UNA RIFLESSIONE INEDITA SULLA CURA

UNA RIFLESSIONE INEDITA SULLA CURA

Gli sgorgano dal petto in ospedale. Cominciò con Nascita, 18 anni fa. La scrisse con la matita su una garza, mentre la sua unica figlia partoriva Tommaso, il primo di cinque nipoti. Il professor Gianpaolo Donzelli, pediatra, non è mai andato in cerca di titoli strani per le poesie. Si è guardato attorno: Prognosi, Fleboclisi, Morte in culla, Cremazione. Mario Luzi volle pubblicarle nella propria collana. La Harvard medical school di Boston le ha adottate come testi per gli studenti. È affezionato a Incubatrice. Mi recita i primi due versi: «Stanza di vetro senza favole / labbra avide di seni fantasmi».

Prof. Gianpaolo Donzelli

Donzelli vive nell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze dal 1975. È stato per 20 anni il primario della terapia intensiva neonatale. «Oggi non ricevo più chiamate alle 2 di notte». Dal 2015 è il presidente della Fondazione Meyer, conosciuta nel mondo intero per questo complesso che il marchese russo Giovanni Meyer, originario di Pietrogrado, volle erigere nel 1884 per onorare le ultime volontà della moglie Anna Fitzgerald, morta di leucemia nel 1883, a 32 anni. I posti letto del Meyer sono costantemente occupati da 250 bambini e la Onlus, che vede fra i consiglieri il presentatore Carlo Conti, l’imprenditore del caffè Giuseppe Lavazza e la vedova del tenore Luciano Pavarotti, Nicoletta Mantovani, deve preoccuparsi di far quadrare i conti.

Ma il medico poeta crede più nella potenza della parola che in quella del quattrino. Così ha convinto Elisabetta Sgarbi, che dirige La nave di Teseo, a varare con lui una nuova collana, La cura, e a compiere un azzardo: mandare in libreria due saggi nel giro di 15 giorni, Medicina inedita ed Esperienza della malattia e spiritualità. «Venne qui sei anni fa, in visita privata. Mi parlò della madre Rina, molto malata. M’invitò alla Milanesiana. Da allora siamo rimasti amici».

C’entra «La cura» di Franco Battiato?

«Certo. “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore”. La canzone è diventata l’esergo del primo libro, che firmo con il sociologo Pietro Spadafora. “E guarirai da tutte le malattie perché sei un essere speciale. Ed io, avrò cura di te”».

Suona di buon auspicio.

«La cura è femminile, non maschile. È la madre. L’ho imparato in Africa».

Dove?

«A Tosamaganga, 600 chilometri dalla capitale della Tanzania. Ci arrivai da obiettore di coscienza nel 1976. Due anni in un ospedale governativo che serviva un territorio ampio quanto la Toscana. Anche se non sono portato per la manualità, facevo di tutto: interventi chirurgici d’urgenza, tagli cesarei, cure ai grandi ustionati. Per assistere le donne gravide avevo solo lo stetoscopio ostetrico in legno, con cui ascoltavo il battito fetale. Le interrogavo in kiswahili: si muove il bambino? Nessuna mi rispondeva».

E come mai?

«Lo chiesi a suor Sara, africana. Replicò: “Ma tu cosa domandi, dottore? Devi dire: nachesa mtoto ndani tumbo yako? Gioca il bambino nella tua pancia?”. Che lezione. Io ero saturo di una medicina concentrata sulle molecole, invece quelle madri erano in relazione con i figli».

La collana La Cura si prefigge di recuperare nel dibattito pubblico con sguardo innovativo diversi temi legati alla crisi dei sistemi sociali, vuole parlare a tutti e non solo agli specialisti, di una medicina sobria, giusta, attenta al malato prima che alla malattia, in grado di rispondere alla domanda inedita di salute in chiave autenticamente salutogenica, perché qualità di vita e giustizia sociale sono garantiti, specialmente per le persone più fragili, solo grazie al corretto comportamento di tutti.

Quando scelse di fare il medico?

«Al liceo scientifico. Decisi che avrei speso bene la mia vita, che sarei andato in profondità nell’aiutare gli altri. Quando insegnavo all’università, spronavo i miei studenti: imparate a essere medici! C’è una bella differenza tra l’essere laureati in medicina e l’essere medici».

Il concetto è chiaro.

