In ricordo di Mario Monicelli: “Il cinema non produce arte, al massimo cultura. Il mio cinema non aspira a verità massime né a piacere a tutti.”
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Mi piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del 1915, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì.
Io volevo essere un romanziere o un poeta: mi capitò intorno ai diciassette anni di leggere Gogol’, Le anime morte ,e allora capii che era meglio abbandonassi quest’idea di fare lo scrittore e ripiegai su una cosa assai più modesta, che è il cinematografo. Con il cinematografo puoi dividere la responsabilità con gli attori, per esempio, e dare anzi tutta la colpa a loro se una cosa è venuta male, oppure al direttore della luce, allo scenografo e soprattutto agli sceneggiatori. E ho avuto una vita più serena.
È dal 1934 che lavoro nel cinema. Da troppo tempo perché non sia viziato. Sono un regista accentratore, che sceglie i soggetti, li scrive, cura la sceneggiatura, sceglie gli attori eccetera.
Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho cercato di farlo attraverso la letteratura, poi mi sono accorto rapidamente che non era cosa. Ho provato con la musica, e anche lì mi sono accorto rapidamente che non era il mio campo, e allora ho scelto come ripiego il cinema.
I miei maestri sono gli autori delle farse, i cortometraggi non più lunghi di dieci minuti che quando ero bambino si mettevano in coda ai filmoni con Rodolfo Valentino, Mary Pickford o Douglas Fairbanks. Ufficialmente le farse erano anonime, ma gli autori erano i giovani Charlie Chaplin, Buster Keaton, King Vidor o John Ford che facevano il loro apprendistato come oggi si fa girando spot pubblicitari. Per me sono stati una scuola impagabile: di tempi comici, di psicologie secche, non troppo elaborate ma credibili, e anche di fantasia e di capacità di astrazione… Non c’è niente di cui non si possa sorridere. In ogni tragedia, anche nella guerra più atroce, c’è il grottesco, c’è l’umanità degli individui, con le loro debolezze, i momenti di tenerezza, anche con il dolore.
Da ragazzi si andava in questi cinemetti dove lo schermo era una parete bianca dipinta malamente, e lì si svolgevano delle vicende… cose meravigliose: battaglie, amori, cavalli in corsa… Io non capivo bene, ero bambino, cinque o sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse roba vera o una finzione. Era una cosa magica, meravigliosa… Io allora ero talmente affascinato che volevo entrare in quel mondo, ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi fare: l’attore, il regista o chissà che… volevo entrare lì nel mezzo; per fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto umili: l’attrezzista, l’aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono infilato lì e ci son rimasto tutta la vita.
Non ho mai provato a scrivere un film da solo: mi annoierei. Fra noi sceneggiatori c’era un senso di bottega artigianale molto importante. Scrivevamo i film su misura per gli attori, com’è nella tradizione del teatro: anche Goldoni scriveva le sue commedie per questo o quell’Arlecchino, per questa o quella Mirandolina; e così faceva Shakespeare.
Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Fellini cosa vuoi imparare? Non impari niente, perché o sei lui, oppure lasci andare. Cosa vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Si impara con quelli che fanno le stupidaggini, sennò non impari. Impari, casomai, l’atteggiamento, un certo tipo di serietà oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio quello che stai facendo.
Aveva ragione Longanesi che raccontava di Rossellini, il quale si lamentava: “Ora non si possono più fare bei film… Allora vi era la guerra, un mondo distrutto”. E Longanesi: “Ma che, dobbiamo perdere un’altra guerra o farne un’altra per farti fare bei film?”.
Il cinema ha il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare prediche… Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre, raccontano tutto quello che c’è da raccontare, e infatti, per i primi vent’anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza sonoro.
Il vantaggio dei film brutti è che non li vede nessuno. Il cinema è un’arte applicata, senza l’industria non esisterebbe. È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come fosse la bottega di Caravaggio… Il cinema è la settima arte; cioè l’ultima. Ma quale arte! Io non ho questa gran stima per il cinema.
Avrei voluto essere Buñuel o Huston, ma mi è toccato essere Monicelli, e l’ho fatto meglio che ho potuto.
Articolo apparso l’11 agosto 2023 sul Fatto Quotidiano
Ormai minato da un cancro fase terminale, la sera del 29 novembre 2010, Monicelli, a 95 anni, decise di togliersi la vita gettandosi nel vuoto dalla finestra della stanza dell’ospedale romano dove era ricoverato.
L’esoterismo, l’iniziazione, un intenso rapporto con sensitivi e veggenti: è il lato meno noto del regista italiano. A raccontarlo Filippo Ascione, che con lui ha condiviso film, chiacchierate e libri
Il signore anziano della foto è chiaramente Fellini. Lo è nella faccia così solo sua, nella stazza, in quel suo sguardo che fugge altrove. È inconfondibilmente il Fellini che tutti ricordiamo, anche seduto di sbieco nella luce rosa dell’alba, appena curvo sotto il peso della nottata passata all’addiaccio. Il ragazzetto dalla pelle di luna seduto di fronte a lui è invece diventato l’uomo che ho davanti, seduto di fronte a me in un salotto di velluti e piccole cose antiche in un palazzo romano a due passi dal Pantheon. Aveva 25 anni ai tempi, Filippo Ascione, ne ha 56 oggi.
