DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

Le polemiche sullo stereotipo dell’italoamericano e le critiche negative furono nulla in confronto alla mania che generò, dalla moda alla musica fino al linguaggio. Cinquant’anni fa usciva il mafia- movie di Coppola che emozionò Kissinger

”Il faccione severo di Marlon Brando campeggiava da giorni sulle copertine di Life e Newsweek (“Brando play a Mafia chieftain”). La premiere del film era l’evento più atteso della stagione e per l’esclusiva serata di gala, il 14 marzo del 1972, fu scelto il Loew’s Theatre di Broadway. Quel giorno un’improvvisa tempesta di neve aveva paralizzato New York, ma nessuno, tra la gente importante di Hollywood, voleva mancare all’anteprima del “Padrino”. Erano tutti ansiosi di capire se il successo formidabile del best seller di Mario Puzo, pubblicato tre anni prima e definito dalla critica americana, un “fratelli Karamazov della mafia”, sarebbe stato replicato anche al cinema. Da anni in una grave crisi finanziaria, come del resto gran parte degli studios, la Paramount si giocava tutto o quasi col “Padrino”. Nella sua autobiografia (“The Kid stay in the picture”), Robert Evans, ex attore di scarso talento, gran playboy e in quel momento ai vertici della Paramount, ricorda così quella serata: “Quando si sono spente le luci e è partita la musica di Nino Rota ho visto tutta la vita passarmi davanti”. Coppola, invece, si era ritirato nel frattempo sulla Costa Azzurra, aspettando di capire come si sarebbero messe le cose. Due ore e cinquantasei minuti dopo, quando le luci in sala si riaccendono, Evans si ritrova davanti a un Henry Kissinger commosso, quasi in lacrime: “E’ un capolavoro, è un film che parla a tutti: non è molto diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington”. Detto da Kissinger c’era da fidarsi. Il successo del “Padrino”, col suo cumulo di leggende raccontate in libri e documentari, alcune vere, altre verosimili, molte improbabili, comincia proprio quella sera. Per l’after party del film si va a festeggiare al St. Regis Hotel. Le foto immortalano Evans e la sua terza moglie, Ali Macgraw, a dir poco euforici, e poi Al Pacino, James Caan, Raquel Welch, Jack Nicholson, e naturalmente Henry e Nancy Kissinger, tra fiumi di champagne e balli sui tavoli. La mafia era diventata glamour. A Parigi, per il lancio del film, organizzarono una grande spaghettata all’“Opera”, presieduta da Claude Pompidou, coi camerieri che fischiettavano celeberrimi motivi di Donizetti, Rossini, Puccini. Ah les italiens!

Marlon Brando

Un film che si apre con un uomo che dice, “I believe in America”, pronunciando la frase come un atto di fede, nell’oscurità di una stanza buia, prima di chiedere il favore di un omicidio, non poteva che toccare le corde profonde del segretario di stato americano. Kissinger fu tra i primi a cogliere nel “Padrino” non tanto o non solo una saga sulla mafia, ma una trasparente metafora dell’America. Subito Coppola gli faceva eco: “E’ un errore pensare che sia un film sulla mafia. ‘ Il padrino’ è un romance su un re con tre figli. E un film sul potere. Si sarebbe potuto trattare dei Kennedy”. Ma che al posto dei Kennedy ci fossero i Corleone era secondo Marlon Brando una dimostrazione lampante del fatto che “la mafia è il miglior capitalismo che abbiamo”, come andava ripetendo sui giornali. La vera lezione del “Padrino”, casomai, è che la più grande minaccia per un uomo che accumula una fortuna sono i figli deficienti, ma all’epoca la lettura anticapitalista era assai convincente. In polemica con Hollywood, che pure gli aveva regalato una seconda chance, nonostante nessuno avrebbe voluto ingaggiarlo, Brando preparava il terreno per il gran rifiuto del premio Oscar come miglior attore. Al suo posto manderà, Sacheen Littlefeather, nome d’arte di Marie Louise Cruz, attivista per i diritti civili dei nativi americani che promise a Brando di leggere la sua arringa, senza neanche sfiorare la statuetta, e così fece.

