SUGLI ARGINI CON CELATI

SUGLI ARGINI CON CELATI

Pochi giorni prima di compiere 85 anni, il 3 gennaio 2022, è morto Gianni Celati, scrittore, traduttore, regista, ma soprattutto uomo di fiume, camminatore smanioso, uomo della Bassa, narratore di pianure, anche se poi è morto in Inghilterra, dove risiedeva da anni. Ho aspettato a ricordarlo sul sito perché cercavo un omaggio meno rituale, più autentico, oltre che alle sue doti di scrittore, a quelle umane. In questi due articoli, pubblicati su Doppiozero, due suoi amici, Gino Ruozzi e Enrico Palandri -ambedue formatisi in quel crogiolo di idee che fu il DAMS di Bologna, voluto da Umberto Eco- il ritratto che ne esce di Celati è quello autentico, credo che sarebbe piaciuto anche a lui. Avere come orizzonte l’argine di un fiume ti cambia la vita, e se devi raccontare per vocazione hai lo zaino sempre in spalla, come Gianni Celati- Non so se Celati ha conosciuto un altro scrittore della Bassa, Gian Antonio Cibottohttps://www.ninconanco.it/il-vagabondo-delle-acque/, né se ha visitato il museo della Bonifica nel Basso Polesine: l’uno e l’altro gli sarebbero piaciuti.

Nell’inizio del film Sul 45o parallelo di Davide Ferrario (1997) Gianni Celati è a Gualtieri sul barcone di Gloria Negri che racconta di Boiardo, dell’Asia e della Mongolia. Col suo splendido volto da grande attore americano capace di riempire completamente la scena.  Il legame con la Mongolia era dovuto anche al viaggio che i musicisti del Consorzio Suonatori Indipendenti di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni avevano fatto in Mongolia nel 1996. E il collegamento con il Po, posto come la Mongolia sul 45o parallelo, derivava dal fatto che lì, in quel tratto di fiume tra Emilia e Lombardia, molti soldati mongoli erano morti cercando di attraversare il Po nella ritirata delle truppe tedesche nel 1945. Alleati dei tedeschi, per i quali svolgevano spesso i lavori più ingrati e violenti, i mongoli cercavano di sfuggire all’avanzata anglo americana ma i tedeschi stessi tagliarono loro i ponti. E il Po li inghiottì in grande numero.

Dalla sponda del barcone Gianni ci raccontava della «Tartaria» dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, di cui nel 1994 aveva pubblicato da Einaudi la sua straordinaria versione in italiano odierno. Impresa sorprendente e ciclopica che corrispondeva all’amore per i poemi cavallereschi, la loro travolgente fantasia, l’essere qui e là e altrove nel medesimo istante narrativo, dal Po al Catai («l’Asia», diceva Gianni, «è proprio il mondo dell’immaginazione massima»). Celati era tutto questo, narratore scritto e orale di stupori, di memorie e smemoratezze insieme, del piacere di raccontare e sognare.

Mondonuovo è un altro film di Davide Ferrario (2003) di cui Gianni è protagonista. Ha un viso e un modo di muoversi e di camminare particolarmente brillanti e scanzonati, è agile e scherzoso. È come se dicesse “seguimi che ti porto in un posto incantato” e lo dicesse seriamente e anche buffamente, in quel matrimonio di giocoso e di serio e poi di serio e di giocoso che lo contraddistingueva. Nella scia prediletta dei poemi cavallereschi e delle disinvolte e goliardiche movenze delle comiche.