«Questa è la foto di Federico che mi è più cara. Eravamo a Cinecittà, alle sei del mattino, davanti al suo Studio 5. Mi aveva detto: “Filippicchio” perché così mi chiamava “voglio vedere l’alba a Cinecittà, ce l’ho ricostruita mille volte, ma non l’ho mai vista”. Parlammo di sincronicità tutta la notte». Avevano discusso della teoria dello psicanalista Carl Jung anche al loro primo incontro. «Studiavo medicina, ero a Cinecittà a trovare un amico. Mi vide e mi chiese: “Lei è attore?”. Non lo ero, ma volle conoscermi lo stesso. Cominciammo a parlare e non ci siamo più separati. Divenni prima il suo aiuto regista, poi sceneggiatore, ho lavorato a tutti i suoi film da E la nave va in poi».
Nessuno più di Filippicchio, che poi ha collaborato a tanti film di Carlo Verdone e di Sergio Rubini, può raccontare, a quasi vent’anni dalla morte del maestro, il “Fellini degli spiriti”, ovvero il rapporto del regista con il paranormale, i sogni, la magia bianca, la sincronicità, appunto, secondo la quale nulla accade per caso. E nel caso in questione, tutto finisce nei film. Filippicchio ha ereditato la biblioteca esoterica di Fellini, ma è la prima volta che accetta di parlare dell’argomento.
Perché era così importante la sincronicità per Fellini? «La vedeva ovunque. La usava, per esempio, per scegliere gli attori. Trovò così Freddie Jones, per E la nave va. Il set era pronto e ancora non c’era il protagonista: Orlando. Restava da vedere solo un attore inglese. Jones arriva, Federico gli fa tre provini, lo boccia. Il produttore, Franco Cristaldi, era disperato. Però, Federico, dispiaciuto, si offre di accompagnare l’attore in aeroporto. In auto, Jones si appisola e Fellini quasi parlando tra sé e sé dice, guardandolo: “Chi sei tu? Come ti chiami?”. In quel momento, passano davanti a un manifesto e vede una scritta enorme: Orlando. Chi sei? Come ti chiami? Orlando. Mancava poco che ordinasse inversione a U sul raccordo anulare».
Prima di Giulietta degli spiriti, Fellini si era dato alle sedute spiritiche. Quando lo ha conosciuto lei, continuava? «Negli Anni 80 non molto, ma era comunque curioso di medium come di cartomanti, al punto che andava dai ciarlatani nei retrobottega come da Gustavo Rol».
Quanto era stretto il rapporto col più famoso sensitivo italiano? «Lo consultava sulle sceneggiature. Glielo aveva fatto scoprire Dino Buzzati, lo scrittore. L’ho accompagnato anch’io a Torino, più volte. Lo abbiamo visto fare cose incredibili: quadri che si dipingevano da soli, la sua mano che trapassava le porte come fossero di burro, tavoli che sparivano fino a diventare gelatinosi e, se ci poggiavi qualcosa su, se lo risucchiavano. A me, Rol materializzò davanti una donna con la quale avevo dei problemi».
Il pittore Rinaldo Geleng sostiene che negli Anni 70, Rol, davanti a Fellini, materializzò Casanova. «Di sicuro, il Casanova del suo film è molto più oscuro di quello della letteratura. Federico ne parlava come se lo conoscesse».
Fellini cercava di apprendere i segreti di Rol? «Gli chiedeva sempre “la formula”. Finché Rol gli disse: “È semplicissimo: il colore verde, la quinta musicale e il calore”».
E lui? «Mi diceva sempre: “Il cinema mi ha risucchiato, ma io volevo fare il mago”. I film erano le sue magie. Quando giravamo, alle otto del mattino ci trovavamo in piazza del Popolo per andare a Cinecittà e non esisteva nulla: i copioni nascevano in quella mezz’ora d’auto, spesso ispirati ai suoi sogni della notte».
Che altro finiva nei film? «Tutto. Lui non era interessato al cinema in sé: nel suo studio di corso Italia non aveva un solo cimelio di film, ma solo libri esoterici o di psicologia e tutto Rudolf Steiner. Fare film era un modo per creare magie. Ne La voce della luna c’è una scena ispirata a una teoria del musicista Nino Rota, il quale sosteneva che determinate sequenze di note operano miracoli sulla materia. Il pezzo in cui gli oggetti sul pianoforte ballano nasce così».
Altri esempi? «Il pretino che nello stesso film levita è ispirato a un amico che viveva a Benares, in India, in un ashram, e che diceva di volare».
Ha detto che Fellini andava anche dai ciarlatani. «Con uguale entusiasmo infantile. Tanto, dai cartomanti le carte se le leggeva da solo: la simbologia è la stessa degli archetipi di Jung. E se sapeva di un sensitivo, si partiva. Io, lui e Fiammetta, la segretaria».
Trasferte prodigiose? «Anche disastrose. Nella campagna vicino Pistoia, una medium sosteneva di incidere la voce dei defunti sul magnetofono. In questo tugurio di vecchie contadine, luci spente, la medium armeggia con due vecchi magnetofoni che fanno un gran baccano. Fellini, che aveva senso dell’umorismo, fa sottovoce: “A me questa, mi pare una tramviera”. Dovemmo scappare. Però una donna col magnetofono l’ha poi messa in Ginger e Fred».