Al Pacino con Coppola

Cinquant’anni dopo, in piena cancel culture, “diversity” e “inclusività”, la scena funziona ancora meglio: Roger Moore in smoking e Liv Ullman in abito da sera annunciano il premio. Parte il tema del “Padrino”, ma al posto di Brando, sale sul palco un’indiana americana che con gesto plateale rifiuta la statuetta, “in nome del discutibile trattamento riservato agli Indiani d’America nell’industria del cinema e nel mondo della televisione” ( non poté leggere il lungo testo che aveva con sé perché gli organizzatori, conoscendo le sbrodolate del divo, le avevano tassativamente vietato di superare il minuto). John Wayne in platea mugugnava insofferente e dovettero calmarlo. Subito dopo, salì sul palco Clint Eastwood per presentare i candidati alla miglior fotografia e alleggerì la tensione: “Bisognerebbe tutelare anche tutti quei cowboy bianchi uccisi nei western di John Ford”. Una battuta che oggi potrebbe rifare solo lui, anche se in sala non riderebbe nessuno. Nel frattempo, protestava in quei giorni anche la “Lega per la difesa dei diritti civili degli italoamericani”. “Abbiamo fatto tanto per l’integrazione degli italiani in America, credevamo di esserci finalmente liberati di certi stereotipi”, diceva Anthony Colombo, “ma ‘ Il Padrino’, col suo cumulo di falsità e invenzioni, ci riporta al punto di partenza” ( Anthony Colombo era figlio di Joe Colombo, fondatore della Lega alla fine degli anni sessanta, capomafia della potente famiglia Procaci: finì crivellato di colpi da un killer afroamericano al “Columbus Circle” di Manhattan poco prima dell’uscita del film). Mentre Brando lottava contro Hollywood per una più corretta rappresentazione degli indiani d’America, gli italoamericani si indignavano per tutti quei picciotti sullo schermo.

Diane Keaton con Al Pacino

Quando si parla del “Padrino” si comincia sempre con la sfilza di nomi di registi che si rifiutarono di girarlo. L’elenco si arricchisce ogni volta: Richard Brooks, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa- Gavras, Peter Bogdanovich, Sam Peckimpah, Sergio Leone, persino Franco Zeffirelli, magari con musiche di Mascagni al posto di Nino Rota. Ma, com’è noto, proprio l’idea di farlo girare a Coppola si rivelerà una mossa decisiva.

De Niro

Oggi è difficile da credere, ma prima del “Padrino” la mafia non era un buon affare per Hollywood. Nel 1968, poco prima che la saga dei Corleone catapultasse al cinema milioni di persone, la Paramount aveva prodotto “The Brotherwood”, un poliziesco ambientato nel mondo della mafia italoamericana che si rivelò un disastro. Kirk Douglas nei panni del capomafia Frank Ginetti, con penosi baffoni neri posticci, tipo emigrato italiano in Germania, era assai poco credibile agli occhi degli spettatori. Anche tutti gli altri attori del film avevano facce wasp o da ebrei americani, nulla insomma di italiano. Il pubblico era cambiato, voleva il “realismo”, e Hollywood era rimasta indietro. Col “Padrino” inizia quella politica editoriale dell’“appartenenza” ( non puoi dire nulla sulla mafia se non sei italiano) che sarebbe poi degenerata nella nostra epoca, dove un autore bianco, ancorché nonbinary, non può tradurre le poesie dell’afroamericana Amanda Gorman, e Helen Mirren viene rimproverata per aver accettato di interpretare Golda Meir perché non ebrea e priva di “jewface” ( del resto, anche Camilleri scriveva che “l’unica letteratura autorizzata a parlare di Mafia dovrebbe essere quella dei verbali di polizia e carabinieri”, ma per fortuna non gli si dà retta). Bob Evans, insomma, aveva captato il revival etnico che stava attraversando la società americana. Le rivendicazioni identitarie della “jewishness”, della “blackness”, della “italianness”, reclamavano un nuovo tipo di film, quantomeno nuovi registi e attori. E qui entra in gioco Coppola. Trasformando un film su committenza in un prodotto personale, pieno di riferimenti alla propria infanzia a Little Italy, Coppola realizza il primo blockbuster “identitario” della storia del cinema, oltre che un campione di incassi che strappa il primato a “Via col vento”. In omaggio alla propria “italianità”, “Il Padrino” è poi anche uno dei più straordinari esempi di nepotismo cinematografico.