«Lo capii in Tanzania, dopo un intervento complicato. Non c’era lì un collega anziano al quale chiedere: ho operato bene? Conclusi da solo che non ero stato affatto bravo. Il paziente morì. L’indomani la famiglia si presentò con un cesto di frutta. Mi ringraziava per essere stato medico. Fu uno dei momenti più dolorosi della mia vita. Ci penso di continuo».

Il neonatologo e poeta Gianpaolo Donzelli, presidente della Fondazione Meyer

Perché si orientò sulla pediatria?

«Me lo sono chiesto tante volte e non ho ancora trovato una risposta. Però ero sicuro che sarei entrato in contatto con i piccoli pazienti solo se avessi ritrovato dentro di me il bambino che ero stato».

Impresa ardua. «Il più morto dei morti è il fanciullo che fui». Georges Bernanos in «I grandi cimiteri sotto la luna».

«Ci sono riuscito con i neonati gravi, rianimandoli. Cioè ridandogli l’anima».

Altre doti richieste a un pediatra?

«Accoglienza, gentilezza, sensibilità. E una grande conoscenza dell’internistica. Un prematuro non ti descrive i sintomi».

L’architetto Adolfo Baratta ha detto del Meyer: «Questo è un ospedale che non sembra un ospedale».

«È fatto in modo che il bambino continui a vivere da bambino. Abbiamo lasciato decidere ai ragazzini la tipologia delle stanze. Le hanno scelte doppie, con i letti per due ricoverati e per due mamme e i bagni separati. Negli altri ospedali abbonda il laminato, che si pulisce in fretta. Qui c’è solo legno. Gli adolescenti oncologici si svagano con il doppiaggio dei film, assistiti da professionisti in uno studio attrezzato. La vita continua».

Pensa mai ad Anna Fitzgerald Meyer?

«Vado a trovarla nel Cimitero evangelico agli Allori, lo stesso in cui è sepolta Oriana Fallaci. Riposa accanto al marito. Il Meyer vuole restaurare le loro tombe».

Alla vostra benefattrice sarebbe piaciuta la collana La cura?

«Penso di sì. Se mi affaccio alla finestra del mio tempo, vedo il primo giorno di scuola, la festa di laurea, il matrimonio. Ma il tempo della malattia segna la vita più di qualsiasi altro evento. E noi medici che facciamo? Lo sprechiamo. Non ascoltiamo. In questi giorni ho letto un’indagine svolta in Europa tra i dottori di famiglia. Spiega che quando il paziente comincia a parlare, viene fermato dopo 18 secondi. Questa è la media».

Sconfortante.

«Ai miei allievi dicevo: in reparto, vedete ma non vi vedono, ascoltate ma non vi ascoltano. Fantasmi, ecco che cosa siete per i malati. E domandavo: chi è il primario? Loro: “Quello che decide la terapia”. No, è colui che parla meno con il paziente mentre fa il giro mattutino in corsia. Ha dimenticato che la parola dà conforto, è la prima cura. Io parlavo ai neonati anche se non mi sentivano».

Un po’ come mia moglie, che sussurra alle foglie delle gardenie e dei limoni.

«Sua moglie ha capito molte cose, dovrebbe insegnare medicina. Non è buonismo, non è romanticismo: è scienza».

Che cosa glielo fa credere?

«Il fatto che la scienza ha due velocità. Una è quella, altissima, fatta di laboratori, cellule, geni, vaccini. L’altra è quella delle emozioni. Chiedevo agli universitari: qual è il farmaco che il medico dà sempre? Risposta: “Il più venduto in Italia, la Tachipirina”. Sbagliato: sé stesso. Quella è la prima medicina. E infatti a un prematuro di sette mesi, sigillato nella culla termica, bisbigliavo: ciao, piccolino, hai visto che sono venuto da te?».

Come vivono la malattia i bambini?

«Pensi al Grande Inquisitore di Dostoevskij. Difficile dare, e darsi, risposta». Manuela Belingardi, volontaria fra i malati terminali all’Istituto oncologico europeo di Milano, mi rispose così: «Urlano. Impazzivo nel sentirli piangere di notte e implorare straziati di non fargli l’iniezione. Il professor Umberto Veronesi, a forza di veder soffrire, è diventato ateo. Il dolore ti fa pensare al vuoto».

«Il pensiero si ferma. Non riesce ad andare oltre. Posso solo affidare queste creature al Signore».

Un devoto nella città che detiene il record di logge massoniche, ben 48, pare.