Gianni Celati

L’indicazione del 45o parallelo era già presente nel primo dei diari di viaggio di Verso la foce (1989), alla data 14 maggio 1986. Con l’ubiqua scioltezza del cavaliere che sta «passando da una regione a un’altra del mondo», Gianni attraversa il ponte di Viadana e Boretto che collega Lombardia e Emilia (e qui il riferimento internazionale è ai «giorni immediatamente successivi allo scoppio nucleare di Černobyl»). Vede le cupole di Brescello e di Boretto e scendendo dall’argine di Boretto verso il paese si avvia in direzione della stazione e del «benedetto Albergo del Bersagliere». L’albergo era gestito dall’ospitale e anziana “signora Maria” (Maria Moretti) e fu chiuso nel 1989. Negli anni Ottanta divenne un luogo di culto grazie appunto alla affettuosa frequentazione di Gianni Celati, Luigi e Paola Ghirri, Daniele Benati, Giorgio Messori, Vittore Fossati e altri amici. Nel libro Vista con camera di Luigi Ghirri (1992) c’è una fotografia del banco del bar della sala ristorante e quella di un armadio a specchio in una delle camere, diapositive 6×7 datate 1986 (pp. 66-67). A poche decine di metri dal Bersagliere c’è Casa Falugi, famosa per l’imponente ciclo di affreschi del pittore e scrittore Pietro Ghizzardi, autore del memoriale Mi richordo anchora, pubblicato su suggerimento di Cesare Zavattini da Einaudi nel 1976 e di recente da Quodlibet nella collana Compagnia Extra promossa da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon (2016).

La nota del 16 maggio inizia proprio con un omaggio all’albergo:

La padrona dell’Albergo del Bersagliere mi ha raccontato che suo padre comprò questo albergo nel 1917, quando Boretto era un centro abbastanza importante per via del traffico fluviale e per i collegamenti tra Parma o Reggio Emilia e l’altra sponda del Po. Albergo rimasto intatto, ora frequentato da camionisti che alla sera mangiando fanno racconti da un tavolo all’altro, mentre la padrona li serve come se fossero conoscenti venuti a trovarla. Impressione immediata d’essere in casa di qualcuno, non in una anonima stazione di transito; nelle grandi camere da letto sembra d’essere in visita a qualche vecchia villa di campagna.

Gianni Celati

Poche righe prima, in chiusura della nota del 14 maggio, queste bellissime e lapidarie considerazioni:

Quand’ero giovane leggevo sempre, avevo paura di perdermi qualcosa, e adesso ho l’idea che il perso e il trovato vadano nello stesso alveo.

Le narrazioni fluiscono naturali come è naturale l’atto del camminare, lo scorrere del fiume, le conversazioni che si alzano e alimentano da un tavolo all’altro delle osterie e dei ristoranti. Una «fratellanza» conviviale, come richiama il nome di una delle più antiche osterie di Guastalla (La Fratelansa), meta di pellegrinaggi intellettuali soprattutto tedeschi, dalla Svizzera e dalla Germania. 

Dopo Boretto Gianni prosegue sull’argine verso Guastalla, arriva e si ferma al Lido Po al Ristorante del Faro, si muove tra gli argini e le golene, lungo i pioppeti che occupano entrambe le sponde, osserva il corso del torrente Crostolo che sfocia proprio tra Guastalla e Gualtieri.

Da alcuni anni alla foce del Crostolo è stato costruito un piccolo ponte di legno che collega direttamente le sponde degli argini di Guastalla e di Gualtieri; prima occorreva fare un giro di qualche chilometro per raggiungere quella estremità opposta che si trova a una decina di metri e che ora si supera in alcuni secondi. È un luogo magico, nel quale Celati tornerà più volte anche per i film, in particolare Sul 45o parallelo (1997) e Il mondo di Luigi Ghirri (1999). Sono le stesse golene di Antonio Ligabue, di recente rivisitate prima dal teatro di Mario Perrotta e poi dal film Volevo nascondermi di Giorgio Diritti (2020). Il paese del sole a picco lo aveva chiamato Pier Paolo Ruggerini nel primo filmato dedicato a Ligabue (1960).

Per questi luoghi si può provare incanto e disincanto, sentire le preoccupazioni per una natura ferita e comunque avvolgente, lo sdegno per «una campagna tutta invasa da industrie», che risulta ancora più evidente nel passaggio sulla riva opposta lombarda, nello stradone che porta da Viadana a Pomponesco. Qui avviene uno stacco, una pausa, una sospensione che coniuga stupore e razionalità, vaghezza e geometria.

Ponte di barche sull’Oglio

Qui voglio parlare di Pomponesco. Dopo Viadana, lasciando lo stradone provinciale e inoltrandosi per una strada in direzione del Po, quando si arriva in paese parrebbe d’essere in un’epoca tutta diversa. Pomponesco è fatto di strade dritte a intersezione ortogonale, come Guastalla e Ferrara, stradario rinascimentale che riprende il modello del campo fortificato romano. Pochi abitanti, e certe volte alla domenica mattina, in quelle strade dritte e silenziose, viene l’idea d’essere in un lontano stanziamento di frontiera.  

