NON SEMPRE IL TEMPO INSEGNA

NON SEMPRE IL TEMPO INSEGNA

 

RETICENTE E SUPERFICIALE INTERVISTA DI CLAUDIO MARTELLI, EX DELFINO DI CRAXI E EX MINISTRO DELLA GIUSTIZIA- SI SOSTIENE CHE LA CADUTA DELLA PRIMA REPUBBLICA FU VOLUTA DAGLI USA IN COMBUTTA CON IL PCUS DI ELTSIN, MENTRE FU UN’AUTO DA FE,’ INFLITTA A FUROR DI POPOLO A UN SISTEMA ISTITUZIONE ESANGUE E CORROTTO- MARTELLI: “CRAXI E I SOCIALISTI LA LORO BATTAGLIA L’HANNO VINTA SUL PCI- SI’, A TAL PUNTO CHE SONO SPARITI ENTRAMBI.

 

Il segretario del PSI (Partito Socialista Italiano) Bettino Craxi stringe la mano del sindacalista italiano Agostino Marianetti a un comizio elettorale. Il vicesegretario del PSI Claudio Martelli fuma in mezzo a loro. Milano, 28 maggio 1983

Cronache dall’estate: Walter Veltroni intervista in prima pagina sul Corriere della Sera Aldo Tortorella e Rino Formica, sui magazine rispuntano le foto di Achille Occhetto che bacia Aureliana Alberici a Capalbio, Lorella Cuccarini annunciata alla conduzione di un importante programma, Paolo Cirino Pomicino fisso al suo posto nei talk del mattino. Sembra un’estate di fine anni Ottanta e invece è proprio questa qui appena finita, quella del 2019. Uno dice: e Raffaella Carrà? In palinsesto pure lei, in attesa del ritorno della lambada e delle pennette alla vodka. Se per spiegare i fenomeni di moda e di costume, però si può sempre ricorrere ai ritorni ciclici che funestano – o allietano, dipende – ogni epoca, per la politica il tema é più complesso: cosa ci riporta sempre là? Perché abbiamo sempre bisogno di quel confronto (o di quello scontro)? Perché quei protagonisti sembrano non passare mai?

Per esempio, si ipotizza, perché non troviamo quello che cerchiamo nella classe dirigente attuale? Perché i conti sono ancora aperti? Perché ci fa sentire giovani? (Su questo tema primeggia, come sempre, la gloriosa categoria dei giornalisti: basta andare a controllare chi firmava i pezzi in ricordo di Francesco Saverio Borrelli, gran capo del pool di Mani Pulite scomparso lo scorso luglio: omaggiato, criticato ma quasi mai oltraggiato dagli stessi che scrivevano più o meno sugli stessi giornali all’inizio degli anni Novanta). «Non so perché ci sia tutta questa attenzione», dice Claudio Martelli, ex ministro, leader socialista della Prima Repubblica, ospite ambito nei salotti delle signore romane, una condanna per la maxi tangente Enimont, visione politica da vendere, «e non so neanche se chiamarla nostalgia o ripensamento. Sicuramente é una riflessione più serena su quello che è stato».

Ma qual era la caratteristica di quella Repubblica, cosa è cambiato rispetto a ora?
Glielo riassumo in un titolo: “Partiti forti e istituzioni deboli”.

Istituzioni deboli?
Lei come le definirebbe? Come definirebbe una forma di governo che nella Costituzione ha dedicate appena tre righe?

Ma come: la Costituzione più bella del mondo, c’era anche un programma di Benigni che…
È la più bella del mondo soprattutto per chi non ha letto le altre.

Tipo?
Serve che le citi il diritto alla felicità contenuto in quella americana? Mi pare un concetto ben più ampio che «fondata sul lavoro», no?

Torniamo alla Prima Repubblica.
Guardi che io ero un critico della Prima Repubblica anche quando era considerata intoccabile da molti.

Bettino Craxi con Gianni De Michelis

E poi? Mi dica quando è finita.
Lì la follia fu prendersela con i partiti invece che con le istituzioni.

Beh, neanche i partiti dell’epoca erano esenti da critiche, non trova?
Ma certo. Però lì è avvenuto qualcosa di diverso: i partiti sono proprio stati azzerati, c’è stato uno sdegno, un rifiuto totale.

È da quel periodo che siamo arrivati a quello che viviamo oggi?
Calma, non scordi che tra allora e oggi c’è di mezzo la Seconda, di Repubblica.

Ma quello che voglio chiederle è: all’epoca non si aspettava veramente quello che è accaduto poi?
Vede: qualche fenomeno politico c’era anche, come la Lega nascente, ma erano poca cosa.

Allora cosa accadde?
Nel ’92 fu il momento in cui ci fu un’iniziativa improvvisa sul finanziamento illecito ai partiti, si mise un accento esagerato su quel reato.

Chi lo mise?
La Procura di Milano, mi pare chiaro.

Che ricordo ha di Borrelli?
Con me è sempre stato cortese, disse che ero stato il miglior ministro della Giustizia, assieme – aggiunse poi – al suo amico Giovanni Maria Flick. Negli ultimi anni Borrelli, a proposito di Mani Pulite, disse che «non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Un cambio di atteggiamento, secondo lei?
Sicuramente c’entrava il suo giudizio sulla classe politica della Seconda Repubblica. Un giudizio che rivalutava i politici della Prima, e non riesco a immaginare cosa avrebbe detto della situazione attuale.

Durante Mani Pulite il clima era diverso?
Ricordo una sua intervista rilasciata nel 2000: disse che fintantoché si trattava di decapitare il re la gente si eccitava, quando poi ci si è accorti che la lotta alla corruzione è una cosa un po’ diversa, qualcuno ha cominciato a infastidirsi. Colpisce la metafora usata, “decapitare il re”, in cui è evidente che Borrelli si identificava coi giacobini, con Robespierre.

Erano gli anni dei “ladri socialisti”.
Sì: ladri solo quando eravamo al governo con la Dc. Quando sul territorio governavamo insieme al Pci d’incanto non eravamo più ladri.

Il Pci godeva di uno status particolare, diverso dagli altri, secondo lei?
Si rilegga le parole di Gherardo Colombo che ammise questa vicinanza tra comunisti e magistrati giustificandola col fatto che, se non ci fosse stato il pool, sarebbe stato isolato politicamente.

Qual era il contesto?
Cerchi su YouTube: c’è un video di quel tempo. Si vedono il presidente americano Clinton e quello russo Eltsin al termine di un incontro: ridono, scherzano, sono alticci, sembrano due comici.

 

Il vicesegretario del Partito Socialista Italiano Claudio Martelli, il ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis e Rino Formica (Salvatore Formica) partecipano ad un comizio del Partito Socialista Italiano. Parma, 16 gennaio 1983

(Dopo un controllo) Sì, in effetti c’è: sono a New York nell’ottobre del 1995. E allora?
Ma non capisce? Era finita la Guerra fredda, Dc e Psi erano qualcosa da cui liberarsi, il nuovo alleato Usa sarebbe stato il Pds.

Lo zampino americano, quindi, secondo lei.
Oramai è passato molto tempo e ci si dimentica di episodi dell’epoca, tipo quello del console americano che si vedeva spessissimo con Di Pietro e a cui il Pm avrebbe anticipato la volontà di compiere alcuni arresti prima di eseguirli (questa è la versione data dal console, Peter Semler, contestata da Di Pietro, nda).

(Mentre chiacchieriamo con Martelli i telegiornali aprono sulla vicenda dei presunti finanziamenti russi alla Lega di Salvini. Una questione che da subito ha rimandato alla Prima Repubblica: i soldi da Mosca, i rubli! Ovviamente glielo si chiede). Se l’aspettava?
Diciamo pure che non avevo dubbi. Mi scusi: ma se legge di un partito italiano al 4% che stipula un trattato con un partito russo che sta al 70% lei cosa pensa? Perché questo è quello che è accaduto anni fa tra la Lega, quando la prese Salvini ai minimi storici, e Russia Unita di Putin.

Però neanche è automatico…
Ma dai!

Ma mica solo Salvini ha rapporti con Putin: Berlusconi, ad esempio.
Berlusconi era diverso: lui almeno con Putin cercava di cavarne accordi con la Nato.

