne originalità, ne unicità.

La Pop era cosi americana che gli artisti europei, con i loro pregiudizi di originalita erano incapaci di capirla, tanto meno di interpretarla, perche legati a sorpassati ideali di autenticita. Per tutto il tempo che Schifano rimase a New York non riusci a vendere un quadro, come successe anche a molti artisti italiani che andarono in America pensando di riempirsi le tasche di dollari.

frank o hara by mario schifano

Frank O’Ara fotografato di Schifano

Il piu deciso a chiudere e conservare la Pop nell’ambito americano è stato Leo Castelli, quello che doveva aprire le porte. Anche Tano Festa, dopo qualche tempo si rese conto che organizzare una mostra a NewYork era impossibile e scrisse a Plinio che era «l’ora di smammare».

L’unico che aiutò Schifano, in senso concreto, fu un poeta molto conosciuto, Frank O’Hara, con il quale scrisse un libro intitolato Words and Drawings. I due si intesero subito. O’Hara conosceva benissimo Mario e lo stimava, e il pittore amava quello che scriveva il poeta e si accomodo sui suoi versi come in una comoda poltrona.

MARIO SCHIFANO E ANDY WARHOL

Il libro venne esposto nel 1964, a Roma, nella libreria Ferro di Cavallo – la prima a ospitare le letture dei libri appena usciti e gestita da Agnese De Donato – e poi scomparve. Adesso e riemerso dall’oblio, stampato in una edizione completa, a cura dell’archivio Mario Schifano, con testi Anita Pallenberg, di Furio Colombo e di Achille Bonito Oliva, e con foto stupende di Mario. E uno non puo fare altro che pensare a quale magnifica evoluzione avrebbe avuto l’arte di Mario se quell’imbecille di Leo Castelli non gli avesse tarpato le ali.

Articolo di Stefano Malatesta per “il Venerdì – la Repubblica”  28.4.217

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