Il paese si stende intorno alla meravigliosa piazza rettangolare, non umiliata dal cemento e dal nuovo. La prospettiva delimitata in fondo da due colonne a ridosso dell’argine, imbuto d’una strada silenziosa con belle case antiche, porta l’occhio verso l’aperto. Là in fondo l’aperto si presenta dietro un orizzonte, facendo sentire l’indistinta lontananza che dà un senso alla nostra collocazione spaziale. Piazza quasi sempre vuota, dove il vuoto si riconosce come l’accogliente, e noi accolti potevamo accorgerci degli altri accolti di passaggio, senza la solita sensazione di fastidio.

Pomponesco sembra un avamposto di confine, con la pianura alle spalle e il Po davanti, «uno stanziamento di frontiera» che mi ricorda atmosfere di Buzzati. Orizzonti aperti oltre quelle siepi leopardiane di «indistinta lontananza» che sono gli argini, sensazioni metafisiche delle piazze di De Chirico e città del silenzio dannunziana, in cui riecheggia la famigliare Ferrara («O deserta bellezza di Ferrara»). Vuoto e accoglienza, lasciare spazio all’altro e agli altri, che è sempre stata una delle meravigliose qualità di Gianni. 

Da questa precisa prospettiva c’è una bellissima foto di Luigi Ghirri. Non è un paesaggio primaverile come quello di Gianni ma invernale. Risale a qualche mese prima, nel 1985. Ritrae le due colonne incappucciate di neve che al termine della piazza aprono al paesaggio e al respiro dell’argine e dei pioppi, dietro il quale è lecito immaginare il Po e l’infinito.

Domenica 22 maggio 2016 Gianni è venuto a trovarci con Daniele e siamo andati con Gloria a pranzo alla trattoria di Bocca Bassa. Quindi dall’altra parte del Po, sulla sponda lombarda, lungo l’itinerario Dosolo, Villastrada, San Matteo delle Chiaviche, dove dopo il monumentale complesso idrovoro abbiamo preso il corso destro dell’argine dell’Oglio. (Nella direzione opposta, da Dosolo a Viadana avremmo incontrato Pomponesco). Su questa strada stretta e piena di curve, dopo pochi chilometri, in basso a sinistra rispetto all’argine, si trova la trattoria di Bocca Bassa, meta abituale di tante nostre cene: salami mantovani e spalla cotta, salse giardiniere e gnocco fritto, agnoli in brodo e tortelli con erbette zucca e ortiche, guanciali di maiale e stracotto di asino, frittura di rane e pesce gatto, torta sbrisolona salame di cioccolato e zuppa inglese.

Pomponesco, posto sulla riva sinistra del Po, in provincia di Mantova

Argini molto amati da Gianni, «fanno venire in mente racconti di barcaioli, braccianti, ghiaiaroli, segantini, uomini di bosco e uomini di fiume» (Verso la foce, 20 maggio 1983). Da qui, tornando verso il Po, si arriva al bellissimo ponte di barche sull’Oglio («l’ultimo che resta in piedi dal tempo di guerra»), che porta dopo qualche centinaio di metri l’Oglio a confluire nel Po di Borgoforte e quindi i due argini a unirsi.

Nel pomeriggio vagando in macchina (che è un altro modo di passeggiare e chiacchierare a ruota libera) siamo approdati a Corte Castiglioni a Casatico di Marcaria, residenza storica di Baldassarre Castiglione, ulteriore perla di queste terre. Abbiamo avuto la rara fortuna di potere visitare anche la torre stellare e la villa con gli affreschi.      

Una giornata baciata dal sole. Gianni ha camminato e parlato tanto, era felice.

Articolo di Gino Ruozzi per doppiozero.com

Ciao Gianni

Mi hanno raccontato che quando è caduto e si è rotto il femore, e gli hanno scoperto un tumore esteso che lo ha rapidamente portato via, Gianni ha detto a Gillian: è finita! E penso che anche senza pensare alla morte, l’idea di non potersi più muovere fosse davvero l’idea della fine. Tutto il suo lavoro, la prosa, le traduzioni, il cinema, l’essere con gli altri, è sempre stato animato da questa straordinaria energia di camminatore diurno e notturno, che in lui era scrivere. Lo dice molto bene in una bella videointervista a Marco Belpoliti per Doppiozero di alcuni anni fa dove racconta come scriveva. Faceva passeggiate sui colli bolognesi fino ad esaurire l’energia, o quella energia, tornava a casa e si metteva al tavolino.