Cercando assonanze tra la Prima Repubblica e adesso non si può non ricordare che lei firmò la prima legge (nel 1990, legge Martelli, appunto), che regolava i flussi di immigrati.
E io sono felice che lo ricordi. Anche qui: dal 1991 e per i 10 anni successivi, gli immigrati sono aumentati di 600 mila unità in 10 anni. Poi, con le leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini sono diventati 5 milioni.

Solo merito della sua legge?
Ma no, certo, vanno anche considerati i flussi di migranti provenienti dall’Est, come dopo che la Romania entrò nella Ue e 800.000 badanti furono regolarizzate con la gestione Maroni.

Claudio Martelli, si intravvedono riconoscibili Enrico Manca, Rino Formica e, dietro Martelli, il giornalista Rai Alberto La Volpe

Cosa aveva la sua legge rispetto a quelle attuali?
Era severa ma giusta. All’epoca mi dicevano che avevo aperto le porte ai migranti, ma in realtà io quelle porte le ho costruite. Era una legge che programma i flussi, una legge seria come le altre che ho fatto sull’asilo politico e sulla cittadinanza.

Poi cosa è successo?
Sino al Governo Letta tutti i governi che si sono succeduti, di tutti i colori, facevano leggi che avevano come premessa il contrasto all’immigrazione clandestina. Da quel momento in poi invece, col ministro Alfano, per quattro anni abbiamo lasciato entrare in Italia 150/180.000 mila immigrati all’anno.

Secondo lei quel periodo è l’origine della situazione che viviamo oggi?
Assisto a un estremismo umanitario parolaio. In questi anni non abbiamo accolto queste persone, le abbiamo salvate e questo è giusto, poi le abbiamo abbandonate o fatte “passare” nei Paesi confinanti. In questo modo abbiamo esasperato sia i nostri partner europei sia il popolo italiano.

Però parliamo di un fenomeno marginale, ci sono altri Paesi come la Grecia o la Spagna dove sbarcano molti più immigrati che in Italia.
Ma lo vogliamo capire che l’immigrazione è ciò che sposta i flussi elettorali?

Dice?
È un fatto: guardi in Germania, dove sui migranti si è rotto l’asse con la Spd e il partito della Merkel ha perso punti e punti di consenso. E la Brexit: anche con quella c’entra l’immigrazione. E in Francia…

Il tema sarà anche quello delle frontiere, però queste persone neanche possono morire in mare.
Certo che no. Però è anche vero che l’accoglienza indiscriminata porta malessere nelle città, i benefici del welfare sono limitati. Non dico di bloccare le frontiere ma di accogliere nei limiti delle nostre capacità, anche il Papa l’ha detto.

Sempre per stare sull’attualità: lei si è arrabbiato molto per il ricordo che quasi tutti i media hanno dedicato a Gianni De Michelis: la foto iconica di lui scamiciato che balla in discoteca…
Mi sono arrabbiato molto, certo, per quello che non è stato un equivoco.

E cosa è stato allora?
Una volontà premeditata, superficiale e cinica, per sminuire la sua immagine pubblica.

Claudio Martelli, oggi

Ma non negherà che l’ex ministro De Michelis in discoteca ci andava volentieri: il soprannome «avanzo di balera» datogli da Biagi, il libro scritto di suo pugno Dove andiamo a ballare stasera? presentato anche al Bandiera Gialla di Rimini…
E cosa c’entra? Sì, ci andava, e allora? Mica passava le sue giornate a ballare: stiamo parlando di un personaggio che aveva intuizioni straordinarie, come quella dei “giacimenti culturali”.

«I socialisti vogliono rifare il minculpop», cito.
(Sorride) È vero, dicevano così. Ma non avevano capito che avevamo ragione, che i socialisti erano dei modernizzatori, che la cultura, sostenuta dall’impegno privato, era il futuro.

Quest’anno si sono ricordati anche i 35 anni dalla morte di Enrico Berlinguer: lei in quel 1984, quando alcuni vostri delegati lo fischiarono al congresso di Verona (e Craxi disse: «Non ho fischiato solo perché non lo so fare», anche se dopo si pentì), era vicesegretario del suo partito. Che ricordo ne ha?
Quella morte fu quasi un sacrificio in pubblico (Berlinguer ebbe un malore durante un comizio a Padova e dopo poco si spense, nda) e non poteva non emozionare.

Ma?
Ma il giudizio politico, che mi pare confermato dai fatti, non è positivo: l’eurocomunismo in cui tanto si era impegnato, che doveva avvicinare i grandi partiti di Italia, Francia e Spagna, si rivelò una fiammata e nulla più.

Però il compromesso storico, la convergenza con la Democrazia Cristiana…
Il compromesso storico! Sa quali furono gli effetti, al di là della tragica morte di Moro?

Quali?
Un corteggiamento ai ceti imprenditoriali concretizzato con il patto Agnelli Lama che portò l’inflazione al 17%.

Berlinguer sollevò anche la questione morale, in una celebre intervista a Scalfari: almeno su questo aveva ragione, o no?
Ecco, vede, è proprio questo il punto: la questione morale, con la quale si voleva certificare la diversità morale dei comunisti. Ma questo rende la politica di fatto intrattabile.

Però ha posto un tema.
Sì, ma senza fornire soluzioni.

Lei fu il delfino di Bettino Craxi: il prossimo anno saranno 20 anni dalla morte. Crede nella riabilitazione?
Beh, quella è in corso già da tempo, e sa perché?

Perché in Italia tutto passa?
Perché Craxi e i socialisti la loro battaglia l’hanno vinta: nel 1992 socialisti e comunisti hanno preso gli stessi voti (considerando anche i socialdemocratici, attorno al 16%, nda), un risultato impensabile sino a poco prima, un risultato prima di tutto di portata culturale per questo Paese.

Ha nostalgia per quegli anni?
Sono portato ad andare avanti e a tener conto del passato, ma non sono un presentista.

Chi è Claudio Martelli?
Io ho sempre fatto politica. E continuerò a farla.

Intervista di Francesco Caldarola  per la Rivista Studio

Le immagini in bianco e nero sono di Getty Images/Mondadori Portfolio

Sul tema dei rapporti col PCI di Berlinguer leggi qui (https://www.ninconanco.it/berlinguer-e-la-terza-via/)

ZAVOLI MEMORIES

ZAVOLI MEMORIES

LA DOLCE ROMAGNA DELL’INFANZIA , IL DUCE OSANNATO DAI BALCONI- RIMINI CHE D’ESTATE ACCOGLIEVA LE BELLE TEDESCHE- L’ESORDIO ALLA RAI COME RADIOCRONISTA SPORTIVO, L’AMICIZIA  CON FELLINI, LA FEDE SOCIALISTA E IL RAPPORTO CON CRAXI, LE INTERVISTE AI BRIGATISTI. QUESTO E ALTRO NELLE ZAVOLI MEMORIES. 

 

 

Sergio Zavoli ha scritto la storia del giornalismo televisivo di qualità in Italia. Il segreto? Sente e pensa come un poeta. Forse perché è cresciuto nel realismo magico di Rimini, come il suo amico Fellini?

«Mi risveglia una tenera lontananza. Sono un riminese onorario nato a Ravenna. Dopo una sosta a San Marino, mio padre divenne cassiere al Monte di Pietà: si metteva tra le dita l’ esile carta-moneta lasciandola scorrere sotto gli occhi fiduciosi delle persone che vivevano del poco. Il nostro costume di vita si fuse ben presto nell’ incomparabile fenomeno di una città che restringeva l’ annata a 4 mesi, un tempo chiamato “stagione”. C’ era un treno che arrivava ogni sabato da Amburgo, con la scritta su tutte le carrozze: RIMINI-AMMORE, uno slogan infallibile, più di una promessa…».

E l’ infanzia nella Romagna del Duce?

MUSSOLINI CON RACHELE

Mussolini con la moglie Rachele

«Gli insegnanti venivano a scuola in divisa. Quando uno di loro esordiva: “A chi il Duce?”, rispondevamo: “A noi!”. Fuori cantavamo inni fascisticamente luminosi (“Dio ti manda all’ Italia come manda la luce, Duce, Duce, Duce!”), con le lusinghe dei balconi gremiti di fanciulle. Il comandante diceva: “Voglio che nel mio plotone sia traslata la disciplina prussiana alla quint’ essenza!”. Poi si voltava per vedere se qualcuno rideva. “Chi sghignazza là in mezzo?”. “Io”, rispose Ovo, che prendeva il soprannome dalla sua grassezza. “Bravo, mi piace la tua lealtà. Come ti chiami, giovane camerata?” “Mi chiamano Ovo”. “E ti sta bene! Mangia, mangia, che ti aggiusta il Duce”».

