DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

Le polemiche sullo stereotipo dell’italoamericano e le critiche negative furono nulla in confronto alla mania che generò, dalla moda alla musica fino al linguaggio. Cinquant’anni fa usciva il mafia- movie di Coppola che emozionò Kissinger

”Il faccione severo di Marlon Brando campeggiava da giorni sulle copertine di Life e Newsweek (“Brando play a Mafia chieftain”). La premiere del film era l’evento più atteso della stagione e per l’esclusiva serata di gala, il 14 marzo del 1972, fu scelto il Loew’s Theatre di Broadway. Quel giorno un’improvvisa tempesta di neve aveva paralizzato New York, ma nessuno, tra la gente importante di Hollywood, voleva mancare all’anteprima del “Padrino”. Erano tutti ansiosi di capire se il successo formidabile del best seller di Mario Puzo, pubblicato tre anni prima e definito dalla critica americana, un “fratelli Karamazov della mafia”, sarebbe stato replicato anche al cinema. Da anni in una grave crisi finanziaria, come del resto gran parte degli studios, la Paramount si giocava tutto o quasi col “Padrino”. Nella sua autobiografia (“The Kid stay in the picture”), Robert Evans, ex attore di scarso talento, gran playboy e in quel momento ai vertici della Paramount, ricorda così quella serata: “Quando si sono spente le luci e è partita la musica di Nino Rota ho visto tutta la vita passarmi davanti”. Coppola, invece, si era ritirato nel frattempo sulla Costa Azzurra, aspettando di capire come si sarebbero messe le cose. Due ore e cinquantasei minuti dopo, quando le luci in sala si riaccendono, Evans si ritrova davanti a un Henry Kissinger commosso, quasi in lacrime: “E’ un capolavoro, è un film che parla a tutti: non è molto diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington”. Detto da Kissinger c’era da fidarsi. Il successo del “Padrino”, col suo cumulo di leggende raccontate in libri e documentari, alcune vere, altre verosimili, molte improbabili, comincia proprio quella sera. Per l’after party del film si va a festeggiare al St. Regis Hotel. Le foto immortalano Evans e la sua terza moglie, Ali Macgraw, a dir poco euforici, e poi Al Pacino, James Caan, Raquel Welch, Jack Nicholson, e naturalmente Henry e Nancy Kissinger, tra fiumi di champagne e balli sui tavoli. La mafia era diventata glamour. A Parigi, per il lancio del film, organizzarono una grande spaghettata all’“Opera”, presieduta da Claude Pompidou, coi camerieri che fischiettavano celeberrimi motivi di Donizetti, Rossini, Puccini. Ah les italiens!

Marlon Brando

Un film che si apre con un uomo che dice, “I believe in America”, pronunciando la frase come un atto di fede, nell’oscurità di una stanza buia, prima di chiedere il favore di un omicidio, non poteva che toccare le corde profonde del segretario di stato americano. Kissinger fu tra i primi a cogliere nel “Padrino” non tanto o non solo una saga sulla mafia, ma una trasparente metafora dell’America. Subito Coppola gli faceva eco: “E’ un errore pensare che sia un film sulla mafia. ‘ Il padrino’ è un romance su un re con tre figli. E un film sul potere. Si sarebbe potuto trattare dei Kennedy”. Ma che al posto dei Kennedy ci fossero i Corleone era secondo Marlon Brando una dimostrazione lampante del fatto che “la mafia è il miglior capitalismo che abbiamo”, come andava ripetendo sui giornali. La vera lezione del “Padrino”, casomai, è che la più grande minaccia per un uomo che accumula una fortuna sono i figli deficienti, ma all’epoca la lettura anticapitalista era assai convincente. In polemica con Hollywood, che pure gli aveva regalato una seconda chance, nonostante nessuno avrebbe voluto ingaggiarlo, Brando preparava il terreno per il gran rifiuto del premio Oscar come miglior attore. Al suo posto manderà, Sacheen Littlefeather, nome d’arte di Marie Louise Cruz, attivista per i diritti civili dei nativi americani che promise a Brando di leggere la sua arringa, senza neanche sfiorare la statuetta, e così fece.

Al Pacino con Coppola

Cinquant’anni dopo, in piena cancel culture, “diversity” e “inclusività”, la scena funziona ancora meglio: Roger Moore in smoking e Liv Ullman in abito da sera annunciano il premio. Parte il tema del “Padrino”, ma al posto di Brando, sale sul palco un’indiana americana che con gesto plateale rifiuta la statuetta, “in nome del discutibile trattamento riservato agli Indiani d’America nell’industria del cinema e nel mondo della televisione” ( non poté leggere il lungo testo che aveva con sé perché gli organizzatori, conoscendo le sbrodolate del divo, le avevano tassativamente vietato di superare il minuto). John Wayne in platea mugugnava insofferente e dovettero calmarlo. Subito dopo, salì sul palco Clint Eastwood per presentare i candidati alla miglior fotografia e alleggerì la tensione: “Bisognerebbe tutelare anche tutti quei cowboy bianchi uccisi nei western di John Ford”. Una battuta che oggi potrebbe rifare solo lui, anche se in sala non riderebbe nessuno. Nel frattempo, protestava in quei giorni anche la “Lega per la difesa dei diritti civili degli italoamericani”. “Abbiamo fatto tanto per l’integrazione degli italiani in America, credevamo di esserci finalmente liberati di certi stereotipi”, diceva Anthony Colombo, “ma ‘ Il Padrino’, col suo cumulo di falsità e invenzioni, ci riporta al punto di partenza” ( Anthony Colombo era figlio di Joe Colombo, fondatore della Lega alla fine degli anni sessanta, capomafia della potente famiglia Procaci: finì crivellato di colpi da un killer afroamericano al “Columbus Circle” di Manhattan poco prima dell’uscita del film). Mentre Brando lottava contro Hollywood per una più corretta rappresentazione degli indiani d’America, gli italoamericani si indignavano per tutti quei picciotti sullo schermo.

Diane Keaton con Al Pacino

Quando si parla del “Padrino” si comincia sempre con la sfilza di nomi di registi che si rifiutarono di girarlo. L’elenco si arricchisce ogni volta: Richard Brooks, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa- Gavras, Peter Bogdanovich, Sam Peckimpah, Sergio Leone, persino Franco Zeffirelli, magari con musiche di Mascagni al posto di Nino Rota. Ma, com’è noto, proprio l’idea di farlo girare a Coppola si rivelerà una mossa decisiva.