Credo che questa forza arrivi anche attraverso i suoi libri, dove Guizzardi e Garibaldi, Giovanni, i tanti personaggi dei Narratori delle pianure o dei tanti magnifici racconti successivi, entrano nel racconto quasi di corsa, trafelati, trascinati e trascinando nelle vicende con la rapidità di esecuzione e il rigore di chi sa che quei passi sono tutti importanti, e sono proprio così. Quasi saltasse da una pietra all’altra per attraversare il greto di un fiume. E così i film, che sono spesso proprio la cronaca di un girovagare curioso in Emilia o in Africa, per vedere case che crollano insieme a John Berger o per raccontare la propria infanzia a un gruppo di amici. Il modo di parlarsi, quando ci si incontrava, aveva sempre questa caratteristica, un vieni con me, o vieni via con me, scriveremo e parleremo mentre andiamo di qua o di là, ti faccio vedere un posto, voglio che conosci il tal dei tali, andiamo a vedere dove finisce quella strada…

Poi naturalmente si incrociava anche la staticità. E questa è sempre stata la condizione da cui lui fuggiva. L’incensamento letterario, i premi (che, citando Thomas Bernhard, diceva: è come se ti cagassero in testa), in generale il venire fissati, immobilizzati. Capisco così perché la rottura del femore, credo anche prima della diagnosi di un tumore che gli hanno scoperto in seguito, deve essergli apparsa come la fine.

Del lavoro, il tantissimo lavoro che ha fatto nella sua splendida camminata si è molto scritto, c’è il “Meridiano” di Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, ci sono monografie, interi numeri di riviste, e soprattutto tantissime persone che con lui hanno lavorato o da lui hanno imparato e che con lui hanno condiviso. Io vorrei solo mostrare una linea, che nella mia mappa emotiva e intellettuale segna una delle direttrici più visibili. Una linea che nasce dalle difficoltà della sua adolescenza e che riaffiora in tanti punti del suo lavoro, dai primi romanzi, che ne sono segnati profondamente, a tanti altri spunti che riaffiorano fino agli ultimi lavori.

Quali sono le difficoltà dell’adolescenza? La prima è la stessa di cui parla Jacques Prévert in una bella poesia dove a un ragazzo viene chiesto di seguire il computo delle tabelline e lui si mette a guardare un uccello fuori dalla finestra. In pochi come in Gianni, il dolore di questa costrizione in una classe, di un bambino che vorrebbe saltare e giocare e correre, e semplicemente vivere, si mostra con tanta sofferta eloquenza. E anche il camminare diventa quindi proprio il luogo in cui si frantumano, scontrandosi l’una con l’altra, l’aperto dei prati e del cielo e il chiuso di un tavolino in una stanza.

In La banda dei sospiri, questa esplosione avviene in un teatrino familiare dove ogni personaggio ha il nome di un qualche eroe romanzesco, di un attore del cinema o di qualche altro eroe, ma sono tutti molto veri e vicini all’osso, persino edipici, come quando il terribile Federico fa l’amore con Veronica Lake e distrugge nell’anima del giovane Garibaldi famiglie di origine e famiglie future, consegnando tutta la vicenda personale a una impossibile ricostruzione di vite infrante.

Questo tono, tragico, in Gianni non è mai la partitura principale. Gianni sa bene che trascinerebbe in una immobilità che per lui sarebbe la fine, distruggerebbe il camminatore. Bisogna al contrario trovare lo scarto che consente di evitare la fine, i giudizi universali, bisogna scappare, saltare, uscire. Ma questa voce è presente fin dall’inizio e si mostra solo in controluce, e soprattutto la si sfugge. Perché quando ci si ritrova immobili, allora davvero è finita. Ma è sempre lì, affiora ogni tanto in un tono, nella scomparsa di un uomo lodevole o tra le righe di racconti che apparivano quasi scanzonati a mostrare la ferita, perché è stato necessario mettersi a camminare. 