De Niro

Nella scena del matrimonio iniziale, il padre di Coppola, Carmine, dirige l’orchestra, un cugino canta, vari parenti fanno le comparse. La sorella di Michael Corleone è interpretata da Talia Shire, sorella di Coppola, e c’è anche la figlia Sofia, appena nata, battezzata nel finale del film. La saga dei Coppola al cinema non sarà meno epica di quella dei Corleone. Ma questo effetto “famiglia italiana” faceva la differenza rispetto a tutto ciò che era stato prodotto sin lì a Hollywood in fatto di mafia. Sammy Gravano, detto “The Bull”, braccio destro di John Gotti, ricordava così l’incontro col “Padrino”: “Forse era una finzione, ma non per me. Era la nostra vita… E non solo i delinquenti, gli omicidi e tutte quelle cazzate, ma quel matrimonio all’inizio, la musica e il ballo, eravamo noi, gli italiani!”. “Il padrino”, insomma, era un riferimento per tutti gli italo- americani in cerca di un’identità. Quando in una scuola di Providence, Rhode Island, si celebrarono i giorni dedicati alle etnie, gli studenti italoamericani si presentarono vestiti come i membri del clan Corleone. Da lì a bar, caffè, ristoranti, catene di negozi e pizzerie “Padrino” il passo era breve. Alle feste e ai matrimoni ormai suonavano ininterrottamente la colonna sonora del film, come un nuovo inno nazionale, più struggente, romantico, più vicino alla sensibilità degli italoamericani rispetto alla marcetta di Mameli. Allo stesso tempo, il film di Coppola aveva introdotto un nuovo gergo. Come diceva Puzo, “prima che la usassi io, nessun mafioso aveva mai usato la parola ‘ padrino’ in quel senso, ora la mafia la usa, la usano tutti”. La padrinomania scoppiò subito, ben al di là del circuito italoamericano, e coinvolse anche la moda. Andava a ruba il cappello “Stetson” indossato da Marlon Brando, si rivedevano le giacche a due o tre pezzi. Uscì anche e ebbe un certo successo, “Il gioco del Padrino”, una specie di mercante in fiera con la pianta di New York, carte, dadi, pedine, chiusi in una scatola a forma di mitraglietta. Oggi invece abbiamo i Sauvignon fatti con l’uva mafiosa dei terreni confiscati e il “miele della legalità”. Se Coppola ha inventato il “mafia- movie”, noi abbiamo inventato l’antimafia- movie, una serie interminabile di film e fiction a base istituzionale e finanziamento statale con la verità insabbiata, le infiltrazioni, le trattative, le procure, le madri coraggio e tutta l’“alluvione di retorica” di cui parlava Sciascia nel suo celebre articolo. Se dobbiamo immaginare qualcosa capace di tenere testa al “Padrino”, pensiamo casomai ai nostri grandi drammoni famigliari, a “Rocco e i suoi fratelli” o al “Gattopardo”, con tutto il problema del mondo vecchio costretto a fare spazio al nuovo ( del resto, il matrimonio all’inizio del “Padrino” evoca il ballo finale del film di Visconti). Anche in Italia il successo del film fu enorme, ma la critica alzò subito il sopracciglio. Si portava molto la lettura politica, l’analisi dell’“ambiente” e dello “sfondo sociale”. Come se “Il padrino” fosse, anziché un’epica hollywoodiana, un romanzo di Zola. Per Alberto Moravia il film era “sul piano documentario e sociologico, una completa e sfacciata falsificazione”. Per “L’unità” era invece “una sfacciata apologia della famiglia”, intendendo non solo quella dei picciotti, ma l’“istituzione”, la famiglia borghese o, come si dice oggi, “tradizionale”.