Era un bambino «felliniano»?

PAOLO GARIMBERTI SERGIO ZAVOLI

Sergio Zavoli e Paolo Garimberti

«Un giorno mi svegliai inquieto: avevo sognato a colori. Fui portato a Forlì da uno specialista. “È solo un po’ d’ immaginazione!”. In treno, volli sapere cosa significasse. Mio padre prese tempo per cercare un’ idea: “L’ immaginazione è vedere quello che altri non vedono…”. Poi aggiunse: “Ma se non hai fatto nulla di male, può anche essere una buona cosa. Però bisogna stare in guardia, la vita non è tutto bianco o tutto nero”. Quando ci misero i pantaloni alla zuava, una notte di Capodanno decidemmo di vedere il misterioso treno delle “Indie”.

Passava ogni 15 giorni, all’ una e un quarto di notte, fermandosi per colmare i vagoni di carbone e acqua. Nascosti dietro a un mucchio di traversine, vedemmo uscire dal curvone un grande bruco che si fermò davanti a noi. Allora assistemmo al lento alzarsi di una tendina gialla che illuminava il brindisi di due persone immerse in un’ estatica felicità. E noi, silenziosi, ciascuno vagando chissà in quali pensieri, tornammo a casa senza neppure salutarci.

Rientrai da una finestra del primo piano lasciata aperta, pensai, da mia madre».

Poi venne la guerra…

«Dopo l’ 8 settembre, indugiavamo spesso nella Trattoria del Lurido, o di Mazzasette, un ribelle che non finirà mai nelle retate tedesche e ogni tanto si diceva ne lasciasse uno per terra. La guerra guerreggiata arrivò il giorno dei Santi del ’43. Ricevuto il secondo ordine di presentarmi al Distretto di Forlì mi rifugiai a San Marino, ma fui preso e aggregato a quello di Pesaro. Dopo un bombardamento, con altri ragazzi fuggimmo. Riparammo in luoghi diversi: io a Perugia, nascosto da mia sorella.

Giunti gli Alleati, in 7 volontari, con una divisa senza segni sul giaccone verdastro, fummo assegnati alle retrovie. Più tardi passammo alle cucine, a rimestare una polvere di piselli, il brodino verde dell’ 8a Armata. Un mattino vedemmo, finalmente, l'”azzurra visione” di San Marino. L’ indomani scendemmo a Rimini sventolando un tricolore e canticchiando It’ s a long way to Tipparery. Era il 21 settembre del 1944, giorno del mio compleanno. Seppi che mio padre, di notte, con un gruppo di sammarinesi, distribuiva il pane ai rifugiati, che si facevano trovare seduti lungo la fila dei materassi, in attesa, così sembrava, dell’ eucarestia».

Che effetto le fece il «ritorno alla civiltà»?

zavoli adorni

Sergio Zavoli mentre intervista Vittorio Adorni

«”Adesso – scriverà il riminese Gino Pagliarani – si tratta di non stringere la speranza con braccia troppo corte”. Inventammo un “giornale parlato” d’ informazione, il Pubbliphono, con il “ph” perché sembrasse più importante; poi, con 7 altoparlanti trovati in un magazzino e qualche rotolo di cavo, Gino Pagliarani alla politica, Glauco Cosmi alla cronaca, io allo sport, al costume e alla cultura, animammo l’ arrivo, nientemeno, di un nuovo mondo. Il giornale “usciva” a mezzogiorno e alle 19. Si aprivano le finestre e in un paio di grandi piazze s’ innalzava la sigla del quotidiano, Una notte sul Monte Calvo, presto sostituita da un valzer viennese. Nostro distributore era il vento, che favoriva o cancellava il giornale, sia che scendesse verso il mare o salisse sulle colline».

VITTORIO VELTRONI NANDO MARTELLINI

Nando Martellini e Vittorio Veltroni alla RAI

La Rai, come si accorse di lei?

«Il direttore di Radio Venezia, in viaggio verso Roma, si fermò a Rimini per riposarsi al caffè Forcellini. Quella domenica ero alle prese con il derby Ravenna-Rimini. Terminata la cronaca, il direttore segnalò a Roma uno studente che raccontava il calcio con una tonalità, a suo dire, inedita. Parlava allo straordinario capo delle Radiocronache, Vittorio Veltroni, padre di Walter. La Rai, non disposta a cedere alla richiesta di aumentare il compenso del celebre Nicolò Carosio, mi chiese se ero disposto a trasmettere, sperimentalmente, Bologna-Genova. Il mercoledì un telegramma mi invitava a Roma, via Asiago 10, “per comunicazioni”. La domenica raccontavo, in diretta, Roma-Fiorentina. Poco dopo, Veltroni mi segnalò a Cesare Zavattini, suggerendogli di ascoltarmi».

vito taccone

Il corridore Vito Taccone

Cominciarono così le sue grandi «invenzioni». Montanelli la definì «principe del giornalismo televisivo». Ogni nuova impresa mieteva successi. Processo alla tappa rivoluzionò il racconto del Giro d’ Italia…

«Il ricordo più vivo è Vito Taccone, detto “il camoscio d’ Abruzzo”. Vinse cinque tappe di seguito con una spavalderia che non piaceva ai campioni. Alla terza vittoria mi confidò: “Lo sa perché vinco? Perché vado al traguardo come se andassi a fare una rapina. Io devo vincere finché mia madre non ha saldato un vecchio debito. Devo riuscirci, è più forte di tutto…”».

Con Nascita di una dittatura, Renzo de Felice si levò tanto di cappello. E Clausura si meritò il secondo Prix Italia…

«Rachele Mussolini mi confidò l’ unico rimpianto: “Benito rifiutò l’ invito degli americani perché andasse a fare il giornalista da loro. Si preoccupava per la mia gravidanza. Ci saremmo risparmiati tante cose!”. Amadeo Bordiga accettò la sola intervista della sua vita sperando che gli svelassi i segreti del Giro d’ Italia, di cui era appassionatissimo».

La notte della Repubblica è il suo capolavoro indiscusso. Cosa la colpì di più?

«Quasi tutto. Ho bene in mente la risposta alla domanda: “Perché ha lasciato le Br?”. “Perché cominciavano a mancarci le parole”. Oppure: “Perché correvamo a vedere il Tg delle 20 per capire cosa avevamo fatto”. Franceschini mi confidò di aver voluto sfiorare Andreotti, in una via di Roma, “per sentire cosa si prova a toccare il potere”. A Bonisoli chiesi se aveva sparato in via Fani, quanti colpi e con quanta precisione. Cominciò visibilmente a smarrirsi, finché mi domandò se potevo risparmiare suo figlio, un ragazzo convinto dell’ innocenza del padre: “Smentito dalla tv, rimarrebbe con la mente sconvolta per sempre”. Risposi che non avrebbe ascoltato le parole più gravi; sapevo di venir meno alla pienezza della regola, ma anche di mitigare un’ indicibile sofferenza».

Alla Rai lei ha fatto tutto: da redattore a presidente. Raccontò anche le malefatte della Prima Repubblica.

«Per l’ inchiesta C’ era una volta la Prima Repubblica andai a intervistare Craxi, ad Hammamet. All’ una e mezza di una notte molto calda, la malattia esigeva che vivesse attorniato da un esercito di bottiglie d’ acqua. Convinto di aver parlato senza riserve se ne compiacque chiedendomi, con ironia: “Adesso sarai contento”. Voleva forse ripagarmi per una polemica nata tra noi in Rai.

Bettino Craxi

Gli dissi di no, pur sapendo che accettava con difficoltà contrasti del genere: l’ intervista non aggiungeva granché, occorreva rifarla. Concluse: “Domattina!”. Ma dovevo ripartire. Si rivolse allora ai tecnici con un mezzo sorriso: “Si ricomincia”. Durante la replica lo vidi cercare le parole, aveva gli occhi umidi, la voce bassa, ma chiara, una tonalità dolente, ma risoluta. Finì così: “Fu quando mi accorsi che non decidevo più nulla, che tutto mi sfuggiva dalle mani”. Ne nacque qualcosa più di un’ intervista».

craxi

Chi ha sentito più vicino nella sua felice carriera, in cui ha ricevuto due lauree honoris causa e ha continuato a scrivere poesie per la collana mondadoriana “Lo Specchio”?