I primi che recensiscono Gianni non capiscono cosa ci sia in gioco, lo ascrivono a un genere comico, non lo vedono. Sarà solo più avanti, man mano che con le ombre inizia a dialogare, che si vedrà com’è densamente intessuta la sua prosa.

Non voglio però che questo sia un ricordo triste. Certo ci mancherà, anche se ormai non scriveva e non parlava più, sapere che poteva fare delle passeggiate lungo le scogliere di Brighton lo teneva vivo per tanti di noi. Ora è finita. Ma così com’è sfuggito ai tanti sbarramenti che ha trovato nella vita, le cose che non sono andate bene e da cui nasceva la necessità di camminare ancora, nei suoi libri c’è qualcosa che supera anche la morte e che spero tanti nuovi lettori ritroveranno ancora per svicolare, superare, saltare gli ostacoli. E non come un semplice saltimbanco, definizione che gli sarebbe piaciuta perché lui voleva proprio avere le mosse di un mimo, ma per la scrittura ricca e così spesso allegra di cui è capace. Allora voglio raccontare un episodio che coglie questo senso dell’umorismo che apparentemente deride la solennità, ma in realtà la accompagna e la colora.

Quando ho incontrato Jenny, con cui poi ho condiviso la vita, gli scrissi una lettera dicendogli che per me lei era un Dio. Lui era in Normandia e io a Londra, e gli dissi che volevo andarlo a trovare con lei. Attraversammo la Manica con una nave, una notte, e della camminata del giorno dopo, al termine della quale lui ci lesse la storia dei Gamuna, ho raccontato brevemente in un altro pezzo che si trova su Doppiozero, anche quello tutto sul camminare con Gianni. Non so se in quella occasione o poco dopo, citando la mia frase esagerata che paragonava Jenny a Dio, lui mi disse sorridendo che aveva pensato: sarà molto alta…

Ecco, questo è il mio magnifico amico Gianni Celati, sottile, con un sorriso profondo che va sempre al fondo delle cose, le riapre, ce le offre perché anche a noi riesca di sorridere, di noi stessi e della vita, e di farne qualcosa. 

Articolo di Enrico Palandri per doppiozero.com

IN PROVINCIA

IN PROVINCIA

Gianni Celati e il suo canto della provincia padana, comica malinconica e disorientata

Succede questo: che il mondo corre, ma in provincia corre più piano, corre più dentro, non è ancora tutto squadernato, e le facce ritornano una volta e poi ritornano ancora, e allora alla fine nessuno viene davvero dimenticato.

Naturalmente con il giro delle stagioni arrivavano le nuove leve, gli squadroni dei nuovi rampolli della nostra scuola e della città; e ognuno arrivava all’appuntamento convinto che il mondo non aspettasse altro che lui, oppure stizzito se gli sembrava che aspettasse un altro invece che lui. Ognuno per trenta o quarant’anni là a mostrare i suoi vestiti, a fare i suoi confronti, i suoi commenti, e poi via, passato ad altre eterne.

Gianni Celati vive tra l’Italia, l’Africa e l’Inghilterra (da molti anni a Brighton), ma è sempre un ferrarese, uno scrittore con la provincia padana nella testa e nelle dita. Quel tipo di malinconia e di comicità è inconfondibile e indimenticabile, come sono i portici e le piazze, i vicoletti acciottolati e la stazione di notte in cui fermarsi a parlare sempre della stessa donna, quella che al liceo li ha fatti impazzire tutti, la Susanna Zarri. Questi racconti, uniti dal titolo “Costumi degli italiani”, sono come un romanzo frastagliato e rimontato, mostrano con dolcezza gli “eroi pascolanti” che ogni volta ritornano, con i loro tormenti, con le fissazioni che cominciano in quarta ginnasio e sono capaci di condurli al manicomio. L’adolescenza, la giovinezza, l’età adulta, lo smarrimento che non passa e il sesso che aleggia misterioso sopra ogni cosa, ma soprattutto quella mancanza di orientamento, e forse anche di coraggio. C’è in questi pascolanti un’accettazione indolente del proprio destino, nella provincia degli anni Sessanta, la rassegnazione anche verso l’isolamento e l’infelicità.