Il cast del Padrino con il regista, prima e dopo

Per il Corriere della Sera, “Il padrino” era “un film di modesta qualità, in qualche parte addirittura mediocre”. Un “rosario di ammazzamenti recitato tenendo d’occhio il fascino che il male esercita sulle folle”. Un film “sbagliato” che non aveva il “sapore di inchiesta sociale sulla mafia del romanzo” ( anche se di inchiesta sociale, nel libro di Puzo, non c’era traccia). Secondo Tullio Kezich, “esaminato al di fuori del cancan pubblicitario che ne ha fatto un avvenimento mondiale”, ‘ Il Padrino” non era che un “condensato di luoghi comuni sui gangster italo- americani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”. Era “fiacco nel ritmo”, era “sceneggiato in maniera confusa, reticente”. Soprattutto, non nominava mai la mafia, né Cosa Nostra, né le coperture politiche del protagonista, “e spara bordate solo contro Frank Sinatra”. Kezich però non sapeva che l’assenza della parola “mafia” era frutto di un accordo tra la Paramount e la Lega di Colombo, siglato prima del film.

Ma questo mezzo secolo del “Padrino” è anche l’occasione per riflettere sulla sua debordante eredità che ormai è anche molto televisiva. I “Soprano”, naturalmente, ma anche intere puntate dei “Simpson”, “South Park”, i “Griffin”, “Law and Order” prolungano il mito della saga dei Corleone. Inutile ricordare che metà della filmografia di Martin Scorsese è un reboot del “Padrino” con gli Stones al posto di Nino Rota e molto più sangue, ritmo, esplosioni. Notissima poi la passione di Nora Ephron che infila citazioni del “Padrino” anche in una commedia romantica come “C’è posta per te”. Del resto, “leave the gun take the cannoli”, la “line” più bella della storia del cinema, forse anche più bella di “We’ll always have Paris”, l’avrebbe potuta scrivere anche lei.

Articolo di Andrea Minuz per Il Foglio Quotidiano

APOCALYPSE NOW DOPO 40 ANNI

APOCALYPSE NOW DOPO 40 ANNI

 

Durante la Guerra del Vietnam, il capitano Benjamin Willard è incaricato dagli alti membri dell’esercito americano di svolgere una missione della massima segretezza: porre fine al comando del misterioso colonnello Kurtz, un ex-ufficiale dissidente che ha instaurato un proprio dominio personale nelle foreste della Cambogia. Assieme ad un piccolo gruppo di soldati, Willard inizia un viaggio lungo il fiume per raggiungere il regno di Kurtz.

Pochissimi film hanno avuto un’influenza sull’immaginario cinematografico internazionale paragonabile a quella di Apocalypse now, lo straordinario capolavoro sul Vietnam diretto da Francis Ford Coppola, l’autore della mitica saga de Il Padrino. Vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1979, il film è liberamente ispirato al noto romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra, adattato e rielaborato da Coppola e dal suo co-sceneggiatore John Milius, che ne hanno ripreso il plot di base ambientandolo appena pochi anni prima, durante la Guerra del Vietnam.

Coppola con Marlon Brando

Coppola con Marlon Brando durante la lavorazione del film

La guerra, l’occidente e la sua morale, la coscienza malata del male sono al centro di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, «Apocalypse Now» di Francis Ford Coppola. Nel 1979 usciva nei cinema e 40 anni dopo arriva in sala, oggi l’ultimo giorno per poterlo vedere, «Apocalypse Now-Final Cut», quella che lo stesso regista ha definito la «versione perfetta». Coppola è sempre stato convinto che la versione originale del 1979 fosse stata troppo tagliata, mentre «Redux» del 2001 risultasse troppo lunga. Così ha deciso di rimettere mano non solo al montaggio, ma anche di restaurare suono e immagine a partire dal negativo originale.

 

Ma ecco cinque curiosità sul film originale. Partiamo dallo sceneggiatore John Milius ( regista di «Un mercoledì da leoni» e «Conan il Barbaro»): attribuisce la sua ossessione per la guerra al fatto di non averne mai potuta combattere una. Tentò di fare volontariato per il Corpo dei Marines degli Stati Uniti per prendere parte alla guerra del Vietnam nel 1968, ma fu riformato perché soffriva d’asma. Invece, studia regia alla Film School della University of Southern California con il compagno di classe e ideatore di «Star Wars» George Lucas.