«Il mio amico più sorprendente, allegro, inquieto, Fellini, la sua dolce, infantile semplicità portata a limiti sorprendenti. Un giorno gli raccontai di aver fatto un sogno in un ospedale di Kiev, dopo un grave incidente a Chernobyl: attraversavo, camminando su una corda sospesa tra due palazzi, il centro di una piazza e a un certo punto venivo assalito dal pensiero di precipitare, sentendo arrivare la paura della morte. Mi interruppe dicendo: “Perché non hai sentito che quello potesse essere l’ inizio, e non la fine, del viaggio?”. E aggiunse: “Non sei curioso di sapere come andrà a finire?”».

Federico Fellini

Come visse il distacco dal suo mondo?

«Tra me e la mia gente si era messa, all’ improvviso, una distanza serena. Immaginavo mio padre e mia madre posare i loro gomiti sul davanzale della finestra e, tacendo, aspettare i miei ritorni. Poi mia madre mi mandava sul viso una carezza, e io ci mettevo sopra una mano per fermarla. Risento lo stupore e l’ emozione provata scoprendo che nella città nativa, imperiale e dorata, era rimasto vivo, dopo tanto tempo, un saluto al quale risposi in un libro “… ma resto ancora in quel muro,/ un filo d’ erba/spuntato da una crepa”. Ogni tanto mi capita di pensare che i muri si somiglino, e quel filo d’ erba continua.

Articolo di Pier Luigi Vercesi per il Corriere della Sera

 

 

 

 

 

BENVENUTO A N.Y.

BENVENUTO A N.Y.

 

 

FINALMENTE TORNA L’ARTE NOBILE DELLA POLITICA NEL PENSIERO DI GIORGIO BENVENUTO, OSPITE A NEW YORK DEL CALANDRA INSTITUTE DELLA CUNY E ALL’ONU- PARLA DELL’ATTUALITA’ POLITICA ITALIANA E DEL SOCIALISMO EUROPEO PER I LETTORI DI LA VOCE, GIORNALE ON-LINE PER GLI ITALIANI CHE VIVONO NELLA GRANDE MELA 

 

Giorgio Benvenuto nella seconda metà del XX secolo è stato uno dei leader storici del sindacalismo italiano. Parlamentare del PSDI e poi del PSI,  nel 1993 sostituì Bettino Craxi come segretario del Partito Socialista al tempo di  Mani Pulite. Oggi Benvenuto è il presidente della Fondazione Pietro Nenni. Nella foto: Giorgio Benvenuto, col curatore Luigi Troiani e Paolo Messa, Direttore del Centro Studi Americani, discute del libro di John Cappelli “Memorie di un cronista d’assalto”, durante l’evento tenuto lo scorso febbraio al Calandra Italian American Institute della CUNY

 

Lei è presidente della Fondazione Pietro Nenni. La fondazione prende il nome dal leader socialista che ebbe una parte fondamentale nella stesura e nell’accordo tra forze diverse per la costituzione repubblicana. Cosa avrebbe dovuto imparare Matteo Renzi, prima di lanciare un referendum costituzionale sul quale è stato sconfitto anche come primo ministro, dal modo di far politica di Nenni?

“Il referendum del 1946 non era una scelta tra dirigenti politici, ma tra repubblica e monarchia. Il referendum del 2016 ha avuto un significato plebiscitario, di fiducia nel capo di partito e di governo. Nenni costruì invece assieme agli altri leader dei partiti che avevano contribuito alla vittoria contro il nazifascismo, un accordo sui principi generali. L’unica pregiudiziale era nei confronti dei fascisti. Tutti i partiti, tutti i movimenti che avevano concorso alla liberazione dell’Italia, anche se avevano diverse opzioni dal punto di vista ideale ed ideologico, trovarono la forza di realizzare il cambiamento istituzionale dalla monarchia alla repubblica definendo nella nuova Costituzione principi generali nei quali tutti si riconoscevano. Sono convinto che per fare una Costituzione sia importante realizzare l’accordo tra i diversi partiti, indipendentemente dal fatto che essi siano alla maggioranza o all’opposizione. Questo è il principio che ispirò la politica di Nenni e degli altri “padri costituenti”.

Nella cosiddetta Seconda Repubblica (1994-2016) non si è mai cercato di fare riforme che avessero un consenso generale. Renzi non ha voluto capire che aveva una straordinaria opportunità: correggere gli errori fatti da Berlusconi, Amato, D’Alema e Prodi. Ha voluto imporre al Parlamento e al PD le sue idee, senza confrontarle. La Costituzione andava certo aggiornata, migliorata e modificata, ma esigeva la ricerca di un’intesa la più ampia possibile sui principi”.

Che differenza c’è nella crisi del PD di oggi che soffre la scissione e rischia il crollo e quella che attraversò il Psi? L’attuale indebolimento del maggior partito di centro sinistra potrebbe aprire spazi per la presa del potere da parte di forze pericolose per la democrazia? Avvenne già nel 1922 che la debolezza dei governi creasse le condizioni per l’avvento della destra reazionaria.

“Quando in un partito non si riesce a discutere, a convivere, ad avere rapporti costruttivi tra maggioranza e opposizione (purtroppo questo capita spesso a sinistra) ci si divide prima, ci si scinde poi. La scissione avvenuta nel PD penso però che non sia ancora definitiva. E’ un incidente di percorso. Spero anzi che si ritrovino le condizioni di una convivenza. La situazione politica, economica e sociale richiede l’unità. Lo stesso Partito Democratico, nato dall’incontro tra diverse culture riformiste, deve tornare ad essere unito. Deve essere capace di fare alleanze. Deve riuscire a sviluppare il dialogo. Se ci si divide si finisce per essere sconfitti. Abbiamo tanti esempi nella storia recente. Perché vinse il fascismo? Nel 1919 il partito fascista ottenne meno di 5000 voti nelle prime elezioni a suffragio generale; il Partito Socialista sfiorò quasi il 50% dei voti nell’Italia del Nord: era il primo partito italiano; aveva decine di migliaia di cooperative socialiste; il sindacato socialista, la CGIL, aveva 2.500.000 iscritti; il 40% dei comuni aveva un sindaco socialista. Tre anni dopo nel 1922 il fascismo conquistò il potere. Perché? Il Partito Socialista si divise nel 1921, si ridivise ancora nel 1922. Nacque prima il Partito Comunista, poi i restanti socialisti si scissero in due partiti: uno massimalista e l’altro riformista. Il risultato? Vinse una dittatura, quella fascista, durata vent’anni. Nel 1946, subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, il Partito Socialista si è subito diviso tra i seguaci di Saragat e quelli di Nenni. E così l’Italia non avrebbe mai avuto, nell’Europa occidentale, un forte partito socialdemocratico, come avvenuto in Germania e in altri paesi europei. E un’altra scissione si è ripetuta nel 1969 quando si ridivisero i socialisti e i socialdemocratici. Ogni scissione ha fatto fare molti passi indietro all’Italia sulla strada della crescita economica, dello sviluppo, delle conquiste sociali”.

Lei è stato per pochi mesi segretario del Partito Socialista Italiano, dopo Bettino Craxi, durante la tempesta Tangentopoli. Quei tempi politici secondo lei, erano più pericolosi per la democrazia italiana rispetto ad oggi, oppure la Repubblica rischia di più nel 2017?

“E’ stata una fase drammatica nella storia del nostro paese. Purtroppo è una storia che non passa. Continua. Nella prima repubblica c’erano sette partiti. Oggi sono un’ottantina. Si voleva cambiare tutto. Si è cambiato poco o nulla. E’ stata cavalcata la spinta giustizialista che non ha trasformato la protesta in proposta. E’ caduta l’autorevolezza delle istituzioni. Non c’è più fiducia nello Stato. Trionfa spesso il qualunquismo. Siamo, dopo vent’anni, sempre sulla strada della provvisorietà. Non si fanno vere riforme, non si adegua e modernizza la Costituzione; si conta sempre meno nello scenario internazionale. Si vive alla giornata, si sopravvive sperando che possa venire un uomo della provvidenza. Occorre voltare pagina. Va archiviata questa lunga fase di transizione e va realizzato il cambiamento del paese. L’Italia può e deve contare in Europa e nel mondo”.