Pucci che fuma una cicca dietro l’altra sul materasso nel giardino di suo nonno, Bordignoni che si innamora della barista Rossana e ogni mezz’ora va a ordinare un caffè, finché viene ricoverato in ospedale dopo un coccolone. Gianni Celati sa trasformare l’amarezza in comicità, ma non si può non soffrire per questi personaggi di secondo piano, che il mondo non ha mai aspettato, a cui non ha mai rivolto una seconda occhiata. Ci sono però anche le provvisorie celebrità, gli uomini in odor di benessere, le vedove con il petto in fuori. Anzi, ci sono tutti.

Gianni Celati

“Adesso succede questo: torno a casa e non trovo più mio fratello, poi vengo a sapere che mio padre l’aveva mandato via e non voleva più vederlo sotto il suo tetto. Questo perché sospettava amori segreti tra mio fratello e mia madre. Terribile idea! Il fatto è che il mio povero genitore subiva tante umiliazioni dagli aguzzini della sua banca che dopo gli venivano delle fissazioni tremende, con voglie di morire o di spaccare tutto”. Così il figlio deve nascondersi in soffitta, dove la madre gli porta di nascosto da mangiare, e intanto il padre ciabatta in pigiama per casa come un re Salomone decaduto, con una continua voglia di fare l’amore con sua moglie e di farle giurare che nessun incesto è mai avvenuto.

Succede questo: che il mondo corre, ma in provincia corre più piano, corre più dentro, non è ancora tutto squadernato, e le facce ritornano una volta e poi ritornano ancora, e allora alla fine nessuno viene davvero dimenticato.

“Zoffi era lungo e magro, Barattieri più grasso, Fregatti medio e già caldo in giovane età. Amos grassoccio e sbrindellato. Io un quindicenne con l’aria confusa. Che vita! Quanti anni passati a parlare! Quante parole buttate al vento! Quanti libri letti e dimenticati! E poi le selve d’amore! E le nausee d’amore come quelle venute a Zoffi, caduto innamorato di sua cugina Urania. Io vorrei sapere dove sono andati a finire tutti quanti, e se siamo davvero esistiti, se è proprio questa la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa”. Non si sa se questi siano versi, o un canzone, o solo costumi degli italiani.

Recensione di Annalena Benini per Il Foglio quotidiano del libro di Gianni Celati, “Costumi degli italiani” Quodlibet editore

CA’ VENDRAMIN

CA’ VENDRAMIN

Una generazione se ne va e un’altra arriva,/ma la terra resta sempre la stessa./Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce./Il vento va verso sud e piega verso nord./Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento./Tutti i fiumi scorrono verso il mare,/eppure il mare non è mai pieno:/al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere.

 

Con queste parole si apre i Libro di Qoèlet, contenuto nella Bibbia. I fiumi scorrono sempre verso il mare, ma la terra non resta sempre la stessa. Lo scoprì Gianni Celati, durante il viaggio del 1989 Verso la foce (è il titolo del libro che trasse dagli appunti del suo diario). Prima di lui fece lo stesso viaggio Mario Soldati: era il 1957. Giunto a Ferrara, in località Dogana Vecchia, proprio sotto l’argine del Po, lo scrittore piemontese assiste sgomento ai lavori idraulici che, allargando il vecchio argine, avrebbero sepolto quanto rimaneva del presidio fra due Stati: quello fra Serenissima e Pontificio.

Panorama da Ca’ Vendramin sul delta del Po.

Le terre cambiano, cambiano con esse gli uomini, spesso in peggio. Per meglio dire: terre e uomini cambiano insieme. Ed è una bella lotta stabilire il primato. Può più l’opera rovinosa delle acque alluvionali, l’incessante erosione dei marosi, oppure l’antropizzazione? A dire che , fino a non molto tempo fa, qualcuno era disposto a credere che queste terre padane così estreme, sbracciate sul mare, qualche cosa di speciale la conservavano. Ne fanno fede queste parole di Giovannino Guareschi, quello di Don Cammillo e Peppone. “Bisogna rendersi conto che in quella fettaccia di terra fra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono.” Sono sicuro che Gianni Brera farebbe sue queste parole (lui di San Zenone sul Po)! Quando l’uomo si misura direttamente con la natura, tocca la sua piccolezza, ma la sua inquietudine esistenziale lo spinge ad andare oltre tali limiti, là dove tutto può succedere, dove cedono le paure e si fa più acuta la consapevolezza del mito.