 

Lì, durante una lezione, un professore di nome Irwin Blacker sostenne davanti ai suoi allievi che nessuno sceneggiatore aveva mai perfezionato un adattamento cinematografico del romanzo di Joseph Conrad «Cuore di tenebra». L’ossessione del futuro regista per la guerra in Vietnam e la sfida di Blacker hanno dato a Milius l’idea di combinare i due elementi in quello che alla fine sarebbe diventato «Apocalypse Now».

 

Fuori Keitel, dentro Sheen

Il ruolo del capitano dei corpi speciali Benjamin Willard ha dato più di un grattacapo a Coppola. In prima istanza offrì la parte a Steve McQueen, che rifiutò perché non voleva girare nella giungla. Al Pacino, James Caan e Jack Nicholson rifiutarono le offerte successive di Coppola fino a quando a interpretare il personaggio venne chiamato Harvey Keitel. Coppola lo licenziò dopo sei settimane dopo l’inizio della produzione perché riteneva che la performance dell’attore non fosse così introspettiva quanto il personaggio richiedeva. Così chiamò Martin Sheen, che in precedenza aveva fatto il provino per il ruolo di Michael Corleone ne «Il padrino», e da «Cassandra Crossing» (1976) che stava girando a Roma passò ad «Apocalypse Now».

Coppola rischiò del suo (e si beccò pure un esaurimento)

Francis Ford Coppola investì 30 milioni di dollari per ottenere il budget necessario a realizzare «Apocalypse Now» secondo la sua visione. Quel totale includeva le valutazioni della sua casa e della sua azienda vinicola, di cui trasferì la proprietà alla Chase Bank come garanzia sull’importo. Il tasso di interesse iniziale era del 7 per cento, lievitato alla fine della produzione fino al 29 per cento. Se il film si fosse rivelato un fiasco, Coppola avrebbe dovuto affrontare una rovina finanziaria, che comprensibilmente rese il making of piuttosto stressante. Coppola fu vittima di un attacco epilettico durante le riprese, ebbe un esaurimento nervoso e minacciò di suicidarsi in almeno tre occasioni.

 

Il «Final Cut» definitivo (perfetto secondo Coppola)

Coppola aveva inizialmente programmato per il film 14 settimane di riprese nelle Filippine nella primavera del 1976. Tutto andò secondo i piani fino a che il tifone Olga non danneggiò quasi tutti i set e le attrezzature, costringendo la produzione a chiudere per otto settimane. Coppola da lì in poi continuò a girare senza sosta: la post-produzione del film durò per altri due anni, e il film venne finalmente rilasciato nell’agosto del 1979. Secondo il regista, dopo la versione del 1979 Palma d’Oro a Cannes e la monumentale «Redux» del 2001, restaurata e allungata (47 minuti), «Final Cut» in questi giorni nelle sale è finalmente la versione perfetta.

Harrison Ford, il semi-sconosciuto (prima di Ian Solo)

Coppola assunse un giovane attore di nome Harrison Ford per apparire nei panni del colonnello Lucas (un cenno a George), uno degli ufficiali militari che dà a Willard l’ordine di assassinare Kurtz (Marlon Brando). Ford era già apparso in «American Graffiti» di Lucas e «La conversazione» di Coppola, ma era ancora relativamente sconosciuto quando nel 1976 cominciarono le riprese di «Apocalypse Now». In seguito sarebbe diventato una megastar come interprete di Ian Solo in «Star Wars» quando il film uscì nel 1977. «Apocalypse Now», che fu girato prima di «Star Wars», venne rilasciato successivamente.

 

Il peso di Brando (e le idee di Coppola per aggirarlo)

Marlon Brando, che in precedenza aveva vinto un Oscar come Vito Corleone ne «Il Padrino» di Coppola, quando si presentò sul set nelle Filippine pesava oltre 136 chili. Tutti i suoi costumi dovettero essere scartati perché Coppola si aspettava che l’attore si presentasse come un «berretto verde» dell’esercito Usa brillante e in forma. La situazione costrinse Coppola a trovare un modo per aggirare il peso di Brando, così lui e il direttore della fotografia Vittorio Storaro pensarono di filmarlo sempre nell’ombra e di profilo per rendere il suo personaggio più misterioso.