Passiamo alla parte più sindacale. Lei è stato per anni leader della UIL, quando con CGIL e CISL i sindacati italiani contavano tantissimo in Italia. Quel tridente d’attacco: Lama, Carniti, Benvenuto per i diritti dei lavoratori, va ritenuto una formula di altri tempi o in Italia il ruolo forte dei sindacati dovrebbe o potrebbe ritornare?

I leader sindacali Pierre Carniti (CISL), Luciano Lama (CGIL) e Giorgio Benvenuto (UIL)

“Il sindacato ha vissuto allora una fase straordinaria di conquista e di successi. Il segreto della sua forza era l’unità e la capacità di indirizzare le proteste verso grandi riforme per il cambiamento e la modernizzazione del paese. E’ stata migliorata la scuola. E’ stato valorizzato il lavoro. Sono stati conquistati importanti diritti civili. E’ stato sconfitto il terrorismo. Il sindacato unito è stato decisivo nella crescita sociale e politica. L’Italia ha avuto un vero e proprio miracolo economico. Negli anni Ottanta l’Italia era la quarta potenza industriale nel mondo. Oggi è tutto più complesso. C’è la globalizzazione. Domina la logica del mercato. La sinistra, a cui sempre il sindacato si è richiamato, vive una fase di difficoltà, non riesce ad immaginare un nuovo ruolo in un mondo che è cambiato. E’ difficile fare oggi attività sindacale, rappresentare il mondo del lavoro. Ma le occasioni per esserci non sono scomparse. Il ruolo del sindacato è oggi più necessario di ieri; del sindacato come di tutti i soggetti intermedi perché raggruppano le persone e cercano di rappresentarle. Il sindacato ha il compito di fare in modo che la globalizzazione, la finanza e il mercato abbiano regole e che soprattutto ce ne sia una che deve valere: l’economia e la finanza devono essere al servizio della dignità della persona umana e non viceversa. Il sindacato, i partiti, la sinistra tradizionale, il mondo delle associazioni non devono accantonare i propri ideali. Oggi la sinistra teme che le antiche ideologie e i vecchi principi siano superati. C’è l’ansia di legittimarsi imitando i movimenti populisti. E così le proteste, il disincanto, il malumore del mondo del lavoro e dei giovani finiscono per indirizzarsi a nuovi movimenti che sanno solo promettere senza assumersi la responsabilità della proposta. Movimenti che delegittimano le istituzioni e cavalcano ogni dissenso ricorrendo solo alla protesta verbale che diviene sempre più violenta….

Cosa pensa di Donald Trump? Crede che sia una versione americana di potenziale fascismo pericoloso per la democrazia americana e la libertà nel mondo, oppure si tratta di un movimento social-conservatore ma che i check and balance della costituzione americana possono tranquillamente controllare e contenere?

“Ho un’opinione diversa. La vittoria di Trump è il risultato dei meccanismi della legge elettorale in USA. Trump ha vinto nel voto degli Stati; ha perso invece nel conteggio dei voti popolari (tre milioni di voti in più sono andati alla Clinton). Ha preso i voti delle persone anziane; ha vinto nell’America profonda; ha avuto molti voti tra i lavoratori; ha vinto per un soffio negli Stati che erano da decenni roccaforti dei democratici. Penso che sia azardato dire che Trump ha una visione fscista. I voti a Trump sono il sintomo largamente presente in USA, soprattutto nel ceto medio, della paura. La paura del diverso, la paura di perdere quello che si è conquistato, la paura del futuro.

Il fascismo e il nazismo volevano sopprimere la libertà, erano razzisti. Il populismo è invece originato dalla paura, dal disinganno, dalla sfiducia nei partiti tradizionali. Trump ha vinto due volte: contro la nomenclatura del Partito Repubblicano e contro Clinton. Il populismo non si combatte chiedendo di votare il meno peggio; non si vince demonizzando e ridicolizzando l’avversario; si vince con le idee”.

Passiamo in Europa. Secondo lei, l’Europa ce la farà a passare questi momenti di profonda crisi e divisioni, pensiamo alla Brexit e ai rifugiati, e riprendere il cammino per gli Stati Uniti d’Europa? Oppure quello è stato solo il sogno di qualche generazione e bisogna prepararsi al peggio?

“Ci sono tre scenari possibili. Il primo è catastrofico. Se prevalgono i populismi l’Europa si dissolve. Risorgeranno forme di nazionalismo. E, inevitabilmente, direi inesorabilmente, il nazionalismo porterà allo scontro, alla incomprensione, alla contrapposizione, alla guerra.

Il secondo scenario possibile è quello dell’immobilismo. Si continua a non decidere. Si ha il timore di creare problemi ai partiti europei impegnati nelle prossime elezioni in Francia e in Germania. Si aspetta che passi, come diceva Eduardo De Filippo, la “nottata”. E’ quello che suggerisce Juncker, il Presidente dell’Unione Europea, che ha presentato un libro bianco per il rilancio dell’Europa. Un piano inutile che rinvia le soluzioni e lascia l’Europa in mezzo al guado.

Il terzo scenario è quello della speranza. L’Europa deve riprendere il cammino verso l’integrazione politica e sociale. L’euro non può essere il punto di arrivo. E’ la tappa del lungo cammino che va completato. Non può l’euro essere un “marco” travestito che sta spaccando e frammentando l’Europa. Il voto in Olanda ha fatto tirare un respiro di sollievo alle forze europeiste. Bisogna reagire alle spinte per la dissoluzione dell’Europa ed agire.

L’Italia ha in questo scenario un’occasione straordinaria, gli scienziati la chiamerebbero una sorta di “congiunzione astrale”. L’Italia presiede a Roma la riunione dei 27 paesi facenti parte dell’Unione Europea per celebrare i 60 anni della firma degli atti costitutivi. A maggio l’Italia presiederà il vertice dei sette paesi maggiormente industrializzati del mondo (è il primo al quale partecipa Trump e all’ordine del giorno c’è il problema della Russia e di Putin). Il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani è italiano. Il capogruppo del Partito Socialista Europeo nel Parlamento Europeo, Gianni Pittella, è italiano. La rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Federica Mogherini è italiana. E’ italiano infine Luca Visentini, Segretario Generale della Confederazione Europea dei Sindacati. L’Italia è quest’anno nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, presiede il gruppo Mediterraneo di Osce, e il prossimo anno sarà presidente di Osce, dove ha già il Segretario Generale.

Giorgio Benvenuto durante la sua visita all’ONU

L’Italia deve operare per raccogliere i consensi necessari per andare avanti nella costruzione dell’edificio europeo. Occorre progettare, con i tempi e le gradualità necessari, l’attuazione dell’integrazione economica, sociale e politica. Occorre dare la precedenza alla definizione di una politica fiscale comune che elimini la “fiscalità nociva” tra gli stati europei; occorre favorire una politica di sviluppo che rafforzi la coesione; occorre una politica comune sull’immigrazione; occorrono dei passi in avanti sull’integrazione politica; va ripristinato in Europa il ruolo della Commissione e vanno rafforzati i poteri del Parlamento, oggi troppo subordinati alle decisioni prese nelle riunioni dei capi di Stato.

L’Italia deve recuperare il tempo perduto. Il dibattito e il confronto tra i partiti deve riguardare l’Europa. E’ lì che si gioca il futuro. Troppe volte le cosiddette primarie che nei partiti hanno sostituito i congressi, si riducono ad uno scontro tra aspiranti leader: si contano ma, ahimè, non contano poi nella gestione della politica economica e sociale. Non contano nello scenario internazionale. Il più delle volte si adattano a sfornare opinioni su quello che accade; sono, invece, incapaci di avere idee, proposte, progetti. Chiedono ai propri elettori di “credere”, non domandano di pensare”.

Guardiamo alla politica internazionale contemporanea. Trump sta impostando la sua politica estera tra diverse contraddizioni e annunci che preoccupano. Ci si chiede se la NATO serve ancora. C’è la Cina rampante e la Russia di Putin che guarda indietro. Secondo lei politici di sinistra, insieme realisti come Nenni e Craxi, che tipo di rapporto cercherebbero di avere con il mondo contemporaneo?

“Nenni e Craxi erano degli statisti moderni. Non hanno mai sottovalutato la politica internazionale. Hanno avuto sempre l’ambizione di svolgere un ruolo determinante. In alcuni momenti sono stati dei veri protagonisti.