Il viaggio più avventuroso? «Lo fece da solo. Voleva conoscere una sensitiva russa che si diceva avesse resuscitato Breznev e viveva isolata al servizio del Kgb. Quando nel 1987 gli offrirono un premio a Mosca, pose come condizione che lo portassero da lei. Trattarono a lungo. C’era ancora la Guerra Fredda».
E ci riuscì? «Ufficialmente, non si sa. Però, non sarebbe andato a Mosca se non l’avessero accontentato, seppure a condizione che non ne parlasse mai».
Ma Fellini aveva abilità strane? «Credo fosse veggente. Se avevi un problema, diceva cose per confortarti: “Non fare niente: vedrai che mercoledì sera si risolve”, e il mercoledì sera si risolveva tutto».
Addirittura. «Un Natale, avevo un problema affettivo e me ne andai ad Atene da amici. Federico mi regalò un romanzetto rosa che non era da lui scegliere. Mi disse: “Leggilo e per Capodanno sarà tutto a posto”. La sera della vigilia, lo aprii: la storia cominciava proprio la sera del 24 dicembre e durava una settimana. Mi successero tutti gli eventi del libro: una telefonata di mercoledì, dei fiori di giovedì, il chiarimento a Capodanno. Ma la veggenza c’era anche nei film».
Cioè i film predicevano il futuro? «Spesso. Nella scena finale di Intervista, gli indiani tirano su Cinecittà frecce a forma di antenne tv: nessuno ai tempi poteva immaginare che quegli studi sarebbero stati invasi dalle televisioni».
Nel 1986, Fellini scrisse sul Corriere della Sera di un viaggio inquietante nello Yucatàn per un film mai realizzato, tratto dai libri di Carlos Castaneda. «Per quanto incredibile, il suo racconto è tutto vero. Castaneda fuggì dopo strane telefonate, Fellini e gli altri proseguirono, ma poi scapparono, spaventati anche loro. E i fenomeni continuarono in Italia e presero di mira Fellini, me e altri tre. Le telefonate con voce metallica ci raggiungevano anche dalle cabine per strada».
E che volevano? «Che facessimo un film sugli sciamani, ma senza Castaneda. Un giorno, due tipi sinistri e pallidi si presentano in ufficio a Roma e dicono a Federico: “Lei è stato individuato per girare un film con un messaggio”. E lui: “Che devo fare?”. “Niente. Avrà la sceneggiatura giorno per giorno”. Ovviamente, rifiutò. Le telefonate di quelli che chiamavamo “i messicani” diventarono persecutorie. Ci avevano battezzato coi nomi di cinque colori. Federico era il verde, io il bianco. Un sera, in un ristorante, si materializzò sul tavolo mezza palla coi nostri cinque colori».
E come vi liberaste dei messicani? «Federico andò da Rol. Rol gli disse che se ne sarebbero andati e quelli scomparvero».
Perché “i messicani” ce l’avevano con Castaneda? «La nostra idea è che il Don Juan dei suoi libri fosse un mago potente che aveva iniziato Castaneda e si era sentito tradito vedendosi commercializzato».
C’è un altro film che Fellini non realizzò mai: Il viaggio di G. Mastorna. «Ci fu pure una causa: Dino De Laurentiis aveva le scenografie pronte. Ma Rol sconsigliò a Federico di girarlo, lui si ammalò e in sogno ne attribuì la responsabilità al film. Si convinse che, se l’avesse girato, sarebbe morto».
Aveva paura della morte? «Aveva paura della vecchiaia. Della morte era curioso. Quando Ettore Scola sperimentò il coma e si risvegliò, prese a chiamarlo tutti i giorni, come fossero vecchi amici, ma non lo erano. Finché gli domandò cosa avesse visto in quei due minuti di morte apparente. Scola rispose “niente” e Federico non lo chiamò più».
Fellini non aveva molti intimi tra registi e attori. «Amava più musicisti e pittori. Non parlava mai di cinema. E non andava al cinema, se non per 007, perché – diceva – era il luna park. Una sera, promise a Sergio Leone di vedere C’era una volta in America. Invece, ce ne andammo a cena con una dottoressa tedesca. La mattina dopo, alle otto, al Bar Canova di piazza del Popolo a Roma, scrisse una letterina di critica come se l’avesse visto. Due ore dopo, chiama Leone e dice che non ha mai letto una critica di uno che ha seguito così attentamente il film».
Anche dei suoi film non parlava volentieri. «Non li rivedeva e non voleva fare le interviste perché non se li ricordava. Diceva: “Nei film brucio tutte le cose che voglio dimenticare”».
E cosa voleva dimenticare? «Forse i suoi sogni. Sognava moltissimo. Nella sua testa c’era una multisala. Anche gli attori li vedeva in sogno, li disegnava e poi li cercava. Fu così che scovai Sergio Rubini per Intervista».
Disegni e note appuntate al risveglio sono raccolti in un volume Rizzoli: Il libro dei sogni. «Federico diceva che i suoi sogni non servivano a lui, ma agli altri. Quello è un libro di magia bianca. Se guardi un’immagine la sera, prima di chiudere gli occhi, ci passi su la mano destra in senso antiorario, fai sogni che curano».