Di questa lotta fra ambiente e uomo fa fede il Museo regionale della bonifica di Ca’ Vendramin, che visito accompagnato dal mio capitano Achab (https://www.ninconanco.it/col-capitano-achab/), uomo di scanni e abilissimo a scansar barene. Guardo lui stagliato lungo il profilo dell’argine e della ciminiera che sembra un obelisco. Mi viene da accostarlo a quel pescatore di Scano Boa,(www.comingsoon.it/film/scano-boa/20006/scheda/) atipico eroe e maldestro pescatore, inventato da Gian Antonio Cibotto, un altro squisito letterato, vegliardo indomito, impastato di versi, canne palustri e fango.

 

 

 

Le foto in bianco e nero si riferiscono ai lavori per la costruzione dell’idrovora di Ca’ Vendramin

Il consorzio o retratto (secondo la vulgata veneziana) risale al 1745. Nasce per iniziativa dei privati, proprietari terrieri e latifondisti interessati al controllo delle acque e alla bonifica dei terreni. Nel 1801 sotto Napoleone i tre preesistenti consorzi di bonifica vengono unificati e nel 1804 la manutenzione dei fiumi e degli argini diventa competenza statale. Nel 1815, quando ai francesi subentrano gli austriaci, il consorzio assume la denominazione di Consorzio agli scoli dell’Isola di Ariano, attuale Consorzio di bonifica del Delta del Po.

Il prosciugamento dei terreni avveniva attraverso poderose macchine idrauliche: la prima idrovora a Ca’ Vendramin, mossa da vapore, nei cui locali, costruiti fra il 1900 e 1903, oggi è ospitato il museo.  Due le idrovore secondarie, mosse da energia elettrica. Una rete allora all’avanguardia, progettata dal Genio civile di Rovigo, su indicazione di un abile ingegnere di Castelleone, Antonio Zechettin, meritatamente ricordato in un’iscrizione.

 

A causa dell’abbassamento del suolo fra gli anni 1950 e ’60 l’impianto perse la sua rilevanza e venne dismesso, a favore del nuovo impianto di Goro.

Il progetto iniziale prevedeva di allocare qui un ecomuseo, in cui valorizzare il significativo patrimonio storico e ambientale di Ca’ Vendramin, offrendo servizi culturali e occasioni per un uso intelligente del tempo libero e del turismo. La Fondazione Ca’ Vendramin, che pure vede la presenza, oltre agli enti locali, della Regione Veneto, è priva di mezzi finanziari adeguati. Il centro culturale per studi e ricerche collegate all’ambiente del Po è solo sulla carta.

Lo stesso vale per l’orto botanico, che il progetto prevedeva di specializzare nella salvaguardia e studio delle varietà botaniche tipiche dell’area deltizia. Dopo le restrizioni dei fondi per le gite scolastiche, anche questo flusso turistico, numericamente significativo, è andato ad esaurimento. Oggi, per entrare nel museo non bisogna certo farsi largo fra la calca. Ma forse è meglio così: queste sale enormi, in cui persistere l’odore del grasso minerale e della ruggine, in fondo stanno bene immerse nella penombra e nel silenzio. Silenzio fatto di rispetto e ammirazione per il tanto lavoro e il tanto ingegno profusi, nel produrre prima e nel mantenere in efficienza poi queste macchine che, pure inerti e scrostate, ancora riescono a trasmettere forza e a ispirare riguardo. Oltre che silenziose, queste sale diventano impenetrabili da novembre a tutto febbraio dell’anno successivo, in quanto il museo in quei mesi chiude. Un po’ come i rifugi di montagna!?

Nelle varie sale le didascalie sono puntuali, grandi pannelli illustrano la storia dell’edificio ed è possibili visionare materiale multimediatico. 

Manca, purtroppo, un opuscolo illustrativo takeaway.

Lungo le pareti della sala convegni troviamo una mostra fotografica sul tema Polesine, opera di una appassionata locale: Maria Burgato. Riproduciamo qui sotto alcuni dei suoi scatti.

Per informazioni e prenotazioni: www.fondazionecavendramin.it

Info@fondazionecavendramin.it

 

 

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