De Niro

Oggi è difficile da credere, ma prima del “Padrino” la mafia non era un buon affare per Hollywood. Nel 1968, poco prima che la saga dei Corleone catapultasse al cinema milioni di persone, la Paramount aveva prodotto “The Brotherwood”, un poliziesco ambientato nel mondo della mafia italoamericana che si rivelò un disastro. Kirk Douglas nei panni del capomafia Frank Ginetti, con penosi baffoni neri posticci, tipo emigrato italiano in Germania, era assai poco credibile agli occhi degli spettatori. Anche tutti gli altri attori del film avevano facce wasp o da ebrei americani, nulla insomma di italiano. Il pubblico era cambiato, voleva il “realismo”, e Hollywood era rimasta indietro. Col “Padrino” inizia quella politica editoriale dell’“appartenenza” ( non puoi dire nulla sulla mafia se non sei italiano) che sarebbe poi degenerata nella nostra epoca, dove un autore bianco, ancorché nonbinary, non può tradurre le poesie dell’afroamericana Amanda Gorman, e Helen Mirren viene rimproverata per aver accettato di interpretare Golda Meir perché non ebrea e priva di “jewface” ( del resto, anche Camilleri scriveva che “l’unica letteratura autorizzata a parlare di Mafia dovrebbe essere quella dei verbali di polizia e carabinieri”, ma per fortuna non gli si dà retta). Bob Evans, insomma, aveva captato il revival etnico che stava attraversando la società americana. Le rivendicazioni identitarie della “jewishness”, della “blackness”, della “italianness”, reclamavano un nuovo tipo di film, quantomeno nuovi registi e attori. E qui entra in gioco Coppola. Trasformando un film su committenza in un prodotto personale, pieno di riferimenti alla propria infanzia a Little Italy, Coppola realizza il primo blockbuster “identitario” della storia del cinema, oltre che un campione di incassi che strappa il primato a “Via col vento”. In omaggio alla propria “italianità”, “Il Padrino” è poi anche uno dei più straordinari esempi di nepotismo cinematografico.

De Niro

Nella scena del matrimonio iniziale, il padre di Coppola, Carmine, dirige l’orchestra, un cugino canta, vari parenti fanno le comparse. La sorella di Michael Corleone è interpretata da Talia Shire, sorella di Coppola, e c’è anche la figlia Sofia, appena nata, battezzata nel finale del film. La saga dei Coppola al cinema non sarà meno epica di quella dei Corleone. Ma questo effetto “famiglia italiana” faceva la differenza rispetto a tutto ciò che era stato prodotto sin lì a Hollywood in fatto di mafia. Sammy Gravano, detto “The Bull”, braccio destro di John Gotti, ricordava così l’incontro col “Padrino”: “Forse era una finzione, ma non per me. Era la nostra vita… E non solo i delinquenti, gli omicidi e tutte quelle cazzate, ma quel matrimonio all’inizio, la musica e il ballo, eravamo noi, gli italiani!”. “Il padrino”, insomma, era un riferimento per tutti gli italo- americani in cerca di un’identità. Quando in una scuola di Providence, Rhode Island, si celebrarono i giorni dedicati alle etnie, gli studenti italoamericani si presentarono vestiti come i membri del clan Corleone. Da lì a bar, caffè, ristoranti, catene di negozi e pizzerie “Padrino” il passo era breve. Alle feste e ai matrimoni ormai suonavano ininterrottamente la colonna sonora del film, come un nuovo inno nazionale, più struggente, romantico, più vicino alla sensibilità degli italoamericani rispetto alla marcetta di Mameli. Allo stesso tempo, il film di Coppola aveva introdotto un nuovo gergo. Come diceva Puzo, “prima che la usassi io, nessun mafioso aveva mai usato la parola ‘ padrino’ in quel senso, ora la mafia la usa, la usano tutti”. La padrinomania scoppiò subito, ben al di là del circuito italoamericano, e coinvolse anche la moda. Andava a ruba il cappello “Stetson” indossato da Marlon Brando, si rivedevano le giacche a due o tre pezzi. Uscì anche e ebbe un certo successo, “Il gioco del Padrino”, una specie di mercante in fiera con la pianta di New York, carte, dadi, pedine, chiusi in una scatola a forma di mitraglietta. Oggi invece abbiamo i Sauvignon fatti con l’uva mafiosa dei terreni confiscati e il “miele della legalità”. Se Coppola ha inventato il “mafia- movie”, noi abbiamo inventato l’antimafia- movie, una serie interminabile di film e fiction a base istituzionale e finanziamento statale con la verità insabbiata, le infiltrazioni, le trattative, le procure, le madri coraggio e tutta l’“alluvione di retorica” di cui parlava Sciascia nel suo celebre articolo. Se dobbiamo immaginare qualcosa capace di tenere testa al “Padrino”, pensiamo casomai ai nostri grandi drammoni famigliari, a “Rocco e i suoi fratelli” o al “Gattopardo”, con tutto il problema del mondo vecchio costretto a fare spazio al nuovo ( del resto, il matrimonio all’inizio del “Padrino” evoca il ballo finale del film di Visconti). Anche in Italia il successo del film fu enorme, ma la critica alzò subito il sopracciglio. Si portava molto la lettura politica, l’analisi dell’“ambiente” e dello “sfondo sociale”. Come se “Il padrino” fosse, anziché un’epica hollywoodiana, un romanzo di Zola. Per Alberto Moravia il film era “sul piano documentario e sociologico, una completa e sfacciata falsificazione”. Per “L’unità” era invece “una sfacciata apologia della famiglia”, intendendo non solo quella dei picciotti, ma l’“istituzione”, la famiglia borghese o, come si dice oggi, “tradizionale”.

Il cast del Padrino con il regista, prima e dopo

Per il Corriere della Sera, “Il padrino” era “un film di modesta qualità, in qualche parte addirittura mediocre”. Un “rosario di ammazzamenti recitato tenendo d’occhio il fascino che il male esercita sulle folle”. Un film “sbagliato” che non aveva il “sapore di inchiesta sociale sulla mafia del romanzo” ( anche se di inchiesta sociale, nel libro di Puzo, non c’era traccia). Secondo Tullio Kezich, “esaminato al di fuori del cancan pubblicitario che ne ha fatto un avvenimento mondiale”, ‘ Il Padrino” non era che un “condensato di luoghi comuni sui gangster italo- americani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”. Era “fiacco nel ritmo”, era “sceneggiato in maniera confusa, reticente”. Soprattutto, non nominava mai la mafia, né Cosa Nostra, né le coperture politiche del protagonista, “e spara bordate solo contro Frank Sinatra”. Kezich però non sapeva che l’assenza della parola “mafia” era frutto di un accordo tra la Paramount e la Lega di Colombo, siglato prima del film.

Ma questo mezzo secolo del “Padrino” è anche l’occasione per riflettere sulla sua debordante eredità che ormai è anche molto televisiva. I “Soprano”, naturalmente, ma anche intere puntate dei “Simpson”, “South Park”, i “Griffin”, “Law and Order” prolungano il mito della saga dei Corleone. Inutile ricordare che metà della filmografia di Martin Scorsese è un reboot del “Padrino” con gli Stones al posto di Nino Rota e molto più sangue, ritmo, esplosioni. Notissima poi la passione di Nora Ephron che infila citazioni del “Padrino” anche in una commedia romantica come “C’è posta per te”. Del resto, “leave the gun take the cannoli”, la “line” più bella della storia del cinema, forse anche più bella di “We’ll always have Paris”, l’avrebbe potuta scrivere anche lei.