E lei li fa? «Io no. Io di tutti i libri sull’occulto che mi ha lasciato Federico, ne ho letto solo uno. Ho paura di quello che potrei trovarci ».
Fellini era un iniziato? «Lo chiesi a Rol. Mi disse: “È sulla via dell’iniziazione”. Ma lui diceva: “Posso essere solo un allievo diligente”».
Lei ha ereditato i libri di magia e di psicologia del maestro, un centinaio di volumi. «Me li diede prima di ritirare l’Oscar alla carriera, che aveva sempre rifiutato: era convinto che Los Angeles gli portasse male. Prima di partire, cominciò a dar via le sue cose, come se avvertisse l’inizio della fine. Sul palco per le prove, ebbe il primo malore. Martin Scorsese chiamò il suo medico, che gli consigliò un intervento sul posto, ma lui tornò Italia. Dove ebbe il primo ictus, poi il secondo, fatale».
Perché mai Los Angeles doveva portargli male? «Alla prima visita, nel 1957, quando vinse l’Oscar per La strada, sentì la città negativa. Era molto superstizioso».
Quella volta, sparì misteriosamente. Il regista Henry Bromell sta per girare un film su quel buco di 48 ore, ipotizzando una fuga con una veterinaria. «Non andò così: fu arrestato. Lo fermarono, di notte, mentre camminava a piedi, senza documenti. Parve sospetto e nessuno ancora lo conosceva. Poi lui stesso alimentò parecchie leggende. Era un burlone».
Ai tre successivi Oscar mandò la moglie Giulietta Masina. Perché per il quinto cambiò idea? «Erano anni che volevano darglielo, ma lui diceva che era iettatorio. Nel 1993, si era in piena Tangentopoli, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiamò Giulietta e le disse che se suo marito accettava, per qualche giorno nel mondo si sarebbe parlato dell’Italia non per la corruzione, ma per Fellini».
Altre esperienze al limite dell’ordinario? «Negli Anni 60, col suo psicanalista aveva provato la mescalina. Fu così che nacque Satyricon. Mi diceva: “Se ti capita di vederlo sotto qualche sostanza, capirai”».
Quante volte provò la mescalina? «Smise alla seconda, quando fu fermato mentre stava per uscire da una finestra al quarto piano».
Diceva che della biblioteca esoterica di Fellini ha letto un solo libro. Quale? «Uno sui Dialoghi di Seth. Conversazioni medianiche con uno spirito superiore. Federico ne era turbato. Mi disse: “Leggilo, vedrai che avverti una presenza come un pulviscolo, un odore che ti offusca”».
E lei che ha avvertito? «Io niente».
Cos’è il legnetto di ciliegio che conserva coi libri di Fellini? «Mi disse: “Tienilo: è una bacchetta magica, ma io la uso come segnalibro”».
Intervista di Candida Morvillo per Il Corriere della Sera- 2012
I disegni che illustrano l’articolo sono di Federico Fellini.
Il 20 marzo 2012, pochi giorni dopo il suo novantaduesimo ed ultimo compleanno, Tonino Guerra confidava ai giornalisti: “Non posso morire oggi, è il compleanno di mia moglie”. Morirà il giorno successivo, primo giorno di primavera, e giornata mondiale della poesia.
Dove siano finiti oggi i randagi non è chiaro, ma fino a qualche anno fa, racconta suo figlio, il tema era all’ordine del giorno: “Andrea, dimmi la verità, qui in casa senti un forte odore di gatto?”. Tonino Guerra accudiva molti felini, “almeno quaranta”, li ospitava tra i fogli, i divani e le tavolozze del suo eremo di Pennabilli e forse lungo i tornanti della storia e della Valmarecchia, in quel lembo d’Italia in cui Toscana, Emilia e Marche sconfinano fino a toccarsi, la scelta dimostrava soprattutto una totale assenza di rancore. A causa di un gatto Tonino era infatti finito in campo di concentramento: “Erano sfollati a qualche chilometro di distanza dal paese e sua madre lo mandò in avanscoperta a vedere come stesse. Lui si era imbattuto in una staffetta partigiana, quella in fuga gli aveva passato un ciuffo di volantini e mio padre nell’infilarli dentro il tubo di una grondaia ebbe un’esitazione fatale che non sfuggì a un soldato di passaggio” ma non aveva dato peso ai segni più che al caso. A Troisdorf, in Germania, neanche venticinquenne, era sopravvissuto agli stenti con la fantasia: “Cucinava tagliatelle immaginarie per i compagni di detenzione e come un Buster Keaton fuori latitudine le presentava così bene che gli altri, seri, domandavano: ‘Potremmo averne un’altra forchettata?’. Le offriva a tutti anche da Zaghini, a Santarcangelo di Romagna, un altro dei suoi poli sentimentali, all’epoca in cui la poesia si era fatta terrena e il suo amico Marcello Mastroianni la pasta la mangiava direttamente in cucina accanto ai fornelli: perché così facendo, diceva, gli sembrava di essere vicino a sua madre”. Quando parla di suo padre Tonino e per fisiognomica, ritualità, battute fulminanti e sguardo dimostra che la genetica non è un’invenzione, Andrea Guerra, compositore (David di Donatello, Globi D’Oro, Nastri d’Argento, Grammy, Efa, l’Oscar europeo, collaborazioni con Tornatore, i fratelli Taviani, Ozpetek, Giordana, Muccino, Guadagnino, Veronesi, Milani, Verdone e Genovese) si affida alla memoria. Fotografie insieme se ne troverebbero poche: “Non più di cinque in tutto”, perché al patriarca mettersi in posa pareva una perdita di tempo e all’erede far sapere al mondo di essere imparentato con un signore che tra Fellini, Petri e Antonioni aveva fatto la storia del cinema italiano una piccineria o, peggio, una scorciatoia: “Babbo, lo avvertivo io il cognome non me lo cambio ma facciamo un patto. Io non ti dico niente del mio lavoro e in cambio ti prometto che non ti chiederò niente del tuo. Credo per anni di non avergli mai fatto sentire una sola mia composizione”. Ora che i percorsi si sono compiuti e i sogni realizzati, Andrea ha riordinato l’enorme materiale prodotto da Tonino Guerra: “Non avevo ereditato neanche un quadro ed è stata una ricerca folle. Ho messo insieme 400 opere e fatto digitalizzare fino ad ora più di 40.000 pagine”, e dato vita a un museo permanente e a un Festival cinematografico, I luoghi dell’Anima, che se suo padre fosse stato vivo e il 2021 un anno normale, avrebbe celebrato in prima persona come faceva quando alla porta di casa si affacciavano gli sconosciuti: “Venite, fatevi avanti, chi siete? Cosa cercate?”.
