ANGELI CUSTODI

ANGELI CUSTODI

Un’amicizia al Cottolengo

“Amerigo Ormea uscì di casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata si annunciava piovosa. Per raggiungere il seggio elettorale dov’era scrutatore, Amerigo seguiva un percorso di vie strette e arcuate, ricoperte ancora di vecchi selciati, lungo muri di case povere, certo fittamente abitate ma prive, in quell’alba domenicale, di qualsiasi segno di vita”.

Si apre così La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, romanzo breve pubblicato nel 1963, che, nelle intenzioni dello scrittore, doveva far parte di un ciclo (“A metà del secolo”) dedicato al “trapasso d’epoca che ancora stiamo vivendo”.

Il seggio elettorale assegnato ad Amerigo Ormea è collocato nel perimetro di quella “città parallela” che è la “Piccola casa della Divina Provvidenza” di Torino, fondata, nel 1832, da san Giuseppe Cottolengo. Le elezioni sono quelle politiche del 7 giugno 1953, che hanno un rilievo particolare nella storia della democrazia italiana. Due mesi prima, dopo una stagione politica rovente e una seduta parlamentare di quasi 78 ore, passa la cosiddetta “legge truffa” (l’espressione è di Piero Calamandrei) fortemente voluta da Alcide De Gasperi in ossequio al principio della chimerica stabilità politica: la coalizione che otterrà il 50% più 1 dei suffragi elettorali farà man bassa dei seggi parlamentari (il 65%).

Quando Arrigo Ormea, lo scrutatore, militante di un partito di sinistra, nella mattina piovosa del 7 giugno 1953, entra al Cottolengo, sa bene la posta in gioco politica di quella tornata elettorale. E sa anche che la “Piccola casa della divina provvidenza” è una consistente riserva di voti della Democrazia Cristiana, che non si fa scrupolo di portare nella cabina elettorale persone incapaci d’intendere: “Fioriva un’aneddotica fra burlesca e pietosa: l’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta si era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato”.

Ma i sentimenti e le immagini accumulate da Amerigo Ormea nel tempo breve della sua permanenza al Cottolengo, non restano chiusi nel cerchio dell’aneddotica. Osserva con attenzione quell’“Italia nascosta”. Farà fatica a smaltire la forza d’urto delle prime impressioni. Negli squallidi spazi dell’“enorme ospizio”, cominciano a cedere le convinzioni che, fino a quel momento, fino a quella mattina, lo hanno orientato. Domande e dubbi lo prendono d’assedio. Arriverà alla fine della giornata “diverso da com’era al mattino”. 

Non è che Ormea-Calvino procedesse lungo una ferma linea dottrinaria. Appare piuttosto ondeggiante. Guarda le cose da più lati. Ma quello che vede e sente nella “città dell’imperfezione”, dove la vita mostra il suo volto guasto, lo sfascio delle sue cancrene, scuote le poche certezze acquisite. Dov’è qui l’uomo? E dov’è la Storia, dove la Natura? Che cosa è amore, e cosa è pietà? 

Nel 1953, quando lo scrutatore Amerigo Ormea si perde nel groviglio delle sue domande, Roberto Tarditi è ospite del Cottolengo da 8 anni. Vivrà lì altri 27. È affetto da tetraparesi spastica, probabilmente in seguito a un trauma da parto. La madre, nubile, lo rifiuta. Non c’è che il Cottolengo. Roberto entra a far parte della “famiglia” degli Angeli Custodi, insieme agli “epilettici, i mongoloidi, molti microcefali, i macrocefali – che vivevano al massimo due mesi – gli idrocefali”. 

Ogni bambino è un mondo, è un’isola. “Qualcuno dondola su e giù, su e giù, un movimento ritmico sempre uguale. Il dondolio tipico dei bambini abbandonati”. Un movimento senza esito, un movimento fermo. Dondolerà Roberto, affondando nel suo abbandono. Poi, aiutato, riuscirà a spezzare le cadenze di quel ritmo ossessivo che lo tiene prigioniero. A sette anni comincerà a pronunciare le prime parole. Dopo tanto silenzio, saprà fare un buon uso delle parole, se ne servirà per dire la sua volontà di vita e affermare i suoi diritti”. “Quando parlava – ricorda Maurizio Crosetti- si contorceva tutto, ma le sue frasi avevano la lucentezza del cristallo”.

Lo attende una lunga strada, anni, per bucare il muro del “nulla” in cui è cresciuto. Ma, a poco a poco, il muro si crepa, e Roberto arriva a mettere insieme i pezzi di una convinzione: “Ero spastico, ma per il resto ero uno come tutti gli altri”.