La «paghetta» di Kurz

Il contratto di Brando prevedeva che gli sarebbero stati pagati 3 milioni di dollari per quattro settimane di lavoro solo nei giorni feriali, e che non gli sarebbe stato richiesto di lavorare oltre le 17.30. Per i primi quattro giorni programmati di riprese, il divo non si presentò sul set, e i suoi atteggiamenti (era spesso fatto di alcol e cocaina) sembravano mirati a tirare per le lunghe il film per incassare il suo assegno. Quando Coppola alla fine lo fece capire come interpretare Kurtz, Brando respinse tutte le sue idee, incluso il suggerimento di interpretarlo con il cranio rasato come nel libro. Brando disse che ci avrebbe dormito su. Il giorno dopo si presentò sul set con la testa rasata e disse a Coppola che aveva letto tutto «Cuore di tenebra» la sera precedente, e che aveva deciso di interpretarlo come il personaggio del libro.

 

Articolo di Laura Zangarini per corriere.it

DIETRO LA CINEPRESA, UN INFERNO

DIETRO LA CINEPRESA, UN INFERNO

LE VICISSITUDINI DI UN GRANDE FILM, APOCALYPSE NOW DI FRANCIS FORD COPPOLA- I COSTI ENORMI, LE RIPRESE INTERMINABILI, I RIFIUTI DI STEVE MC QUEEN, AL PACINO, JAMES CAAN, JACK NICHOLSON, I CAPRICCI DI BRANDO- UN ESAURIMENTO NERVOSO E PROPOSITI DI SUICIDIO, POI LA PALMA D’ORO DI CANNES – OGGI IL FILM E’ VISIBILE NELLA VERSIONE “PERFETTA” VOLUTA DAL REGISTA.

Lo sceneggiatore riformato (suo malgrado)

Francis Ford Coppola

Lì, durante una lezione, un professore di nome Irwin Blacker sostenne davanti ai suoi allievi che nessuno sceneggiatore aveva mai perfezionato un adattamento cinematografico del romanzo di Joseph Conrad «Cuore di tenebra». L’ossessione del futuro regista per la guerra in Vietnam e la sfida di Blacker hanno dato a Milius l’idea di combinare i due elementi in quello che alla fine sarebbe diventato «Apocalypse Now».

Ma ecco cinque curiosità sul film originale. Partiamo dallo sceneggiatore John Milius ( regista di «Un mercoledì da leoni» e «Conan il Barbaro»): attribuisce la sua ossessione per la guerra al fatto di non averne mai potuta combattere una. Tentò di fare volontariato per il Corpo dei Marines degli Stati Uniti per prendere parte alla guerra del Vietnam nel 1968, ma fu riformato perché soffriva d’asma. Invece, studia regia alla Film School della University of Southern California con il compagno di classe e ideatore di «Star Wars» George Lucas.

La palma d’oro di Cannes per Apocalypse now

La guerra, l’occidente e la sua morale, la coscienza malata del male sono al centro di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, «Apocalypse Now» di Francis Ford Coppola. Nel 1979 usciva nei cinema e 40 anni dopo arriva in sala, oggi l’ultimo giorno per poterlo vedere, «Apocalypse Now-Final Cut», quella che lo stesso regista ha definito la «versione perfetta». Coppola è sempre stato convinto che la versione originale del 1979 fosse stata troppo tagliata, mentre «Redux» del 2001 risultasse troppo lunga. Così ha deciso di rimettere mano non solo al montaggio, ma anche di restaurare suono e immagine a partire dal negativo originale.

Martin Sheen

Il ruolo del capitano dei corpi speciali Benjamin Willard ha dato più di un grattacapo a Coppola. In prima istanza offrì la parte a Steve McQueen, che rifiutò perché non voleva girare nella giungla. Al Pacino, James Caan e Jack Nicholson rifiutarono le offerte successive di Coppola fino a quando a interpretare il personaggio venne chiamato Harvey Keitel. Coppola lo licenziò dopo sei settimane dopo l’inizio della produzione perché riteneva che la performance dell’attore non fosse così introspettiva quanto il personaggio richiedeva. Così chiamò Martin Sheen, che in precedenza aveva fatto il provino per il ruolo di Michael Corleone ne «Il padrino», e da «Cassandra Crossing» (1976) che stava girando a Roma passò ad «Apocalypse Now».