Articolo di Andrea Minuz per Il Foglio Quotidiano

L’America di Sergio

L’America di Sergio

C’era una volta in America è la fine del mondo, la fine di un genere, la fine del cinema“. Il capolavoro di Sergio Leone raccontato dallo stesso. L’aria “qualunque” di Robert De Niro, la scena necessaria dello stupro, l’idea di fare un film sul tempo. Leone parla di tutto il suo percorso artistico in questo pezzo tratto dal suo libro C’era una volta il cinema (Il Saggiatore).“

C’era una volta il cinema è il frutto di quindici anni di dialogo ininterrotto con Noël Simsolo tra Parigi, Cannes e Roma. Leggere questo memoir-intervista è come ritrovare in una vecchia cassetta una voce che si credeva smarrita. Una voce acuta, divertita, ferocemente anticonvenzionale, che fra un aneddoto di vita sul set e una riflessione sul cinema finisce per rivelare i segreti di un regista che ha saputo trasformare gli anni del proibizionismo nel romanzo struggente delle amicizie tradite, delle vendette e degli amori perduti. E che, nell’oblio di una fumeria d’oppio come sulle carrozze di un treno a vapore, ha dipinto l’immagine del tempo mentre fugge via. Il libro è anche una vera lezione sul cinema, sulle sue tecniche, rivela la cultura iconografica del regista, i suoi gusti, la meticolosa e tormentata, decennale preparazione in cui tutto alla fine confluisce e si trasforma, esaltando vicende e luoghi e il sentimento del tempo che essi conservano.

La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: «Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli»

Com’è entrato in gioco Robert De Niro?
L’ho conosciuto quando stava lavorando in Novecento e non era ancora una star: si era semplicemente fatto notare in Mean Streets di Martin Scorsese. In quell’occasione gli ho parlato del mio film, promettendogli che sarebbe stato uno degli interpreti. Quando Milchan ha fatto ripartire la produzione, aveva da poco terminato di lavorare in Re per una notte con Scorsese, di cui era diventato amico. De Niro era già impegnato per ben diciotto mesi con un altro film, ma, senza dirmi nulla, ha sciolto il contratto per interpretare la parte di Noodles. Nel giro di pochi anni è diventato il più grande attore del mondo.

Come si è mosso per il ruolo di Max?
Preferivo fosse interpretato da un volto nuovo. Abbiamo fatto più di duecento provini, finché ho scoperto James Woods in uno spettacolo teatrale. Mi è piaciuto. Il suo provino non è stato decisivo, ma avvertivo una vera nevrosi dietro il suo strano viso. Era quello ad affascinarmi. E ho convinto De Niro che la parte dovesse essere sua, anche se Robert avrebbe preferito un attore del suo giro. E abbiamo fatto numerosi provini ai suoi amici! Per fortuna, è una persona onesta e, guardando i provini, ha ammesso che nessuno di loro avrebbe potuto davvero interpretare Max.

Con Joe Pesci le cose sono andate in modo diverso. Milchan gli aveva promesso il ruolo di Max. Io l’avevo trovato strepitoso in Toro scatenato, ma l’ho avvertito subito che non gli avrei dato quella parte: avrebbe interpretato un altro personaggio a sua scelta. E ci siamo messi d’accordo. Poi, De Niro mi ha presentato una sua amica, Tuesday Weld. In alcuni dei suoi primi film, era bella come Brigitte Bardot. E, dopo i primi provini, era evidente che poteva impersonare il personaggio di Carol…

Sergio Leone

E per i bambini?
Non volevo delle baby star. Solo dei ragazzi spontanei che sapevo come dirigere. Cis Corman, il responsabile del casting, mi è stato di straordinario aiuto…

Come sono andate le riprese con De Niro?
Giusto all’inizio, abbiamo avuto qualche discussione piuttosto animata. Ma ci siamo capiti molto in fretta. Un’intesa rara. Non solo comprendevo quello che voleva, ma mi accorgevo anche di desiderare la stessa cosa. Per fortuna, mi ha affiancato un ragazzo fantastico, Brian Freilino, che mi faceva da braccio destro. Parlava perfettamente sia l’inglese sia l’italiano. La sua presenza ha davvero cementato l’intesa tra me e De Niro. Tutti gridavano al miracolo, anche lo stesso Milchan, che aveva assistito personalmente agli interminabili battibecchi tra l’attore e Scorsese durante la lavorazione di Re per una notte. Con me, non ci sono state discussioni. Un’intesa totale e una fiducia assoluta. Bob rideva quando simulavo le scene. E queste risate erano una vera dimostrazione di complicità.

Per lei, C’era una volta in America è il più italiano dei film americani o il più americano dei film italiani?
Credo si possa dire che è il più americano dei film italiani. Prima di tutto, perché io sono romano e un po’ napoletano. Ho fatto un bilancio della mia vita e di tutta la mia esperienza con quel film. In fin dei conti, è una biografia su due livelli: la mia vita personale e la mia vita da spettatore di cinema americano. Nel dopoguerra, non mi stancavo mai di vedere film. Il cinema era diventato la mia droga. Così, in C’era una volta in America, compaiono degli omaggi che avevo il dovere di fare. Come la scena della charlotte russa sulle scale. È un omaggio a Charlie Chaplin. Non ho imitato un suo film, non ho citato una sequenza girata da lui. È la semplice manifestazione dell’amore che nutro per lui. E mi permetto persino di credere che avrebbe potuto girare quella scena esattamente così…

Sergio Leone con Joe Pesci, De Niro e Woods

Ma prima di parlare in modo più dettagliato del film, ci tengo a dire quanto la versione tagliata svuoti l’opera della sua anima. È stata ridotta a uno sceneggiato televisivo di centotrenta minuti in cui si segue un ordine banalmente cronologico: l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia. Non c’è più il tempo. Non c’è più il mistero, il viaggio, la fumeria e l’oppio. È un’aberrazione. Non posso accettare che mi si dica che la versione originale era troppo lunga. Ha la durata esatta che deve avere. Dopo la proiezione al Festival di Cannes, Dino De Laurentiis mi ha detto che era magnifico, ma che si sarebbe dovuto tagliare una mezz’ora buona. Gli ho risposto che non era nella posizione per parlarmi in quel modo, dato che fa dei film di due ore che sembrano durarne quattro, mentre io faccio dei film di quattro ore che sembrano durarne due. È per questo che Dino non può capire. Ho aggiunto che era il motivo per cui non abbiamo mai potuto lavorare insieme.

Robert De Niro con James Woods

In C’era una volta il West, si raccontava la fine di un mondo e l’inizio di un altro mondo. In Giù la testa, la manifestazione di una malattia. Mi sembra che, per lei, C’era una volta in America rappresenti la fine del mondo…
La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: «Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli». Sì, è la fine di un genere. Sì, è la fine della sicurezza. Sì, è la fine di un mondo. Ma non è la fine di un sogno. E dopo l’uscita del film, ho capito quanto tutto questo fosse vero. Ne sono molto consapevole oggi, in questo autunno del 1986. Ho cinquantasei anni. Quando ho girato il film, ne avevo cinquantadue. E pensavo che stessi facendo qualcosa per le persone della mia età, con il ricordo di determinate esperienze e di un certo cinema. Non mi sbagliavo, perché a quella generazione il film è piaciuto molto. Ma sono i ragazzi di vent’anni ad averlo amato alla follia: alcuni di loro sono andati a vederlo venticinque volte di fila. Ragazzi che non hanno conosciuto quel tipo di cinema e ai quali i nomi di Griffith, Stroheim, Ford e persino di Chaplin non dicono nulla. Ragazzi che avevano solo dieci anni quando è uscito Giù la testa. E mi dimostra che esiste un desiderio naturale di vedere un certo cinema. Ed è questa la speranza!