L’uscio era quasi sempre spalancato e i visitatori occasionali venivano trascinati per campi e giardini, conquistati dal pifferaio magico, affabulati dal sense of humor e da quella voce che sembrava nata per raccontare: “Qui c’è l’orto dei frutti dimenticati, dove coltivare quelli che non conosce più nessuno, qui La strada delle Meridiane, puntellata di orologi solari che riproducono diverse forme lungo l’arco del giorno, qui ancora Il santuario dei pensieri”. Era ed è un vero e proprio percorso. Bellezza allo stato puro in cui Tonino era solito trascorrere le ore. Lui parlava, spiegava e divagava. Poi si faceva buio ed era ora di rientrare perché a dettare veramente il tempo, nell’ultima fase della sua vita, erano le stagioni. Tonino guardava in alto come faceva da ragazzo, con Petri e Flaiano, quando nella sua prima sceneggiatura, Un ettaro di cielo, immagina di vendere il cielo a pezzi ai contadini ingenui neanche fosse la Fontana di Trevi in Totò Truffa per poi volgere lo sguardo alla terra, agli alberi e al panorama del quale si era circondato. Dopo qualche decennio a Roma il ritorno in campagna non significava misantropia, dice Andrea: “Perché è vero che l’uomo aveva un ego non semplice da contenere, un suo carisma da smussare e in certe giornate storte sapeva esser sbrigativo, ma è anche vero che sapeva stare con gli altri come nessuno, nell’ultimo decennio sentiva scorrere il tempo più velocemente e si era molto addolcito”. Si trattava soltanto di un nuovo codice, diverso da quello che negli anni romani gli faceva incontrare il Papa in mezzo alla strada o costruire i grandi copioni come L’Avventura o Amarcord sulla terrazza affacciata su Piazzale Clodio in cui ospitare di volta in volta De Sica e Antonioni. All’epoca Tonino parlava la lingua della metropoli. Nella senilità spostò il luogo d’elezione delle proprie idee ancor prima che se stesso: “Diceva che si era trovato in un momento della vita in cui per rinnovare i suoi sogni ne avrebbe dovuta scegliere un’altra di metropoli e che invece di trasferirsi banalmente da Roma a Parigi aveva deciso di tornare alle origini, alla natura, a un altro modo di ascoltare le cose”. La salute col tempo e con l’età era peggiorata: “Lo sapeva e come ogni convinto vitalista ossessionato dall’idea della morte e disperato all’ipotesi che l’esistenza si consumasse come un fiammifero allontanava l’idea”. E dipingere, continuare a scrivere e inventare rappresentava il suo esorcismo quotidiano: “La sua maniera di lasciare un contributo”. Era consapevole – “se rivede Ginger e Fred la critica alla globalizzazione è chiarissima ”– che un certo cinema “era finito per sempre, che l’epoca d’oro era alle spalle, che la decadenza si era presentata con la scusa più volgare, quella della moda e dell’anagrafe e che persino Fellini, uno a cui Tonino da quanto ci si divertiva avrebbe fatto una sola domanda: ‘Perché mai sei morto così presto?’. Era costretto ad aspettare mezz’ora per farsi ricevere in Rai, proprio nello stesso luogo in cui fino a pochi anni prima gli avrebbero steso tappeti rossi”.