«Mi sopportano. Al Meyer c’è da sempre un’area detta Spazio per lo spirito. L’iscrizione all’ingresso è mia: “Lo Spirito entra negli spazi e unisce gli animi”. Accanto zampilla una sorgente d’acqua».

Crede davvero che la spiritualità curi?

«La vita e la morte sono la stessa cosa, vista da lati opposti, insegna il saggio Lao Tzu. Ma il forte dualismo fra corpo e anima in Occidente reprime la spiritualità. In Africa ho imparato che la capacità di prognosi dei genitori supera quella del medico. Erano loro ad avvertirmi che il figlio li stava lasciando. Ritmavano il kilio: “Canto della vita e della morte / in ogni stagione i venti caldi / o freddi assistono al germoglio / o al distacco del frutto”. Mi fa tornare in mente le parole dette dopo la cremazione da una madre, che qui al Meyer aveva perduto un bimbo di pochi mesi: “Non avrei mai creduto che le ceneri potessero piangere”».

Lei siede del Comitato nazionale per la bioetica. Che posizione ha sul fine vita?

«La fine appartiene solo alla persona. Scegliere se essere sottoposti o no a cure intensive è un diritto inalienabile. Ma in Tanzania ho visto che il confine è labile».

Si spieghi meglio.

«In ospedale c’era uno stanzone per i sorua, i bambini che morivano di morbillo. Li perdevo tutti, perché a quei tempi non esisteva la vaccinazione di massa. Una fine orribile. La complicazione più frequente era la laringite, che ostruiva le vie aeree fino a soffocarli. Non avevo né cortisone né bombole di ossigeno. Una notte entrai e vidi una madre che premeva la sua mano sulla bocca del figlio. Le gridai: ma che fai? Rispose: “L’ho aiutato a nascere, lo aiuto a morire”».

È mai stato ricoverato in ospedale?

«Sì, per una settimana, alla Fondazione Opera San Camillo di Milano. Mia figlia mi aveva scoperto per caso un nodulo. Contavo a una a una le parole che uscivano dalle labbra dell’oncologo. Speravo che mi afferrasse il polso per tranquillizzarmi. Avrei voluto raccontargli di me. Invece… Il sistema ormai si è organizzato così. Mette al centro l’organo malato anziché l’individuo. È raro trovare un medico che ancora palpi la pancia del paziente. Prevale la medicina difensiva. I due sospettano l’uno dell’altro. I tribunali pullulano di contenziosi tra chi ha ricevuto e chi ha dato. È mai possibile?».

Intervista di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

Su questo sito puoi trovare due interventi di Gianpaolo Donzelli alle seguenti pagine: https://www.ninconanco.it/meyer/ e https://www.ninconanco.it/il-discredito-e-la-paura/

Segue il video della conferenza di presentazione al 37 TFF di VACCINI, il film di Elisabetta Sgarbi.

MEYER: PROTEGGERE I BAMBINI IN TUTTO IL MONDO

MEYER: PROTEGGERE I BAMBINI IN TUTTO IL MONDO

Have we lost our humanity?. Questo è l’interrogativo che campeggia nell’ultima copertina del Times.

Il prof. Gianpaolo Donzelli me la mostra sconsolato. Sulla copertina compare la foto straziante dei corpi di quattro bambini, composti alla meglio, irrigiditi dalla morte in pose quasi fetali. Sono le ultime, piccole, innocenti vite spezzate dalla guerra di Assad in medio oriente.

“Queste immagini sono un brusco risveglio alla realtà. Più che paura, noi che stiamo nelle nostre comode case- per usare le parole di Primo Levi- dovremmo sentire vergogna.”

Il prof. Donzelli è ordinario di pediatria all’Università di Firenze e presidente della Fondazione Meyer, dove ci troviamo. L’ospedale Meyer, inaugurato nel lontano 1891 è una delle strutture più avanzate al mondo in campo pediatrico. La Fondazione nasce nel 2000 per supportare l’ospedale nell’attività di comunicazione, marketing e raccolta fondi, per migliorare l’accoglienza a malati e famiglie, per sviluppare iniziative di ricerca a carattere scientifico e rapporti di collaborazione in tutto il mondo.

Professore, avete accolto piccoli profughi malati o feriti, in questi anni?

“Sì, lo facciamo, quando l’intervento di una struttura come la nostra è necessaria. Oltre allo staff medico abbiamo mediatori culturali, psicologi, animatori, momenti comunitari il cui obiettivo e agevolare la ripresa del paziente, l’affiatamento, ma soprattutto stimolare la risposta psicologica ed empatica per accelerare la guarigione”

Come reagisce, prima che come medico come uomo, di fronte a questi poveri ammalati?