Il film è anche la storia d’America trasfigurata dal sogno d’oppio?
La particolarità dell’oppio è di essere una droga che fa immaginare il futuro come fosse il passato. L’oppio crea delle visioni su quello che accadrà, mentre gli altri stupefacenti mostrano solo ciò che è stato. Così, mentre Noodles sogna come potrà essere la sua vita e immagina il suo futuro, io – regista europeo – ho la possibilità, grazie all’oppio, di sognare dentro il mito americano. Ed è questo il binomio perfetto. Si procede insieme. Noodles con il suo sogno. E io con il mio. Sono due poemi che si fondono. Poiché, a mio avviso, non è mai uscito dagli anni trenta, Noodles sogna tutto. Tutto il film è il sogno d’oppio di Noodles attraverso il quale io sogno i fantasmi del cinema e del mito americano.

In C’era una volta in America, le donne e il sesso hanno un’importanza maggiore rispetto ai film precedenti…
Era necessario. Non si tratta più di un western, ma di cinema americano, nel senso più globale del termine: sesso, passione, tradimento, amicizia e amore. E poi, oltre a Noodles e al mio sogno, c’è un altro protagonista: il tempo. E il tempo cambia tutto. All’inizio, Noodles è parte del gruppo. Fa dei lavoretti per i ladri più grandi di lui. Fino all’arrivo dell’arcangelo Gabriele, che è Max. E Max gli dice: «Noi ci facciamo ammazzare da soli. Senza padroni». È Max, l’anarchico! E Noodles impara la lezione, tanto che finisce in prigione al posto di tutti gli altri. Passa quindici anni in una cella. Quando esce, non ha cambiato idea. Ma il tempo ha cambiato le cose. E dovrà spingersi fino al tradimento per rimanere se stesso. Perché Max fa parte del sistema ora: sogna la politica, vuole lavorare per il sindacato. Noodles, invece, rimane fedele ai suoi ideali di sempre. Attraverso il sogno d’oppio, certo; ma, come ho già detto, grazie a questo sogno ho la possibilità di dare valore a tutto il mio amore per il cinema, al mito e alla ragione del fare cinema. È qualcosa di complesso. Tanto che non potevo mostrare direttamente la morte di Max alla fine del film. In particolare, non si poteva fare un primo piano di Max quando Noodles se ne va da casa sua. Non in quel momento, visto che il mondo che Max si è costruito ormai serve solo per essere gettato nella spazzatura dell’America di oggi. Non si tratta più di individualismo, ma di sindacato. Ed è la fine dell’idea di libertà.

Robert De NIro con Sergio Leone sul set del film

Data la compresenza di tutti questi sentimenti, ho chiesto a Ennio Morricone un lavoro diverso dal solito. Siamo partiti da una canzone dell’epoca, Amapola. Poi ho voluto aggiungere dei brani ben precisi: God Bless America di Irving Berlin, Night and Day di Cole Porter e Summertime di George Gershwin. Oltre alla musica originale di Morricone e alle grandi melodie del passato, ho aggiunto qualcosa di odierno: Yesterday di John Lennon e Paul McCartney. In modo da toccare alcuni punti essenziali: la nostalgia di un mondo, la lucidità di questa nostalgia nella mia testa, e forse nella realtà… Si applica al mio immaginario.

Peraltro, in questo film, è la pittura di Edward Hopper, Reginald Marsh e Norman Rockwell ad avere un ruolo catalizzatore. Non più Max Ernst o Giorgio De Chirico, com’era stato nel Buono, il brutto, il cattivo. Anche per la scenografia del ghetto è stato necessario recuperare tutta una realtà, sommersa nel passato. Mi hanno proposto di utilizzare le strade in cui Coppola aveva messo in scena Il padrino – Parte II, ma non le trovavo così interessanti. Ho preferito servirmi di alcuni scorci del ghetto, con il ponte di Brooklyn sullo sfondo. Mi emozionavano di più. Oggi, però, in quei luoghi non si trova più il quartiere ebraico. Ci abitano i portoricani e, per questa ragione, mi hanno sconsigliato di girare lì perché troppo pericoloso. Ma non ho ceduto a queste pressioni. E ho avuto ragione, dato che i portoricani non hanno creato il minimo problema. Sono sempre rimasti lì, ma si sono comportati in modo corretto e non ci è stato rubato nulla. Forse perché eravamo italiani. Magari ci hanno persino protetto molto più di quanto pensassimo, ladri intenti a controllare che non ci rubassero nulla!

C’era una volta in America fonde una scrittura classica e una struttura frammentata e moderna.
Ci ha richiesto un lavoro immenso. All’inizio del film, viene fornita una mole di informazioni che lo spettatore riesce a comprendere solo in seguito. Come le ho già detto, tutta la struttura di C’era una volta in America si basa sul tempo. E ci sono anche molte carrellate di cui non è semplice capire il significato, perché non vengono usate per descrivere una città, una strada o un luogo. La camera si muove per seguire un personaggio che si sposta in uno spazio che non è nient’altro che il tempo. Ed è ovviamente meno spettacolare, dato che metto la tecnica al servizio dei sentimenti, non la uso più come mezzo per far scoprire un mondo, una storia o un universo, come nel caso di C’era una volta il West. In quel caso, quando la gru si alzava, mostrava una città che stava sorgendo. Qui, invece, la città c’è già. Dunque non c’è bisogno di mostrarla.

Sono consapevole dell’apparente staticità del film. In realtà, non smette mai di muoversi. Ma questa staticità viene percepita proprio perché riguarda il tempo: tutto si è fermato nella fumeria d’oppio. E tutto parte proprio da lì.

Tutto questo però non esclude il realismo.
Diciamola tutta: in un sogno del genere serve il realismo. Per far sì che la storia funzioni, con così tanta mitologia del cinema, è necessario darle una dimensione documentaristica. Girare come se la cinepresa fosse nascosta. Produrre degli effetti simili a quelli che mi facevano vivere il cinema di una volta. È necessario che sia credibile! Ed è per questo che tutti i luoghi sono reali. Sono andato a cercarli. Anche in questo caso, è stato un po’ come andare alla «ricerca del tempo perduto». La stazione centrale di New York di quell’epoca non esiste più, è stata distrutta. Ma sapevo che si trattava solo di una replica della Gare du Nord di Parigi, e così ho girato quelle scene proprio alla Gare du Nord di Parigi. Le stesse vetrate, le stesse colonne di cemento e di pietra: gli stessi materiali. Stessa cosa per l’hotel di Long Island, dove Noodles porta Deborah. Quel luogo non esisteva più, ma assomigliava molto ad alcuni palazzi di Venezia. Così, ho girato la sequenza a Venezia. È ovvio. Gli Stati Uniti non hanno fatto altro che imitare l’Europa per questo genere di luoghi. Seguendo il mio intuito, ho girato all’interno di modelli originali. Non per snobismo o sciovinismo, ma soltanto perché quell’epoca non si poteva più trovare in America. Tutto è perduto, dimenticato, distrutto… E io, per fare un film sui ricordi e sulla memoria, dovevo ritrovare delle vestigia della realtà. Per rendere in maniera compiuta la mia concezione del mito e del sogno, dovevo lavorare sulla più solida delle realtà. A partire da questo, tutto discendeva a cascata. Il tempo è il protagonista del film e il tempo ha sempre ragione. Ecco perché Noodles ritorna al presente sulle note di Yesterday, attraversando un quadro di Reginald Marsh, con la mela rossa dell’America di oggi. Non si vendono più biglietti dell’autobus, la Hertz ora noleggia automobili per entrare all’inferno. È logico, essendo il mio film anche un viaggio negli inferi.