.….la sua poesia dialettale nacque nei campi di prigionia, gomito a gomito con alcuni compaesani. Nacque indubbiamente nel segno della nostalgia; ma soprattutto Guerra scopriva un mondo dai caratteri compiuti, nel quale il rimpianto diviene lacrima bruciata. Si può far coincidere quel mondo col paese natale (Santarcangelo, presso Rimini) e il suo contado, dal mare ai primi colli, e con una piccola gente ben riconoscibile, individuata per nomignoli e soprannomi, immersa nella povertà e senza avvenire. La povertà viene dipinta in pennellate icastiche, tra muri squallidi, angoli di rifiuti, miseri oggetti, e talora assimilata alla dannazione cieca del lavoro. Sulla gente paesana e contadina, sul “piccolo mondo scaduto, suburbano, fatto di residui” (Contini), incombe talora un’aria di catastrofe, e intorno si distendono gli alberi in fiore, le siepi odorose, i filari che furono del Pascoli e di Spallicci: i quali non formano più paesaggio organico bensì una secca campionatura di scorci smozzicati, sui quali si stampa a volte una magia irripetibile, e la folla delle macchiette e dei matti di paese vi commisura il segno patetico e beffardo del destino. Il giovane prigioniero dei tedeschi nella lingua madre riesumava un mondo che la guerra stava cancellando; e il dialetto diveniva mortorio e ninna nanna, folgorato tra scoperte aurorali e inumazioni. La sua immutata arguzia guizza in un deserto bianco di polvere, nella luce livida del terremoto imminente. Intorno all’antica parola del popolo s’è fatto il vuoto: per questo risuona così netta, così nuova e profonda.
Tratto dal sito La presenza di Erato a firma di Claudio Marabini
I genitori di Andrea Guerra si separarono all’inizio degli anni Sessanta. La madre Paola, indipendente e fiera, lasciò Roma alla guida della sua macchina e in mancanza del divorzio ufficiale, ruppe a modo suo tornando in Romagna con i figli Costanza e Andrea, un anno e quattro. Fu lei a indirizzarlo verso la musica. Sempre lei a crescerlo. “All’epoca il mio babbo lo vedevo poco. Ma non posso seriamente sostenere di essere stato infelice. Avevo le fionde, avevo i campi e un rapporto del tutto particolare con Tonino. Componevo lo 06317176, il numero di telefono, ancora me lo ricordo, oppure incollavo i francobolli, scrivevo l’indirizzo esatto e partivano delle gran lettere piene di disegnoni per non perdere nella distanza proprio tutto”. Nell’adolescenza il rapporto epistolare prese un’altra piega. “Cominciai a viaggiare a Roma e a incontrare Fellini in ascensore”, o a dare forma ai pomeriggi del babbo con Suso Cecchi D’Amico e la macchina da scrivere nell’angolo. Dire chi fosse Tonino non è semplice, neanche per lui: “Ci ho messo un po’ a capirci qualcosa perché di sé Tonino parlava pochissimo, ‘poche pugnette’, ma per passione e per gioco passava la vita a osservare e a scrivere impressioni sulle sue agendine. Ne ho trovate a centinaia: ne aveva in tasca sempre quattro piene di titoli, suggestioni, frasi, scarabocchi e piccole poesie”. Le prime, in forma orale, le aveva messe insieme in prigionia e un suo compagno le aveva trascritte con un carboncino su fogli di fortuna. Le altre, quelle tirate giù in libertà e poi pubblicate insieme alle prime, ritmarono un’esistenza più inquieta di quanto il suo cinema non spingerebbe a pensare. In mezzo a un lungo fiume tranquillo, decisioni improvvise e strappi netti. Ebbe un tumore e spiazzò tutti: “Vado a operarmi in Russia”, dove, dice Andrea, “senza esagerare, il babbo è famoso come Ce lenta no” e dove L ora, la seconda moglie, aveva contribuito ad esportare il suo enorme talento. “Il mondo russo rappresentò un passo molto importante nella vita di Tonino. Lora gli aprì le porte di una vera e propria seconda giovinezza artistica”.
Tonino aveva lavorato a lungo con Tarkovskij e dopo essere stato trattato con l’onore riservato a certe glorie della patria, aveva di nuovo deviato dal percorso, aiutato il regista russo a dispiegare certe scomode metafore fuori dai confini “di quella che era ancora l’Unione Sovietica” e incrinato per un istante con gente poco incline al perdono i rapporti con Mosca. La malattia appianò i dissidi, restituì il visto a Tonino e Guerra vinse la sua battaglia. Le altre le aveva combattute a suo modo. “Incazzandosi a volte, come accade a tutti quelli che credono in qualcosa”, discutendo, “perché quella era l’epoca in cui mandarsi a fare in culo per un punto di vista non comprometteva un’amicizia e Age e Scarpelli urlavano oltre le porte facendo credere a chi passasse per caso di essere sul punto di uccidersi”, e litigando senza però mai sbattere la porta. Flaiano aveva rotto con Fellini al ritorno da un terribile viaggio americano. Il maestro in business e lo scrittore in economica. Sospetti di ingratitudine. Di incomprensione. Malessere. Al ritorno si erano ritrovati come di consueto sulla spiaggia di Fregene, ma la misura era colma e l’ultima immagine del film aveva proiettato la sparizione di Federico all’orizzonte. Il regista camminava, le sue frasi “che te ne pare Enniuccio?” si confondevano con il rumore del mare e Flaiano intanto era già lontano.
Non si parlarono per anni. “Il babbo era nascostamente autoritario? Forse. Ma non è detto. Poteva accadere di non essere d’accordo su un’idea, ma per carattere, proprio come a Flaiano, a Tonino, Fellini non avrebbe potuto mai lanciare fogli senza conseguenze”.