Pietro Nenni e Bettino Craxi

Oggi, come ieri, occorre fare i conti con la realtà. Senza demonizzarla, cercando di approfondire le novità ed i cambiamenti. L’Europa non è condannata al declino. Si può e si deve reagire. L’Europa deve essere un’entità politica coesa. L’Europa (Silvio Trentin diceva durante la battaglia della resistenza al nazifascismo “liberare et foederare”) ha una grande importanza strategica e politica.

La Nato va ammodernata, equilibrata e ristrutturata. Ha svolto una funzione importante nel secondo dopoguerra. Gli scenari sono cambiati. La Russia di Putin risente il richiamo della foresta dell’imperialismo zarista e sovietico; l’America non può rinchiudersi nell’isolazionismo. Alle guerre tradizionali si sostituiscono oggi gli scontri religiosi, il dramma delle emigrazioni, i conflitti economico sociali derivanti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione”.

Presidente, un’ultima domanda. La sua generazione politica che nell’infanzia aveva conosciuto gli orrori della guerra, e che poi ha vissuto il successo dell’Italia e del boom economico, cosa può ancora insegnare alle nuove generazioni che cercano di governare l’Italia? E nella galassia democratica e progressista italiana ora frantumata in schieramenti politici diversi, chi pensa avrebbe più bisogno e sarebbe più ricettivo ai suoi consigli frutto di una tanto lunga esperienza politica e sindacale.

“Penso che l’Italia sia un paese particolare, di molte culture, di molte conoscenze; è un paese che storicamente ha avuto anche cicli storici straordinari. Penso all’uscita dal Medioevo, al Rinascimento. L’Italia è un paese fatto da migliaia di comuni, ha un florido pluralismo, un incredibile folklore, tanti dialetti, millenarie tradizioni. E’ un paese che dà il meglio di se stesso se è governato. Cosa vuol dire governato? Significa che sono importanti le forze intermedie. E’ necessario sempre, con pazienza cercare di puntare al consenso. E’ il metodo che oggi, in termini tecnici, è chiamato concertazione.

Negli ultimi tempi, ogni tanto, è riaffiorata in Italia, nei momenti peggiori, la scorciatoia di invocare l’uomo che comanda. Tra comandare e governare c’è profonda differenza. Chi governa dà l’impressione che ci sia bisogno di più tempo e fatica, ma alla fine i risultati ci sono. Chi comanda non riesce a fare le riforme, non riesce a governare, determina nel paese solo contrapposizioni. Oggi l’Italia è un paese diviso tra partiti e sindacati; tra nord e sud; tra donne e uomini; tra giovani e anziani; tra lavoratori del pubblico e del privato … Potrei continuare con un elenco che non finirebbe mai. E’ la politica degli uni contro gli altri, politica che poi si spezzetta, che cade nell’individualismo e nella ricerca di soluzioni semplici a problemi che sono complessi. Immagino che l’esperienza che possiamo portare, noi che abbiamo vissuto nel passato momenti tragici e felici, sia quella di suggerire il metodo migliore per governare l’Italia. Non si deve parlare solo dei problemi della gente e basta. Si deve parlare con la gente.

Nenni in comizio a Milano nel 1966

L’Italia ha bisogno di avere coesione, questo ancora di più oggi in una fase nella quale si ha paura del futuro. E quando si ha paura ci si affida all’uomo forte. E’ un errore. Quell’uomo è forte nel tono della voce e negli insulti che dà, ma è povero e debolissimo nelle proposte. Non si deve rinunciare alle idee. Un partito, un sindacato, non deve ammutolirsi, non deve adottare la furbizia di chi, per avere un applauso, si appiattisce sulle posizioni altrui, non deve avere l’ansia della legittimazione inseguendo la moda del populismo. Non bisogna temere le sconfitte e gli insuccessi. La società civile è viva e reattiva. Non c’è solo protesta e qualunquismo. Ci sono molte potenzialità. I partiti dovrebbero parlare di più con la gente. L’Italia ha bisogno di persone come Nenni e la sua generazione. Persone che sono state capaci di lottare, che non si sono mai rassegnate, che non si sono mai crogiolate nella sconfitta, per reagire e alla fine vincere”.

 

Intervista di Stefano Vaccara per www.lavocedinewyork.com/ 22 marzo 2017

 

I ricordi di Formica

I ricordi di Formica

Rino Formica

Rino Formica

Pubblico stralci della lunga intervista concessa al Fatto da Rino Formica, fra i più sottili e acuti protagonisti della Prima Repubblica. Quella di Formica è una ricostruzione in biblico fra storia e autobiografia. Formica non è uno storico, parecchi giudizi sono ricostruzioni compiacenti o giustificazioni a posteriori o non richieste, Ciò nonostante l’articolo merita una riflessione sui cinquantanni che vanno dalla ricostruzione post-bellica a Tangentopoli, utile per capire il presente. Come giovane amministratore socialista e dirigente regionale dell’allora PSI ho avuto la possibilità di conoscere Formica e di vivere quelle pagine, dall’ascesa del Midas Hotel alla rovinosa caduta, col lancio delle monetine, davanti ad un altro all’hotel, il Raphael in Roma. E’ forse vero, come sostiene Formica, ancora risentito, che chi lanciava quelle monetine le aveva a sua volta rubate. Resta ad ogni modo sottile la distinzione che Formica fa fra “ricerca illegale di risorse” da parte dei partiti e l’odierno “rubare” per sé della “casta politica”, poiché sempre di illegalità si tratta. Circa la genesi di Tangentopoli, Formica aveva in passato parlato di “complotto americano” dopo i fatti di Sigonella; ora la sua analisi è più articolata. Resta un fatto: nessuno di noi aveva capito il significato profondo della caduta del Muro di Belino, né previste le sue conseguenze. Sarebbe onesto ora ammetterlo. D’un colpo cadeva la ricerca di autonomia a sinistra dei riformisti socialisti, e la maschera di pretesa indipendenza del PCI da Mosca. Senza il patto “ad escludendum” e il superamento della guerra fredda il quadro si riprendeva la sue libertà e la società italiana, sconcertata e senza guida, avviava la sua giustizia sommaria, affidandosi al “salvatore” di turno. L’intervista contiene una novità: quella secondo la quale Craxi si esiliò per paura di essere ucciso. Nessuno ne ha mai parlato finora. Ucciso da “chiunque, ovunque”, dice Formica. Per odio? Per paura che parlasse? Sono domande che restano senza risposte. 

………..

Lei è stato ragazzo, a Bari, durante il Fascismo.

Anticipai la licenza liceale: bisognava accelerare. S’intravedeva già nel ‘42 la fine del Fascismo, la preoccupazione era capire che cosa sarebbe successo dopo. Ebbi la fortuna, nel liceo scientifico che frequentavo, di avere professori molto bravi, tra cui l’antifascista Ernesto de Martino. E un professore di religione che fu poi l’ispiratore spirituale di Aldo Moro, monsignor Mincuzzi. Ricordo che nel 1942 portai a scuola un opuscolo delle edizioni Avanti (il programma dei comunisti di Bakunin). Lo avevo trovato nella libreria di mio padre. Il professore di tedesco, un fascista critico, trovò il libro, e con fare paterno mi disse: ‘Guarda che te lo devo sequestrare’. Ma dopo avermi dato uno scappellotto mi disse: ‘Ti segnalerò al professore di religione’.

Che c’entrava il professore di religione?

Mincuzzi aveva il compito di tutelare i dissidenti. E fu così che dopo l’ora di religione mi chiamò e mi disse: ‘Ma che fai il comunista?’ e io: ‘Veramente mio padre è socialista e repubblicano’. Mincuzzi mi invitò in Arcivescovado dove incontrai un giovane professore, Aldo Moro: mi fece una lezioncina spiegandomi che era giunto sì il momento per una scelta politica, ma non doveva essere di partito. Dovevamo orientarci per una svolta istituzionale. Ma non avrei seguito questo consiglio: successivamente aderii al Partito socialista. Non fu facile, perché quando il 18 novembre 1943 mi presentai alla sezione del Partito in via Andrea da Bari, non trovai disponibilità all’accoglimento. Ebbi un primo scontro con il Collegio dei probiviri.

Perché, non la volevano?

I compagni della Commissione mi sottoposero a un lungo interrogatorio: ‘Perché ti iscrivi al Partito socialista? Perché ti iscrivi a un partito di sinistra? Perché non continui a studiare?’. Perfino: ‘Ma la ragazza non ce l’hai?’. Io risposi irritato: ‘Ma che c’entra la ragazza, è incompatibile con il socialismo?’. Dissi che mio padre era ferroviere, le obiezioni caddero: due dei tre probiviri erano ferrovieri!