Il Ponte di Brooklyn a N.Y.

Lei prova un grande affetto verso il personaggio di Noodles?
Ho scritto qualche riga a questo proposito. Gliele leggo subito. Le spiegheranno che rapporto ho con questo personaggio… Ascolti: «Vedevo Noodles bambino nel Lower East Side di New York. Lo vedevo ragazzino al servizio dei gangster. Poi, lo vedevo uccidere dei cristiani con calcolo e passione. Dopodiché, lo osservavo mettersi in gioco da solo per fare una guerra senza successo ai grandi capi del crimine organizzato. Ma Noodles non era Dutch Schultz o Peter Lorre, Alan Ladd o Lucky Luciano, Al Capone o Humphrey Bogart. Nessuno faceva caso a lui: lo sguardo del mondo l’aveva attraversato come se fosse la vetrina di un bar. Era Noodles. Tutto qua. Un trascurabile ebreo del ghetto. Un signor nessuno che aveva tentato la fortuna con un mitra Thompson in mano, nell’era in cui l’alcool era vietato e il gioco della violenza urbana ancora vivo nella memoria. Come migliaia di altri piccoli delinquenti, sopravvissuti alla guerra tra gang, poi rinchiusi dietro le sbarre di un penitenziario, era stato crocifisso su una croce troppo grande per lui. Pure d’estate portava quel cappotto grottesco, tipico del gusto dei gangster. Nonostante il suo fascino abietto e il suo aspetto evocassero l’Actors Studio, quel cappotto ballonzolava intorno a lui. Troppo largo, come se fosse il regalo di un buon samaritano crudele a qualche ubriacone della Bowery. Non gli andava proprio bene. E le cose avevano preso una brutta piega per lui. Tradito, ricercato, disconosciuto, dilaniato, era dovuto fuggire. Ma ero solidale con lui per altre ragioni. Mano armata confermava una mia vecchia idea. L’idea che l’America era un mondo di bambini… Anche Chaplin, a suo tempo, lo aveva dovuto credere. E oggi, sono certo che lo pensi anche il mio amico Steven Spielberg. Noodles era uno di questi bambini. Non un boyscout di Frank Capra, con la vocazione di aiutare Mr. Smith a salvare il mondo. Era piuttosto un bambino che mostrava i denti e stringeva il coltello in tasca. Una specie di Mickey Rooney sfortunato che non avrebbe mai incontrato Spencer Tracy vestito da prete nella Città dei ragazzi…».

Parigi, gard du nord nel 900

La scena in cui Noodles stupra Deborah mi sembra di importanza capitale.
Assolutamente. Durante il Festival di Cannes, una imbecille mi ha accusato di compiacimento misogino e di sadismo antifemminista a causa di questa sequenza. Non aveva capito nulla. Le ho detto che non ero antifemminista ma che, se tutte le femministe fossero state come lei, mi sarei dato da fare per realizzare in fretta un film contro di loro! Ero veramente arrabbiato perché le sue accuse erano del tutto assurde. Questa scena di stupro è un grido d’amore! Noodles ha appena scontato quindici anni in prigione, durante i quali non ha mai smesso di pensare a quella donna che viveva fuori dal carcere. L’ha sempre amata alla follia. E non appena ritorna libero le chiede di uscire insieme. Le racconta tutto di sé… tutto quel che ha fatto! È un gangster di professione, ma il suo amore è così grande che non può nasconderle nulla. La porta in un luogo splendido che affitta per una fortuna… e solo perché lei possa scegliere il tavolo che più le piace. Per restare soli e felici… Lui la ama così tanto che si comporta come un principe. Trasforma quella serata in una favola e le confessa tutto il suo amore. Le racconta quale luce sia stata per lui durante i quindici anni di reclusione. E allora lei gli risponde: «Sono qui solamente per salutarti. Domani parto per Hollywood». Lei sta per andarsene e diventare un’effigie a Hollywood, tornando a essere un’effigie per Noodles! Lui la ascolta in silenzio. Tranquillo. Ha incassato questa terribile lezione senza battere ciglio. Ma ecco che lei in macchina gli dà un bacio di consolazione. Come per dire: «Povero piccolo. Ti do un bacio, visto che sei un po’ arrabbiato con me». A quel punto, Noodles non ci sta. Vuole che parta con un ricordo che non scorderà mai più. E la distrugge con il massimo della violenza. Potrebbe prenderla con dolcezza, violentarla senza brutalità. Lo sa. Lo sente. Lei lo lascerebbe fare. Ma preferisce la brutalità, in modo che lei se lo ricordi per sempre. Pensa che si sia già dimenticata di tutta la bellezza che le ha offerto quella notte. Vuole essere certo che lei si ricordi della violenza del suo atto, ed è la violenza più disperata che possa esistere.

Quando ho girato la loro lotta, ho voluto che si vedesse Deborah abbozzare un gesto di tenerezza nei suoi confronti. La verità affiora così durante il sacrificio. Lei ama Noodles. Capisce tutto. Capisce in particolare che nessuno la amerà mai quanto la possa amare Noodles. E quando, poi, lei lo respinge in nome di Hollywood e della sua carriera, lui cerca di scusarsi per l’abuso compiuto. Per capire meglio questa sequenza, è opportuno conoscere la mentalità di un gangster: è un uomo che ha sempre considerato le donne come oggetti sessuali. Ma stavolta, a dispetto dello stupro, si tratta di una questione di rispetto. Di amore. È l’amore. Ed è il suo sogno più grande, quello che Deborah ha appena mandato in frantumi, annunciando la sua partenza. Era un’effigie. E sta per ritornare a essere un’effigie. In quell’istante di esasperazione, Noodles può conoscere la sua carne. Ma niente di più.

Lei vuole diventare un’attrice. E, in fondo, gli attori non sono che maschere e automi. Sono perduti, si dimenticano della loro identità originaria. E quando la ritrova, trentacinque anni dopo, lei indossa una maschera di trucco bianco. Ora è soltanto l’attore! E Noodles le cita una frase dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare: «L’età non può invecchiarla…». Deborah può mostrarsi solo nelle vesti di un mito, come una rappresentazione dell’attore. Essere attore è come una malattia. Durante le riprese di Giù la testa, ho detto a Rod Steiger: «Che cos’è la tua vita? Interpreti Napoleone. Per un anno, sei Napoleone. Durante i sei mesi successivi, continui a esserlo per via della stampa e della promozione del film. E sei mesi prima dell’inizio della lavorazione, ti sei già immedesimato per prepararti alla parte. Ed ecco poi che passi da Napoleone a uno sbirro testardo per interpretare La calda notte dell’ispettore Tibbs. E diventi questo stronzo di poliziotto per mesi e mesi. Un processo che si ripete senza fine. E più credi nel sistema dell’Actors Studio, più entri nella psicologia dei personaggi che interpreti. Ma dov’è il vero Rod Steiger? Ti ricordi di lui? Mi puoi dire com’è?». E Rod mi ha risposto: «No. La mia vita è questa». Ecco perché gli attori sono bugiardi. La loro malattia li trasporta sempre in un altrove.