Non è poi così facile diventare “uno come tutti gli altri”. La normalità è una strada in salita. Partendo dal Cottolengo, ci si può arrivare soltanto con un enorme sforzo, una tensione più forte degli spasmi che tagliano il corpo di Roberto. Reggerà a quella tensione? L’amicizia aiuta. Conforta, sorregge. Anche nella desolazione del grande istituto, le esistenze si toccano, gli sguardi s’incrociano, fioriscono legami: Roberto incontra Pierino. 

Pierino Defilippi è più giovane di 12 anni. Focomelico, senza braccia né gambe, vivrà al Cottolengo per 24 anni. Insieme, Pierino e Roberto, sognano, progettano una vita autonoma. E lottano non solo contro l’Istituzione che, proteggendoli, li imprigiona, ma lottano contro la paura, e la vergogna di esporre la propria vita menomata. L’autonomia è una chimera, tutto sembra scoraggiarli. La realtà appare troppo complicata da gestire, e l’inerzia del pregiudizio è ben radicata. 

“Ho dovuto prima di tutto lottare con me stesso – racconta Pierino –, per liberarmi dei condizionamenti di tutti quegli anni in cui non era esistita un’altra realtà, un altro discorso se non quello che si viveva o si faceva all’interno del Cottolengo. All’interno del Cottolengo non avevo mai lottato, perché non c’era nulla per cui combattere. Per me è stato come uscire da un lungo tunnel”.

Usciranno dal tunnel, Pierino e Roberto. Insieme varcheranno la porta del Cottolengo, portandosi appresso tutte le loro paure, ma anche il loro desiderio d’essere. Avranno una casa. Sarà complicato e faticoso riempirla e gestirla quotidianamente. Per le prime volte, sarà complicato persino uscire e mostrarsi. La paura li tallona costantemente. Ma la vinceranno. 

Articolo di Maurizio Ciampa per Doppiozero

PALAZZO DI CITTA’

PALAZZO DI CITTA’

Palazzo di città Torino

Palazzo di città Torino

Al numero 19 di via Palazzo di Città, in una casa allora detta palazzo della volta rossa, una  lapide ricorda che lì il Beato Cottolengo in una stanzetta accolse  nel 1828 i  primi pazienti: due  donne che gli ospedali non  accettavano.

La nascita del “deposito dei poveri infermi” avvenne sotto una cattiva stella: i debiti crescenti e  una epidemia  di colera che nel 1832 costringe il Beato a sfollare in Borgo Dora, dove è  attualmente la sede principale  dell’Opera.

Ancora oggi in quel tratto di via Palazzo di Città l’aria  è incupita, sotto i portici lastricati di  pietra grezza si  respira un’aria di altri tempi, tutto diventa spoglio e i colori ingrigiscono. Ciò è  tanto più sorprendente in quanto siamo dietro via Garibaldi, l’antico decumano che da piazza  Castello porta a piazza Statuto.

Il gettone con il quale si pagava la prestazine, detto marchetta

Sul marciapiede di fronte, nelle nicchie ricavate fra le doppie colonne,  un rigattiere in una vetrinetta reclamizza oggetti di una volta. Una targhetta smaltata dice: Casa di piacere di Maria Rosa, una sveltina 1,15 lire, un’ora 7,50 lire, acqua, sapone e salviette gratuite. Accanto alla croce sabauda e allo scudo tricolore spicca l’anno: 1939. Fra la lapide commemorativa  e la targa passano poco più di cent’anni, in cui Torino si è trasformata da grigio borgo sabaudo in capitale di una nazione, che vede la nascita della borghesia e del ceto medio industriale, che si farà azionista, e delle organizzazioni operaie che si opporranno al fascismo, allora tronfio e inneggiante.

Quadro di J-Louis Forain dal titolo Il cliente

Accostare lapide e targa può sembrare irriverente? Non credo, se guardiamo la vita degli uomini e le loro storie dalla parte giusta, quella in cui sacro e profano, sacrificio e abbandono ai sensi convivono come parti di un unico, autentico discorso, alcune alte e nobili, altre triviali, ma umane.

L’acqua che puliva le piaghe dei vecchi malati era la stessa erogata per le abluzioni genitali, e magari le salviette fornite da un solo commerciante del posto. Più verosimilmente, una madamin stagionata della casa della madama Maria Rosa, guardando le finestre del Cottolengo di allora, avrà più volte pensato, con un brivido di paura, di doverci finire prima o poi, abbandonandosi come ad una forza più grande, ad un destino  ineluttabile.

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