Coppola rischiò del suo (e si beccò pure un esaurimento)

Francis Ford Coppola investì 30 milioni di dollari per ottenere il budget necessario a realizzare «Apocalypse Now» secondo la sua visione. Quel totale includeva le valutazioni della sua casa e della sua azienda vinicola, di cui trasferì la proprietà alla Chase Bank come garanzia sull’importo. Il tasso di interesse iniziale era del 7 per cento, lievitato alla fine della produzione fino al 29 per cento. Se il film si fosse rivelato un fiasco, Coppola avrebbe dovuto affrontare una rovina finanziaria, che comprensibilmente rese il making of piuttosto stressante. Coppola fu vittima di un attacco epilettico durante le riprese, ebbe un esaurimento nervoso e minacciò di suicidarsi in almeno tre occasioni.

Harrison Ford

Il «Final Cut» definitivo (perfetto secondo Coppola)

Coppola aveva inizialmente programmato per il film 14 settimane di riprese nelle Filippine nella primavera del 1976. Tutto andò secondo i piani fino a che il tifone Olga non danneggiò quasi tutti i set e le attrezzature, costringendo la produzione a chiudere per otto settimane. Coppola da lì in poi continuò a girare senza sosta: la post-produzione del film durò per altri due anni, e il film venne finalmente rilasciato nell’agosto del 1979. Secondo il regista, dopo la versione del 1979 Palma d’Oro a Cannes e la monumentale «Redux» del 2001, restaurata e allungata (47 minuti), «Final Cut» in questi giorni nelle sale è finalmente la versione perfetta.

Marlon Brando

Coppola assunse un giovane attore di nome Harrison Ford per apparire nei panni del colonnello Lucas (un cenno a George), uno degli ufficiali militari che dà a Willard l’ordine di assassinare Kurtz (Marlon Brando). Ford era già apparso in «American Graffiti» di Lucas e «La conversazione» di Coppola, ma era ancora relativamente sconosciuto quando nel 1976 cominciarono le riprese di «Apocalypse Now». In seguito sarebbe diventato una megastar come interprete di Ian Solo in «Star Wars» quando il film uscì nel 1977. «Apocalypse Now», che fu girato prima di «Star Wars», venne rilasciato successivamente.

Il peso di Brando (e le idee di Coppola per aggirarlo)

Robert Duvall

Marlon Brando, che in precedenza aveva vinto un Oscar come Vito Corleone ne «Il Padrino» di Coppola, quando si presentò sul set nelle Filippine pesava oltre 136 chili. Tutti i suoi costumi dovettero essere scartati perché Coppola si aspettava che l’attore si presentasse come un «berretto verde» dell’esercito Usa brillante e in forma. La situazione costrinse Coppola a trovare un modo per aggirare il peso di Brando, così lui e il direttore della fotografia Vittorio Storaro pensarono di filmarlo sempre nell’ombra e di profilo per rendere il suo personaggio più misterioso.

Un giovane Ford Coppola con Jack Lemmon

La «paghetta» di Kurz

Il contratto di Brando prevedeva che gli sarebbero stati pagati 3 milioni di dollari per quattro settimane di lavoro solo nei giorni feriali, e che non gli sarebbe stato richiesto di lavorare oltre le 17.30. Per i primi quattro giorni programmati di riprese, il divo non si presentò sul set, e i suoi atteggiamenti (era spesso fatto di alcol e cocaina) sembravano mirati a tirare per le lunghe il film per incassare il suo assegno. Quando Coppola alla fine lo fece capire come interpretare Kurtz, Brando respinse tutte le sue idee, incluso il suggerimento di interpretarlo con il cranio rasato come nel libro. Brando disse che ci avrebbe dormito su. Il giorno dopo si presentò sul set con la testa rasata e disse a Coppola che aveva letto tutto «Cuore di tenebra» la sera precedente, e che aveva deciso di interpretarlo come il personaggio del libro.

Articolo di Laura Zangarini per corriere.it

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