Rod Steiger in Giù la testa

De Niro è camaleontico, un uomo che non si nota per strada. Non è un po’ come Noodles?
È un signor nessuno. Per interpretare la parte di Noodles anziano, si è realmente trasformato esteriormente e interiormente. È una cosa che pochi attori sanno fare. E volevo questo realismo di fronte a Max. L’invecchiamento di Woods è, al contrario, volontariamente teatralizzato. La differenza è enorme. Max è invecchiato come in un incubo: è il teatro! Solo Noodles è dentro la realtà.

Perché pensare ancora al Viaggio al termine della notte? Con questo film, lei lo ho già realizzato. Non è d’accordo?
Le confesso che ne sono totalmente consapevole. E le dirò di più. Trovo difficile pensare a nuovi progetti. Già dopo C’era una volta il West avevo parecchi dubbi. Mi domandavo se non stessi per dire addio al mio lavoro. In questo caso, è un po’ diverso perché si tratta di un film prima di tutto sul cinema. Non ci sono solamente la nostalgia e il pessimismo. Ho scritto qualcosa a proposito: «Ai miei occhi, Mano armata era una di quelle palle di cristallo per turisti, con dentro una piccola Tour Eiffel, un Colosseo in miniatura o una mini Statua della Libertà. Si rovescia la sfera e, con fiocchi grossi e fitti, si vede cadere la neve. Ecco che cos’era l’America di Noodles. E la mia. Minuscola, favolosa, perduta per sempre».

Devo aggiungere che questo film rappresenta anche una dolorosa vendetta. Sì, mi sono vendicato di tutto quel che l’America e il cinema mi avevano messo in testa. E riconosco quanto C’era una volta in America sia diverso dalle mie opere precedenti. Questa volta, lavoravo con una lucidità totale sulla direzione di quel che stavo facendo. Nessun interrogativo. Né la minima perplessità. Non avevo dubbi. Ero trasportato in un viaggio del cui corretto svolgimento ero sicuro. Parlo anche della lavorazione. Sono davvero contento di aver aspettato quindici anni per realizzarlo. È stato importante tutto questo tempo. Ci ho riflettuto quando ho visto il film, una volta terminato. E ho capito che, se l’avessi girato prima, sarebbe stato solo un film come gli altri. Ora, C’era una volta in America è il film di Sergio Leone. E io sono questo film. Una pellicola del genere si può fare solo nella maturità, con i capelli bianchi e con tante rughe intorno agli occhi. Non avrei mai potuto realizzarla in questa maniera se l’avessi girata a quarant’anni…”

Sergio Leone (1929-1989) è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano.

LEONE

LEONE

L’ultimo film del regista fu il suo capolavoro ma anche la sua condanna. Un visionario tradito dalla sua America.

Esce per Einaudi un libro di Piero Negri Scaglione intitolato Che hai fatto in tutti questi anni, titolo preso dalla famosa battuta del film “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Un film definito esoterico e inafferrabile come la vita, nell’articolo che pubblichiamo.

“… Sergio Leone, morto nel 1989 per un arresto cardiaco, passò diciotto dei suoi sessant’anni di vita a tentare di realizzare, tra infinite vicissitudini, C’era una volta in America: tanti ne erano trascorsi dall’idea originaria al momento in cui nel 1984 lo presentò al Festival di Cannes. Un’eternità. In un universo parallelo poteva andare in modo molto diverso: Leone avrebbe potuto accettare l’offerta della Paramount di dirigere Il Padrino, ma disse di no; avrebbe potuto fare cento altre cose, tra cui un film sull’assedio a Leningrado, e invece no: “Nel nostro universo non molla mai la presa su C’era una volta in America”, scrive il giornalista Piero Negri Scaglione, che all’opera più celebre del regista ha dedicato un libro da poco uscito per Einaudi, intitolato Che hai fatto in tutti questi anni. La frase viene da una battuta del locandiere Fat Moe: Noodles/ Robert De Niro riappare a New York, e lui rivedendolo gli chiede cos’abbia fatto nella mole di tempo in cui non è stato lì, vale a dire da quando, trentacinque anni prima, aveva lasciato la città dopo la morte dei suoi amici e soci in affari (Noodles risponde “Sono andato a letto presto”, citazione di Proust). Ma la domanda è rivolta anche al regista, ovunque sia, e in copertina è senza punto interrogativo perché a raccontare quel grande sogno ci pensa Negri Scaglione, che a sua volta ha investito nella biografia (questo è) di C’era una volta in America dieci anni di lavoro, e lo definisce “un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita”.

Sergio Leone

Per Leone, il sogno si mette in moto mentre sta lavorando al montaggio de Il buono, il brutto, il cattivo, quando Giuseppe Colizzi, che desidera collaborare con lui, scova in un’edicola di Roma il romanzo Mano armata di Harry Grey ( pseudonimo di Herschel Goldberg) e glielo fa leggere. E’ una storia di gangster ambientata in pieno proibizionismo: si dice sia il racconto autentico della vita di Grey. Qui il vero Noodles, ebreo newyorchese, scrive del suo passato da malavitoso nel Lower East Side, della banda formata con gli amici di sempre, dell’amore per Dolores ( che nel film diventa Deborah), del ritorno dal riformatorio e degli anni passati a gestire una serie di speakeasy, i locali segreti in cui nella New York dell’epoca era possibile bere alcolici. Poi un giorno cambia tutto: Max, che degli amici è quello a cui Noodles è più legato (sono la vera metà l’uno dell’altro), si mette in testa di fare le cose in grande, e l’impalcatura inizia a precipitare, fino alla morte sua e degli altri membri della banda.

Il film di Sergio Leone è insieme quella cosa lì e un’altra dalla natura molto più profonda, una vicenda circolare fatta di continui salti in avanti e all’indietro; lui lo descriveva come un’autobiografia su due livelli, in cui c’erano la sua vita personale e la sua vita di spettatore di film americani. Dice Negri Scaglione: “E’ l’america che tutti abbiamo immaginato, alcuni sognato, della quale l’eroe (o antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi. Da lui dipende il nostro destino”.

Leone a un certo punto definisce C’era una volta in America un progetto maledetto, ma chi lo conosce bene sa che non smette mai di pensarci: si alza la mattina e medita sul suo film, va al cinema e non bada a ciò che ha davanti perché in mente ha il suo film, gli accadono i giorni, i mesi, il tempo lineare, e qualunque cosa stia facendo, nella sua testa sta sempre girando C’era una volta in America. Poteva la vita essere sufficiente? Il libro di Negri Scaglione, frutto di un lungo lavoro di ricerca pieno d’amore, contiene molti racconti delle tante persone che contribuirono alla realizzazione di questa opera- mondo, anche tangenzialmente. C’è per esempio la testimonianza dello sceneggiatore Ernesto Gastaldi, che a Leone disse di no, no che non poteva prendere e partire per quel lavoro pazzo: doveva stare vicino ai figli piccoli e alla moglie attrice Mara Maryl, perché lei per la famiglia aveva rinunciato a recitare con Roger Vadim. “Leone sapeva che sarebbe morto presto”, racconta Gastaldi. “Mi ha detto che aveva una crepa nel cuore, una fessura minuscola, che gli avevano proposto il trapianto, all’epoca parecchio pericoloso, e aveva rifiutato”. Forse è a questo che serve, una crepa nel cuore: a sentire la morte che arriva e a infischiarsene, o meglio, a usarla come razzo propulsore e a non avere più scuse. Lo scrittore hawaiano Kawai Strong Washburn dice: scrivi come se sapessi che un giorno dovrai morire. Vale per tutte le vite in cui si crea. La consapevolezza della mortalità, che quasi nessuno ha davvero, quando arriva costringe a fare i conti con ciò che si vuole lasciare a chi rimane. E Leone non voleva andarsene da questa terra senza aver finito C’era una volta in America. Il film viene scritto a pezzi, a più riprese: Leone chiede a Leonardo Sciascia di occuparsi della sceneggiatura, Sciascia ci pensa e alla fine rifiuta. Poi si cerca a lungo un americano. Per un periodo ci lavora Norman Mailer, ma la sua bozza viene giudicata orrenda, illeggibile, “ai limiti dell’horror”, così Leone la getta via e inizia a mettere insieme una squadra di sceneggiatori italiani. Uno di loro è Franco Ferrini, di La Spezia, giovane critico della rivista “Cinema e Film”. Sarà lui a farsi venire in mente la ragione per cui Noodles torna a New York: lo convoca la sinagoga, a riscattare le tombe degli amici morti. “Non fu una passeggiata di salute”, racconta Ferrini a Negri Scaglione, guidandoci in quel periodo concitato. Poi però: “Ho fortuna, mi viene la tonsillite. Mi metto a letto e posso pensare tranquillamente”. Ed ecco che anche un malanno diventa una gioia, e in quei giorni spesi a letto si fa strada l’idea giusta ( lo spunto era stato un problema simile accaduto in famiglia, la tomba di una zia che andava spostata).