“Io non riesco, anzi non voglio assuefarmi. Dov’è la nostra umanità ci chiede il Times, a  cos’è ridotta? La cronaca di tuti i giorni ci parla del fenomeno degli immigrati e dei troppi morti per fame, sevizie o annegamento, lungo il calvario di questa strada della speranza che è il nostro Mediterraneo. Le professioni di chi si occupa della salute sono oggi di frontiera, esposte quindi a nuove complessità e rischi sconosciuti ad altre.

Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer. Pet therapy. ©Dario Orlandi per AOU Meyer.

Non potevamo rimanere indifferenti, né inerti, anche stimolati dagli esempi di altruismi, quando non di abnegazione, offerti da uomini e collegi a noi vicini, come il medico lampedusano Pietro Bartolo. Cerchiamo di fare il nostro dovere, di mettercela tutta, con la coscienza ognuno farà i conti dopo…”

Torniamo ai malati, a quelli gravi, a volte ad esito infausto. Con le famiglie come vi comportate?

“In primo piano sta il rapporto con i familiari dei pazienti e il loro pieno coinvolgimento nel percorso di cura. La cura include organicamente tutte le metodiche che l’approccio dalle medical humanities ci suggerisce. Ai famigliari assicuriamo l’accoglienza in nostre strutture dedicate, un colloquio costante di informazione e partecipazione e tante altre cose ancora” .

Mi faceva cenno prima anche a tecniche organizzative interne che mi mirano al miglioramento continuo dell’offerta sanitaria…. 

“Le strutture ospedaliere, a fronte di una crescente domanda, hanno il dovere di essere più efficienti ed efficaci, cioè fare di più e meglio quello che fanno. Il lavoro in équipe, una linea corta di comando e chiara nella responsabilità, la comunicazione organizzativa appropriata, sono essenziali. Da anni oramai presentiamo nel corso dell’accontability day il bilancio sociale, che non è solo il segnale di un’esigenza crescente di partecipazione degli operatori dell’A.O.U. Meyer e dei cittadini alla vita della Fondazione, ma diviene un potente strumento di allargamento del consenso sociale e di efficace diffusione del ruolo assolto per la collettività. I numeri parlano da soli: la Fondazione riceve ogni anno 9 milioni di euro dai benefattori, mentre 155 mila contribuenti ci destinano il 5 per mille”

Una delle sue ultime iniziative di sviluppo delle attività della Fondazione è stata la creazione del Centro studi Mayer. Che cos’è?

“Il Centro Studi della Fondazione nasce il 20 maggio 2015 con l’obiettivo di sviluppare, con e per l’ospedale, tematiche di crescita ed approfondimento culturale sul tema del bambino e della famiglia. Il suo fine è quello esprimere, sviluppare e promuovere attività culturali, nel campo delle arti visive e letterarie che affianchino e qualifichino l’attività della Fondazione fornendo all’Ospedale uno stimolo di riflessione e crescita. Questo ci ha permesso di allargare molto la nostra ottica, comprendo negli aspetti della cura elementi dal carattere non solo riparativo, ma più spiccatamente prevenzionale.”

Infatti, le nuove ricerche e gli studi sul benessere includono sempre più aspetti psicosomatici ed emozionali. Oggi le parole prevenzione e educazione alla salute possono trovare alleati insospettabili.

“Certo, il benessere così come inteso dall’OMS è qualcosa di ben più complesso che l’assenza di malattia. Lo stesso Istat, col suo indice BES, da tempo monitora l’insieme dei fattori socio-culturali, ambientali e di reddito che, com’è oggi comunemente accettato, hanno diretta influenza sull’insorgere delle patologie e sul loro decorso. Certo, il medico da solo non può incidere su tali fattori, ma deve conoscerli e con l’aiuto di altre figure professionali, tenerne conto. L’ottica è insomma cambiata. Anche in questo caso è in gioco la nostra sensibilità storica all’evoluzione della sofferenza e della malattia, che implicano sempre più capacità di ascolto, di vedere il malato e non la malattia, di offrire prestazioni sempre più personalizzate, coerenti con il vissuto personale e le legittime aspettative.”

E il progetto Bambini nel mondo?

Va avanti, ovunque c’è un bambino che soffre ci deve essere chi se ne prende cura. Abbiamo rapporti e collaborazioni in diversi continenti e nelle aree più svantaggiate. Scambio di esperienze, supporto e attività formativa del personale in loco, ecc.”