Tonino Guerra sapeva farsi amare, i rapporti di amicizia erano una cosa sacra e le polemiche rarissime. Aveva tenuto per sé e rivendicato però il senso del mestiere quando l’assalto modernista si era fatto più feroce, “perché vedi Andrea, di sceneggiature e film, come del calcio, parlano proprio tutti e tutti hanno una propria opinione ma io un film se devo farlo o non farlo lo decido in cinque minuti”. Tonino distingueva “tra film di parola e di immagine e ineluttabilmente sceglieva sempre i secondi. Gli piaceva la fantasia, non il fantastico. Una giocosa elaborazione del reale che tenesse però sempre presente il passo della storia”. Ci era passato di fianco: “Contento, proprio contento sono stato molte volte nella vita, ma più di tutte quando mi hanno liberato in Germania che mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla”. L’aveva attraversata e aveva provato a riprodurla con una melodia surreale e leggera che ai suoi luoghi doveva non poco. Era una questione privata. Linguistica e ontologica. Un’eredità della saggezza popolare del Montefeltro che a un certo punto, quasi per urgenza, trova il suo sbocco verso il mare. In certi contesti l’acqua scorre senza necessità di lauree o patenti. “Quando figarino, il barbiere del Bar Centrale
A causa di un gatto era finito in campo di concentramento: “Erano sfollati e sua madre lo mandò in avanscoperta a vedere come stesse”
“E’ vero che aveva un ego non semplice da contenere, ma sapeva stare con gli altri come nessuno, e nell’ultimo decennio si era molto addolcito”
“La Russia rappresentò un passo molto importante nella vita di Tonino. Lora gli aprì le porte di una vera e propria seconda giovinezza artistica”
“Gli piaceva la fantasia, non il fantastico. Una giocosa elaborazione del reale che tenesse però sempre presente il passo della storia”
di Santarcangelo, la sua base in paese, torna dal fiume e deve descrivere il caldo che fa in riva al Marecchia non si lamenta, ma lavora di allegoria. ‘Sai Tonino che oggi le formiche facevano il fumo?’”. A un certo punto, solo per dire l’importanza che dava alle parole, con l’amico Theo Angelopoulos aveva immaginato un film che prendesse spunto da un mercante di parole. Parole in vendita. Parole all’asta. Parole da levigare al pari dei pensieri per trovare il sentiero meno ozioso e quindi faticare. E cercare ancora perché le buone idee hanno bisogno anche di metodo: “Quando cominciò a insegnare italiano a Savignano ai suoi alunni dava sempre lo stesso tema: ‘Cosa ho mangiato oggi?’. Gli studenti lo compilavano il lunedì e poi con crescente incredulità anche nei giorni a venire. ‘Perché’, gli chiedevano e Tonino rispondeva: ‘Perché dovete sforzarvi di sognare’”. Guerra lo faceva attraverso le riflessioni dei suoi personaggi: “Guarda quante ce ne sono, oh. Milioni di milioni di milioni di stelle. Ostia ragazzi, io mi domando come cavolo fa a reggersi tutta sta baracca. Perché per noi, così per dire, in fondo è abbastanza facile, devo fare un palazzo: tot mattoni, tot quintali di calce, ma lassù, viva la Madonna, dove le metto le fondamenta, eh? Non son mica coriandoli”. Attraverso le fughe da fermo: “Delle volte non mi sembra di avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andare via”. Attraverso il vetro oltre cui vedere posarsi la neve: “Uno non se lo immagina nemmeno signora mia che cos’è la neve, porca miseria, se non è stato in Russia. Signora basta sta’ fermi tre minuti e te congeli”.
Dopo qualche decennio dietro le quinte Tonino aveva interpretato un celebre spot. Camminava con uno dei suoi improbabili e coloratissimi maglioni, la coppola in testa e declamava: “L’ottimismo è il profumo della vita”. Divenne una sorta di gag molto popolare, ma Tonino ci credeva davvero. Lo pensavano anche i suoi sodali. Perché ridere che ci si trovasse da Otello in Via della Croce o sul Danubio con un regista greco capace di aspettare settimane per trovare la giusta luce dell’alba, era essenziale. Dei grandi vecchi del tempo del padre “che avevano un apertura verso l’altro oggi del tutto sconosciuta”, Andrea Guerra ha lavorato soltanto con Scola: “Dal senso di responsabilità che mi metteva sulle spalle ero spaventato dalla sua stessa libertà”. Tonino l’ha inseguita per tutta la vita. Al suo funerale, sul prato della casa di Pennabilli, la bara aveva una finestrella che faceva scorgere il volto. Tonino rideva. “Ci ha fregati tutti un’altra volta”, dicevano gli astanti. E non avevano l’aria di mentire.