Gabriella Pescucci, costumista che ha lavorato con Pasolini, Fellini, Visconti, e ha vinto un Oscar per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, di Leone ricorda il senso della bellezza. “Ne ho conosciuti pochi di registi come lui. Non l’avresti mai detto, a vederlo così, un corpaccione di uomo che voleva fare il duro e forse per tanti aspetti lo era. Ma era soprattutto un esteta”. Leone convocò Pescucci qualche mese prima dell’inizio delle riprese, e lei nel libro racconta il loro primo incontro. “Mi chiamò, io andai nella villa all’eur, sua figlia Raffaella mi portò nello studio del padre. Sergio aveva sempre un’aria molto brusca e io timidamente misi subito le mani avanti: guardi, signor Leone, si dice che sul set lei tratti male la gente. Io l’avviso: sono molto permalosa, se lei mi tratta male non mi vede più. Lui si mise a ridere”. Chi lo conobbe allora descriveva i suoi occhi come più vivi che mai. “Nei decenni che verranno la vista del Manhattan Bridge da Washington Street apparirà negli album di ricordi di ogni turista”, dice Negri Scaglione della celebre inquadratura girata a Dumbo, Brooklyn, che oggi fa da sfondo a centinaia di foto al giorno. “E’ una visione che ha avuto per primo, forse in sogno, un regista italiano, anzi romano, cresciuto a Trastevere sui 126 scalini di viale Glorioso”.

Claudio Mancini, che della più grande avventura di questo romano fu produttore esecutivo, ha raccontato: “Dopo che ho lavorato con lui non è più stata la stessa cosa. Mai più. Sergio era un gran lavoratore, un visionario, un grande bugiardo, il che non guasta mai”. Un visionario lo era sempre stato, uno che immaginava e girava tutto nella sua mente, prima che su pellicola. E a chiunque abbia visto e amato C’era una volta in America, che inizia e finisce nello stesso momento, in una fumeria d’oppio, rimane il dubbio: e se fosse tutta un’allucinazione, un viaggio onirico? Qui il tempo è, insieme al sogno, un elemento fondamentale, il cerchio che tiene unita ogni cosa. Leone spiegava che il suo era “un film tessuto sui ricordi, autunnale, girato nella notte del cinema”, e per averne prova basta soffermarsi sulla fotografia di Tonino Delli Colli, che per rispondere al desiderio di marrone e di buio del regista è giocata tutta sul seppia nell’infanzia, su colori neutri nella vecchiaia, e su tonalità nere e metalliche nell’epoca di mezzo in cui Noodles, Max e i loro amici sono gangster in piena attività. E’ vero: l’autunno è sempre presente. Quanto al sognare, Leone sognava in grande, perché sapeva da quando si era messo in testa quest’idea che sarebbero serviti molti milioni di dollari, tanto che più di un produttore gli aveva detto di no. Almeno fino all’arrivo dell’israeliano Arnon Milchan, e poi della Ladd Company (finanziata dalla Warner). L’entrata in scena degli americani era la realizzazione di un grande desiderio, era la visione del regista di viale Glorioso divenuta all’improvviso viva e dorata. Fu però anche, in un certo senso, la sfortuna del film, almeno per quel che riguarda l’uscita in sala negli Stati Uniti e la crepa che da tempo attendeva nel cuore di Sergio. Quando il girato fu pronto per il montaggio, divenne chiaro che bisognava tagliare, che il regista aveva in mente una cosa troppo grande e lunga, e questa cosa andava ridimensionata. La Ladd Company voleva un film di due ore e mezza, Leone non aveva intenzione di scendere sotto le tre ore e quarantacinque minuti, anzi pensava a una versione in due segmenti di tre ore ciascuno da mandare in sala separatamente. Al montaggio si lavorò per mesi, da mattina a notte.

Il film fu presentato una prima volta a Boston, il 17 febbraio 1984, a una proiezione di prova per un pubblico campione. Si ruppe il proiettore, l’intera serata fu un disastro: Arnon Milchan la ricorda come una delle peggiori della sua vita; tornato in hotel attese le tre del mattino per poter chiamare l’italia, spiegò a Leone che bisognava trovare il modo di salvare il film negli Stati Uniti, il regista rispose che di tagli non ne avrebbe fatti altri. Cercò di mediare anche Robert De Niro, senza risultati.

Da qui la storia di C’era una volta in America prende temporaneamente due strade, una americana e una nel resto del mondo. Andò così: venne presentato a Cannes il 20 maggio dello stesso anno, nella versione voluta da Leone, lunga 218 minuti. Un trionfo, seguito da un quarto d’ora di applausi. A inizio giugno uscì invece in America, all’insaputa di Leone, in una versione di 139 minuti, cioè tagliata di un’ora e venti rispetto a quella curata dal regista (che pure era la cosa più corta a cui secondo lui si potesse arrivare). Non solo: il film era stato rimontato in ordine cronologico, e questo fu forse lo scempio da cui la crepa nel cuore cominciò ad allargarsi. La questione del tempo, dell’andare e venire, della spirale che le tre dimensioni di gioventù, età adulta e vecchiaia costituiscono insieme a quella del sogno, era l’essenza più profonda dell’intera opera. Otto anni più tardi Milchan dirà al New York Times che era stato un grave errore: “C’era chi pensava che il pubblico americano non fosse pronto per un film così lungo. E parte della colpa è mia. Non mi sono battuto abbastanza per salvare la versione completa, ero entrato da poco in questo business. Nel resto del mondo, dove è uscita quella, i critici l’hanno definito un capolavoro. In Europa è stato un enorme successo. Sergio la versione tagliata non l’ha mai voluta nemmeno vedere”.