 Poi finisce la guerra.

Nel ‘43-‘44 assumo la segreteria provinciale della Federazione giovanile socialista e alla liberazione di Roma, nel ’44 sono chiamato a Roma da Matteo Matteotti. Nel luglio del ‘45 con il Congresso costitutivo della Federazione giovanile socialista, entro nel ristrettissimo esecutivo nazionale. Avevo 18 anni.

 E gli studi?

Mi iscrivo a Ingegneria. Ma nell’ottobre 1945, Rodolfo Morandi, vicesegretario nazionale del partito, convocò la segreteria della Federazione Giovanile che aveva una linea ostile, da sinistra, a quella del partito e di Nenni.

Prendendola alla larga ci disse: ‘Voi personalizzate troppo; non riuscirete mai a fare vera e giusta politica. La politica è una missione dove si deve usare il noi e non l’io’ . Queste parole aprirono tra noi giovani una lunga riflessione al limite del ‘ religioso’  sulla funzione della politica nella nostra vita.  Una scelta di vita coerente poteva essere vissuta solo con il massimo della spersonalizzazione: allora ci convincemmo che la personalizzazione nella politica è una forma degenerativa che distrugge gli ideali. A questa convinzione, che nacque sul filo del ragionamento di Morandi, la mia generazione è rimasta fedele.

 Profetico! E questo come influenzò i suoi studi?

Morandi terminò così il ragionamento: ‘ Per una buona politica non è sufficiente la spersonalizzazione, bisogna studiare in funzione della missione politica, se ci credete. Se non ci credete lasciate la politica’ . Fu così che cambiai facoltà e mi iscrissi a Economia e Commercio: si trattava di materie più aderenti alla missione politica.

Prima di diventare senatore, nel ‘68, cosa fa?

Ho una tormentata esperienza dei movimenti politici socialisti. Partecipo a tutte le scissioni: Palazzo Barberini nel ’47, la lacerazione del Psli nel ’48, la costituzione del Psu nel ‘ 49, la formazione di Cucchi e Magnani nel ‘ 50, il ritorno nei socialdemocratici nel ’52, la scissione del Mup nel ‘ 59, e dal ‘ 60 partecipo a tutte le battaglie autonomiste riformiste del Psi sino al 1994.

 Ignazio Silone l’ha conosciuto?

Nel Psu, Silone era il segretario del partito e io della Federazione giovanile. Ogni lunedì ci convocava. Un giorno discutemmo a lungo dei rapporti tra socialisti e comunisti e io gli chiesi: ‘ Perché non ci parli della tua esperienza nel Comintern con Togliatti e Stalin?’ . Lui rispose non rispondendo. Con una breve frase enigmatica soddisfò la mia curiosità. Disse: ‘ Di queste cose non parlo, perché vengo da un Paese in cui il lutto si porta a lungo. Però attenti, voi siete giovani: il momento tragico sarà quando gli ex comunisti saranno più dei comunisti’ .

 Torniamo a lei.

Nel ’72, dopo il congresso di Genova, assumo la responsabilità dell’organizzazione del Partito e nel ’76 quella della segreteria amministrativa, che allora in tutti i partiti politici era considerato il posto più delicato della gestione interna. Nell’assumere l’incarico chiesi al compagno Craxi e ai compagni che avevano guidato la svolta del Midas, di impegnarsi perché il posto di Segretario amministrativo fosse sempre ricoperto da chi non godeva della immunità parlamentare. Allora non ero parlamentare e pensavo che per rimettere ordine nelle finanze dei partiti era necessario giocare senza rete.

 Craxi cosa rispose?

Bettino Craxi segretario PSI

Bettino Craxi segretario PSI

Fu d’accordo. Nel ’75, un anno prima del Midas, avevamo convocato la conferenza nazionale dell’organizzazione del partito a Firenze. Si aprì una riflessione tra tutti i partiti perché si notava una lenta ma continua degenerazione nel rapporto partiti- istituzioni: una tre giorni in cui si parlò il linguaggio della verità. Leggendo la rassegna stampa di quell’evento è impressionante vedere come tutti i problemi di ieri sono oggi declinati in peggio.  Furono i socialisti a lanciare l’allarme sull’esaurimento del modello di partito tradizionale chiuso, verticistico e disciplinato senza canali di comunicazione con una società che avanzava al di fuori delle caserme dei partiti. Da quella discussione non nacquero soluzioni coerenti.

Cosa intende per modello di partito tradizionale?

L’organizzazione di partito era nel dopoguerra una formazione che viveva nella separatezza: centralismo democratico, disciplina di partito anche nelle istituzioni, giustizia domestica (il lecito e l’illecito era sanzionato in casa) selezione del personale politico per fedeltà al partito, riservatezza assoluta nella raccolta delle risorse. Questo era il modello di tutti i partiti grandi e piccoli di sinistra, destra e centro.

Dove ha sbagliato la sua generazione?

Siamo stati cattivi maestri dei nostri figli. Abbiamo voluto metterli al riparo delle nostre amarezze, dalle dure esperienze di una maturità senza giovinezza, li volevamo giovani e liberi per un periodo lungo e senza fine. Era un modo per poter vivere la nostra mancata giovinezza.

……..

Anche Craxi fa parte di quella generazione che non ha sofferto?

No. Craxi non è stato soltanto lottato dai suoi nemici, ma è stato abbandonato dai craxiani degli anni 80, quelli che non avevano sofferto.

Capitolo Tangentopoli.

Antonio Di Pietro, magistrato di Tangentopoli e politico

Antonio Di Pietro, magistrato di Tangentopoli e politico

Mani Pulite nasce con gli eventi internazionali dell’ 89. È la fine del socialismo senza democrazia (il comunismo). In occidente, patria del compromesso socialdemocratico (capitalismo democratico+ distribuzione delle risorse pubbliche ai lavoratori e alle imprese), si ritiene sia giunto il momento di sostituire la giustizia sociale con la giustizia di mercato. Viene imboccata una strada ad alto rischio: a) esportare nei paesi dell’est il capitalismo; b) trascurare la riconversione democratica del socialismo reale; c) liquidare lo stato del benessere in nome della crisi dello stato fiscale; d) trasformare la democrazia partecipata in decisionismo autoritario.

 Va bene: cambia il mondo. Ma non c’è solo questo.

La sinistra, il movimento democratico italiano, non è pronto. Deve affrontare un doppio fallimento, il fallimento del comunismo come socialismo senza democrazia, e la fine del compromesso socialdemocratico. La crisi dello stato fiscale e l’alto costo del compromesso sociale, porta il capitalismo a ritenere di non avere più bisogno del compromesso socialdemocratico. Il capitalismo ritiene che divorziando dalla democrazia possa liberarsi dal vincolo politico. È un’illusione, perché dovrebbe togliere alla politica il governo e dovrebbe avere la forza di chiudere il Parlamento.

Scusi, e la corruzione?

La corruzione dei singoli per fini propri è materia diversa dalla ricerca di risorse da parte dei partiti. Nel compromesso sociale tra governi, imprese e mondo del lavoro, vi era un’area grigia che riconduceva all’utilizzo delle risorse.

Un modo molto elegante per dire che si rubava.

Il verbo rubare è improprio. Nel vocabolario è spiegato così: ‘Sottrarre oggetti di proprietà altrui con astuzia, sotterfugio e inganno’. Tra il 1945 e il 1992 i partiti raccolsero senza astuzia, senza inganno e senza sotterfugio, fondi per una istituzione costituzionalmente garantita (art.49 Costituzione) e per una alta finalità (costruire l’ordine democratico repubblicano).

Tutti colpevoli, nessun colpevole. Non avete mai ammesso di essere tutti colpevoli.

La raccolta dei fondi avvenne anche con l’utilizzo proporzionale delle forze elettorali e del potere di governo nazionale e locale. Ciò andò oltre i limiti consentiti dal rispetto della legge e avvenne con la compiacenza del mondo imprenditoriale, e dell’informazione e della magistratura. Intorno a questo nucleo di verità deve esercitarsi una seria e profonda ricerca critica su la vita di tutti i partiti politici nella fase di costruzione dello Stato repubblicano. Vi era inoltre il finanziamento esterno: gli americani pensavano alla Dc, l’Urss pensava al Pci e solo in parte al Psi sino al 1959. L’Eni di Mattei rafforza questo schema che vede la liceità del finanziamento dei partiti con risorse pubbliche. E oggi? Dopo Mani Pulite, i partiti storici sono scomparsi: l’attività politica è passata nelle mani dei partiti personali e dei singoli operatori elettorali che hanno drenato risorse in ogni campo con ‘astuzia, inganno e sotterfugio’. Questa è la differenza tra ricerca illegale di risorse praticate dai partiti tra il ‘45 e il ‘92 e il rubare delle caste politiche di oggi. Se si chiarisce questa differenza, sarà facile affrontare il tema della separazione in corso tra politica e democrazia e tra utopia dei fini e cinismo dei mezzi.