Da un paio d’anni lavorate con artisti, pittori e letterati, soggetti inediti per un ospedale. L’abbiamo vista sul palco con la Elisabetta Sgarbi…

“Ah,…lei allude alle iniziative che abbiamo preso in collaborazione con la Milanesiana, manifestazione ideata e gestita dalla Sgarbi. La Fondazione Meyer ha ritenuto di inserire nei suoi programmi di sviluppo, la collaborazione di interlocutori qualificati nel campo delle scienze umanistiche e, in particolare, della letteratura e dell’arte. La convergenza è stata naturale. Non dimentichiamo che siamo a Firenze e operiamo in una realtà regionale e cittadina naturalmente portate per l’arte e storicamente all’avanguardia nel culto del bello e di tutto ciò che di spirituale è offerto per l’edificazione della persona. Ma già prima avevamo lavorato con la Fondazione Collodi e col tenore Andrea Bocelli”.

Com’è stato visto l’irrompere sulla “scena”, al posto o accanto ai camici bianchi, di artisti e pittori?

“Molto positivo. L’esperienza del 2016 con Eduard Carrey lo scrittore-pittore americano che ha esposto le sue opere ed è stato nostro ospite per una settimana è piaciuta. Come preannunciato, il diario di quell’esperienza, a contatto con i ricoverati e le loro famiglie, sarà alla base del libro che Carrey sta scrivendo e motivo di riflessione per noi quando lo leggeremo. Il 20 giugno 2017, giornata mondiale del migrante, abbiamo presentato a Palazzo Medici Riccardi in Firenze la mostra dell’artista Giovanni Iudice dedicata proprio al tema col quale abbiamo aperta la conversazione, quello dei rifugiati e dell’immigrazione.”

Crede anche lei nel potere corroborante e terapeutico dell’arte?

Visita ai malati dei nazionali di calcio. Si distinguono Buffon, Balotelli e Cassano

“Il potere liberatorio, consolante, distensivo se non sempre rasserenante, che l’arte riveste è troppo noto e commentato da sempre. Creatività e salute, è un binomio che io credo sia inscindibile. Ecco perché chi si occupa di malattie e malati non dovrebbe mai dimenticare che della malattia individua (forse) i segni, mentre il malato è lì – davanti alla sua coscienza di uomo e professionista- con le sue paure e le sue speranze, con un progetto di vita che va indiscutibilmente ben oltre la malattia che porta. Mi tornano allora alla mente le parole di Albert Camus: “creare è dare forma al proprio destino”. I nostri ragazzi malati, a contatto con gli artisti, le forme dell’arte e del bello sono aiutati a recuperare serenità, a sperare e impegnarsi per dare al proprio destino la forma agognata del benessere e della libertà interiore. Magari inconsapevolmente, magari indotti, magari suggestionati, certamente presi nel profondo, perché l’esperienza estetica, la parola scritta, non parlano dalla superficie delle cose, ma partono dal cuore e arrivano al cuore. Chissà che un domani, da adulti, questi nostri ragazzi non possano dire, parafrasando Montaigne, che “non sono stato io a fare la malattia, ma la malattia ha contribuito tanto a fare me”.

 

Stupore della nascita

Stupore della nascita

Il neonatologo e poeta Gianpaolo Donzelli, presidente della Fondazione Meyer

Il neonatologo e poeta Gianpaolo Donzelli, presidente della Fondazione Meyer

 

Fecondazione artificiale

Le piante non danno i germogli voluti.

Dai rami secchi non nascono foglie.

L’artificio accende i colori.

Diversi sono i baci e gli abbracci,

evaporano i sapori.

I giorni si contano, sconfiggono

il destino, annunciano il prodigio

della luna piena.

 

Prognosi

Improvvisa, severa la grandine

Il libro Stupore della Nascita

Il libro Stupore della Nascita

si abbatte sulla pianta appena nata.

La luna lascia spazio al sole ora basso.

Ruvide mani toccano

i rami elastici piegati e spezzati.

La mente esperta

studia il male e prevede il futuro.

Vasti sono il tempo e lo spazio.

La luce degli occhi, divenuta tenue,

tornerà a risplendere. Sulla terra gelata

erba e grano vivranno. Nessuna nascita

è davvero perduta.

 

Poesie tratte da Stupore della nascita di Gianpaolo Donzelli, Passigli Poesia, Firenze, 2012. Per gentile concessione dell’autore.

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