Il film uscì quindi una seconda volta in sala negli Stati Uniti, otto anni e mezzo dopo il debutto a Cannes. Era un modo per riparare al torto del 1984, ma anche una mossa astuta, poiché nel frattempo in quel paese il film era diventato un culto grazie alle videocassette: messe in commercio senza tagli, avevano fatto guadagnare alla Warner dieci milioni di dollari, e allora perché non riportare C’era una volta in America al cinema nella versione voluta dal regista? Quando successe, nel 1992, Sergio era già morto da tre anni. La crepa nel cuore aveva chiamato e lui l’aveva seguita nello spazio misterioso da cui era venuta. Della sua vita erano rimasti quattordici film, sette da produttore e sette da regista, la moglie Carla, i tre figli, tanti amici e collaboratori. Gastaldi, che a Negri Scaglione ha raccontato il dettaglio della crepa, dice anche che appena seppe della morte di Leone corse a casa sua con l’intenzione assurda eppure netta di discutere con lui, per l’ultima volta, di C’era una volta in America. Un impulso simile lo racconta Joan Didion in L’anno del pensiero magico: uscendo dall’ospedale dopo la morte del marito, aveva fretta di rientrare a casa per poter parlare con lui di ciò che era appena successo.

Forse cose simili accadono quando una parte di noi percepisce che il tempo lineare è solo una fandonia che ci raccontiamo, e che il tempo vero è in realtà un insieme fatto di strati e di pieghe, in cui si può scomparire per poi riapparire di nuovo. Sergio Leone questo l’aveva sempre saputo.

Articolo di Francesca Pellas per il Foglio Quotidiano

Sempre su questo sito il 18 novembre, sotto il titolo L’America di Sergio, sarà pubblicata un’ampia intervista al regista, con i retroscena e le vicissitudini che hanno portato alla realizzazione del film.

THE IRISHMAN

THE IRISHMAN

AL FESTIVAL DI ROMA L’ULTIMA FATICA CINEMATOGRAFICA DI MARTIN SCORSESE ALL’ALTEZZA DELLA SUA FAMA E CON UN CAST STELLARE- UNA SINTESI MIRABILE DELL’ AMBIENTE MAFIOSO NELLA SECONDA META’ DEL SECOLO SCORSO IN USA, FRA AFFARI E POLITICA- A CHI SONO PIACIUTI QUEI BRAVI RAGAZZI E C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA NON SE LO LASCI SFUGGIRE- SOLO IL 4, 5 e 6 NOVEMBRE NELLE SALE, POI NEXFLIX.

“E così è…” dice a un certo punto il boss Russ Bufalino, cioè Joe Pesci, al suo killer di fiducia, Frank Sheeran detto “Irishman”, cioè Robert De Niro. La stessa frase la possiamo dire anche noi alla fine di questo lunghissimo nuovo film di Martin Scorsese, The Irishman, l’unico che davvero aspettavamo di vedere alla Festa di Roma.  “E così è…”. Non so se è davvero un capolavoro come scrivono i critici inglesi e americani, ma certo è un piacere per lo spettatore più vecchio vedere queste oltre tre ore di puro cinema di Martin Scorsese, con una sceneggiatura perfetta di Steven Zaillan, il montaggio della mitica Thelma Schoonmaker, la musica di Robbie Robertson e un cast stellare: Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino, … Ma ci sono anche Harvey Keitel, Stephen Graham, Bobby Cannavale e vecchi amici come Ray Romano, Dominick Lombardazzo.

Non sarà all’altezza dei suoi grandi titoli, ma certo il livello di scrittura e recitazione è altissimo. Basterebbero tre o quattro scene apparentemente insignificanti, come una discussione tra il Jimmy Hoffa di Al Pacino e il Provenzano di Stephen Graham su quanti minuti si può aspettare a un appuntamento prima di incazzarsi, dieci o quindici?, o un’altra in auto su come si tiene il pesce in macchina per non farlo puzzare, e già siamo nella leggenda. Stiamo vedendo un film di Scorsese, no? Ora. E’ vero che i tre protagonisti sono tutti anziani e poco agili, e quando devono fare i giovani l’effetto di re-aging digitale ci lascia un po’ interdetti e non può certo nascondere i movimenti lenti di De Niro e soci.

Ma ci bastano gli sguardi di De Niro quando cerca di mediare tra i suoi boss per non far esplodere l’inferno per scordarci di questi effetti digitali inutili. E più che nostalgia per il cinema mi sembra che ci sia una sorta di addio a quel grande cinema di gangster che Scorsese, de Niro, Pacino e Pesci ci hanno regalato.

In fondo, quasi tutto il film è un po’ costruito sul rimanere a raccontare una storia di gangster, cioè a fare cinema o a ricordare di quando si faceva il cinema, quando non c’è più nessuno di chi lo ha veramente vissuto a sentirti, a discuterne. Inoltre Frank, l’Irlandese, è una tomba. Non parlerà. E allora che senso ha?, gli chiedono due giovani poliziotti. Amici e nemici sono tutti morti. Ma Frank ha una parola sola. Se non la rispettasse tutta la sua vita non avrebbe più alcun senso. Per tutto il film lo abbiamo visto “pitturare le case/paint houses”, cioè colorarle di sangue delle sue esecuzioni, ubbidire agli ordini dei boss della mafia di Philadelphia, e cercare di rimanere fedele a un suo codice morale.

Che verrà messo a dura prova quando si troverà diviso tra l’ubbidienza al suo boss, Russ Bufalino-Joe Pesci, e all’amicizia che lo lega a Jimmy Hoffa, cioè Al Pacino. Tratto dal romanzo del 2003 di Charles Brandt, “I heard you paint houses”, The Irishman è un grande affresco, tra Good Fellas e C’era una volta in America, della malavita americana tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Una malavita così potente che può fare eleggere presidenti, i voti della mafia andarono a John Kennedy, è la tesi del film, in cambio dell’aiuto a riprendersi Cuba e i suoi locali, magari anche ucciderli, controllare i sindacati, come quello dei Teamers, il potente sindacato dei camionisti comandato da Jimmy Hoffa.

 Scorsese spazia nel tempo andando continuamente avanti e indietro. Un lungo piano sequenza ci porta dentro un ospizio dove si trova un vecchissimo e malato Frank Sheeran. E’ Frank che ricorda un viaggio in auto da Philadelfia a Detroit assieme al suo boss, Russ, e alle loro mogli. Un viaggio che non è solo di piacere, devono andare a un matrimonio, ma nasconde dei lavori da portare a termine. Ma anche un viaggio che ci riporta indietro nel tempo, in altri anni e chiarisce, allo spettatore, la strada verso il crimine di Frank, già eroe di guerra in Italia, poi camionista, poi killer professionista. Frank non ha mai un cedimento, mentre la sua famiglia, soprattutto la figlia Polly, incomincia a vederlo con terrore.

L’incontro con Hoffa, Frank è l’uomo che la mafia gli mette come protezione, sembra aprirlo a una vera amicizia, ma Hoffa non si piegherà a tutti gli ordini degli amici degli amici. Inutile dire quanto siano ancora meravigliosi De Niro, Pacino e Pesci, quanto Scorsese ancora si diverta a costruire sequenze di grande tensione con continue invenzioni di messa in scena. Non è più il tempo di Good Fellas, non ci piacciono gli effetti digitali, può anche non piacerci Netflix e la sua politica cinematografica, potete trovare invecchiato De Niro, ma l’unica cosa che si può dire di questa meraviglia è solo “E così è…”.  In sala in Italia per soli tre giorni, 4, 5 e 6 novembre e poi su Netflix dal 27 novembre.

Articolo di Marco Giusti per Dagospia

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