…….

Torniamo a Mani Pulite. Quand’è che vi accorgete che di lì a poco il sistema, compreso il vostro partito, sarebbe stato completamente spazzato via?

Nel ‘ 75 abbiamo detto: qui siamo a un punto di non ritorno. Punto. Che cosa è avvenuto nel ‘ 92-‘ 94? Tra il ‘ 92 e il ‘ 94 i mutamenti internazionali cambiano gli equilibri politici anche nel nostro Paese. Il 20 gennaio ‘ 92 Cossiga scrive al Popolo  una lettera in cui annuncia le sue dimissioni dalla Dc e indica una nuova prospettiva politica. Craxi mi chiede di scrivere il fondo dell’Avanti!  sulla lettera di Cossiga. Uscì con questo titolo: ‘ Preannuncio di Nuova Democrazia’ . È brutto citarsi, ma in quella nota c’ è la risposta alla sua domanda.

Parlando di cose più spicce, nel ‘93 Craxi in Parlamento fa il famoso discorso del cestino…

…e il sistema non risponde. Alla domanda di Craxi: ‘ Abbiamo fatto così, siamo pronti a smettere?’ , nessuno fiata. Ma non poteva farlo un partito solo, lo dovevano fare tutti. Oggi possiamo dire che chi buttava monetine lanciava qualcosa che aveva rubato. Chi alzava il cappio in Parlamento e indossava i guanti bianchi, oggi deve rispondere alla giustizia per le malefatte compiute in questo ultimo ventennio. Si vestivano da epuratori mentre erano già epurabili. Non si tratta di voler tutti colpevoli. Quando una trasgressione individuale e sporadica diventa generalizzata e radicata, è una grande questione nazionale di costume civile, di cultura o subcultura politica e sociale.

 Si dice che uno dei problemi del paese è stata la mancanza di epurazioni: dopo il Fascismo e dopo Mani Pulite.

Epurazione è una parola da usare con cautela. Spesso è stata usata per vendetta e non per giustizia. Nel dopoguerra abbiamo visto epurabili che hanno epurato gli epuratori. Anche la rivoluzione dopo gli attimi di gloria e di esaltazione della purezza deve ricorrere al personale antirivoluzionario. La rivoluzione è una rottura dell’ordine politico, civile e sociale che deve aprire il passo al ‘ riformismo di pace’ .  La rivoluzione continua, è la follia dei fanatici. L’amnistia è l’unica forma di pacificazione realizzata con la forza della legge. De Gasperi, Togliatti e Nenni furono lungimiranti. Chi parlò di rivoluzione tradita (e anch’io con i giovani socialisti ero tra questi) mise veleno nelle pieghe della Storia. Nella stagione del terrorismo riapparve la funesta bandiera della rivoluzione tradita.

 L’Italia non è un Paese di rivoluzioni.

Dopo l’ultimo ventennio, la lezione che dovremmo imparare è che saremo, per forza, costretti a introdurre cambiamenti copernicani senza fare rivoluzioni. Nel ‘ 92 si capì bene che la miseria della lotta politica aveva vinto. D’Alema, Occhetto e Veltroni, che avevano la guida della sinistra sopravvissuta, avevano un unico problema: eliminare i socialisti e Craxi. Allora andava bene tutto, anche in sede locale accordarsi con i dorotei o con Tatarella, come D’Alema fece in Puglia. Una mossa che non stava nella grandiosità del duello a sinistra tra vecchi socialisti e comunisti.

Craxi si è autoeliminato scappando.

Craxi non scappò: andò via con un passaporto. Sulla scelta dell’esilio ebbi con Craxi una discussione. Gli dissi: siamo in presenza di una ribellione. La prima cosa che bisogna fare è stare sul posto e affrontare tutto. Ma in lui giocò un elemento squisitamente personale, la paura di essere ucciso.

Ma da chi?

Da chiunque. Ovunque. Non è questione di senso di colpa o cose del genere. Era una suggestione che lo ha reso debole. Il suo errore è stato avere, nella gestione dell’esercito che lo seguiva, una visione ottocentesca e non moderna. La cassa di Garibaldi, per capirci. La cassa era comune: si provvedeva al matrimonio di un capitano, alle armi, al compleanno di un tenente. La tecnica comunista era la compartimentazione, molto più moderna. Allora è stato facilissimo. Se lei prende dal volume su Mani Pulite scritto dai colleghi del suo giornale Travaglio, Gomez e Barbacetto troverà l’elenco degli imputati eccellenti. E noterà che l’unico che riceve una condanna per ogni singolo fatto, non in continuità, è Craxi. Quell’elenco grida vendetta al cielo.

……..

Com’è che Mani Pulite ha prodotto Berlusconi?

Silvio Berlusconi ex presidente del Consiglio

Silvio Berlusconi ex presidente del Consiglio

Berlusconi fu svelto. Mise al servizio di Mani Pulite le tv e diede a intendere che non era figlio del sistema. Ma in seguito non gli andò bene perché l’intreccio con il sistema era molto profondo.

Era agganciato prevalentemente al carro vostro.

Non è giusto. Gli unici che furono ostili alle televisioni di Berlusconi, furono i demitiani, in ragione della guerra interna con i forlaniani. Che fece il Pci per fermare il potere di Berlusconi?

Ma al governo c’eravate voi.

Il decreto fu predisposto da Amato e approvato da tutto il governo pentapartito.

La politica è ancora sangue e merda?

Purtroppo non è lo più per come lo intendevo. Sangue è passione, merda è contaminazione. Una contaminazione in cui il fine era molto più importante dello strumento. Lo strumento era funzionale. Più grande era il fine, più tollerabile era la contaminazione. Siamo senza il fine. La contaminazione ha prodotto più sterco. La passione manca del tutto. Inoltre oggi vi è un contesto fortemente mutato. L’avanzare di un capitalismo senza democrazia sta producendo una nuova forma di democrazia: la democrazia affidataria: l’affidato è il popolo desovranizzato, un soggetto inabile, l’affidante è chi ha il potere del vincolo estero, oggi è la Bce. Ma anche Draghi si illude di essere il vero sovrano. Ed è l’affidante provvisorio che ha scelto l’affidatario, anche egli provvisorio, che per ora si chiama Renzi.

L’errore è stato l’euro?

L’errore è stato entrare a quelle condizioni senza un rafforzamento immediato delle istituzioni politiche. L’unificazione solo della moneta è precaria e insufficiente.

Lei è sempre ricordato per le sue fulminanti definizioni come l’assemblea del Psi ridotta a ”nani e ballerine”.

È un apprezzamento di cui mi pento se devo paragonare gli eccellenti professori universitari e gli straordinari personaggi del teatro e del cinema di ieri con i grigi amministratori delle unità sanitarie delle municipalizzate e le veline-cubiste di oggi.

Matteo Renzi

Matteo Renzi, segretario PD e premier

Matteo Renzi, segretario PD e premier

È il motorino d’ avviamento di una centrale atomica che lo brucerà a breve. Non ha un pensiero politico, è una carica di energia. Servirà ancora qualche mese, poi la Chiesa lo farà fuori. La sua politica, che persegue la giustizia del mercato, contraddice il pensiero della dottrina sociale cattolica. E non è nemmeno in condizioni di servire al capitalismo a sganciarsi dalla democrazia: non ha abbastanza forza. Renzi non si è accorto che a ogni forzatura autoritaria, corrisponde un’ espansione del fronte largo di difesa della democrazia parlamentare, qualcosa che va oltre l’ostilità alla legge elettorale e alla riforma del Senato. Può diventare un moto indomabile di liberazione che travolgerà il suo partito e i suoi alleati. Uomini di Chiesa, borghesia impoverita, lavoratori stremati e giovani senza futuro sono in allerta.

 Silvia Truzzi per il “Fatto Quotidiano” 30.4.2015

 

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