Intervista di Malcom Pagani per Il Foglio Quotidiano
Per ricordare l’attore romano, evitando gli elogi cerimoniosi e enfatici- che a lui stesso avrebbero fatto venire l’orticaria- ho ripreso una vecchia intervista di Malcom Pagani, in cui la figura di Gigi appare esemplare per semplicità e onestà intellettuale, forse le due qualità migliori del grande attore, oltre all’autoironia, doti che gli permettevano quello sguardo disincantato ma amorevole sul mondo
L’ orchestra è cambiata, ma i tromboni sono rimasti gli stessi: «L’ esercito degli esperti si è moltiplicato, gli opinionisti sentono l’esigenza di dirci la loro su ogni aspetto dell’esistenza, abbiamo fatto indigestione di parole e ormai siamo immersi testa e piedi in una parodia». Gigi Proietti è nato negli anni della guerra, ma all’ età «proprio come le vecchie signore» preferisce non pensare: «Non sono anziano, sono antico».
I «saccenti» li irrideva già mezzo secolo fa rielaborando Flaiano: «O come è bello sentirsi profondamente intelligenti/ per il sesso sdilinquirsi/ per la donna restare indifferenti/ rispondere a ogni inchiesta/ avere sempre un’opinione/ sottoscrivere una protesta/ spiegare la situazione» e dopo aver battuto il tacco su un palcoscenico per una vita – giura – di non avvertire fatiche né consunzioni: «Perché di ridere non ci si stanca mai».
Ne è sicuro?
«Sono anni che sento dire: Non è più tempo di ridere e non ci ho mai creduto. Non ci credevano neanche i miei genitori, cresciuti in un’epoca così intangibile da far dubitare persino che certe cose siano avvenute davvero».
Quali cose?
«La retorica del passato e della povertà di ieri rilette in chiave nostalgica non mi ha mai convinto, ma il passato è esistito e il mio e quello dei miei genitori deriva da un mondo diverso».
Che mondo era l’Italia degli anni 40?
«Un mondo di tuffi nella marana, sassaiole con i coetanei e prostitute come Maria Zozzetta che svezzava i ragazzi più grandi e che noi pischelli ci accontentavamo di fischiare al suo passaggio. Un microcosmo da Via Pal incastonato in borgata, al Tufello.
Era un mondo severo?
«Il maestro Bianchi aveva un bastone molto aguzzo e ogni mattina passava in rassegna gli alunni per vedere se avevano le orecchie pulite. Se scorgeva cerume o sporcizia, calava la bacchetta come una mannaia».
Avrebbe mai pensato di diventare attore?
«Escluso un Lago dei cigni di stampo liceale che affrontai con un cortissimo, terrificante tutù legato con la corda, Il teatro non sapevo neanche cosa fosse. Mi iscrissi al Centro universitario teatrale, al Cus, con lo stesso trasporto con il quale avevo deciso di affrontare Giurisprudenza all’ Università.
All’ epoca le provavo tutte. Cantavo nei night fino all’ alba, anche 80 canzoni a sera. Bevevo, sudavo, fumavo e ricominciavo mentre sotto, a un passo da me, tra puttane, avventori alticci e litigi per i conti faraonici, succedeva qualsiasi cosa. Concentrarsi senza smarrirsi era complicato. Alla fine della corvée cercavo sempre uno specchio».
Per quale motivo?
«Per vedere se riuscivo a riconoscermi. Era tutto frenetico, folle, velocissimo. Papà mi avrebbe voluto laureato. Non c’ era famiglia italiana che non fosse votata al totem del posto fisso e mio padre non faceva eccezione: Piove o tira vento, prima o poi lo Stato arriva. E con lo Stato intendeva tasse, responsabilità, scadenze, impegni. Ogni tanto mi trovava a recitare da solo e nei suoi occhi incontravo il dubbio: ‘Sto figlio mio non lo capisco».
Lei invece si capiva?
Guadagnavo 5.000 lire a sera, questo capivo. Cambiavo panni e attitudini al ritmo delle esigenze del momento, ma troppe domande non me le facevo».
Proietti: il Fregoli del secondo novecento.
«Magari. Di certo ogni tanto mi sono sentito come lui: «Sono un po’ stanco di me / sempre la stessa vitaccia / qualche volta mi cambio la faccia / ma la vita rimane com’ è.» Agli attori, anche a quelli giovani, càpita spesso».
Come fece a conciliare studio, night e teatro nei primi anni?
«Facile: non aprii libro e lasciai perdere gli studi. Non c’era tempo per fermarsi né per riflettere in maniera approfondita. La paura del debutto, l’emozione e la responsabilità di dover conquistare anche l’ultimo spettatore della platea sono giunti molto dopo.
Il primo maestro fu Cobelli. Mi offrì una parte ne Il Can can degli italiani. Testi di Arbasino, Vollaro e Flaiano. Esordii all’ Arlecchino. Mi ricordo tutto come se fosse oggi. Quando Giancarlo mi propose la parte, una parte minuscola, fui sul punto di rifiutare. Grazie a dio non lo feci, se c’è una cosa che ho imparato in fretta è che non esiste ruolo apparentemente piccolo che non possa rivelarsi una grande occasione».
Cos’ altro ha capito nel tempo?
«Che la maniacalità che rimproverandomi mi addebitava Gassman era un difetto e non un talento. Mi mancava l’umiltà di chi si mette al servizio del pubblico, senza dover usare la tecnica come uno schermo tra se e gli spettatori. Mi dicevano Sei troppo bravo che era altra cosa dall’ affermare: Sei bravissimo. A un tratto, mi resi conto di un dato inconfutabile. Ero insopportabile. Me lo dissi da solo: «Cazzo, Gigi: sei antipatico».
E cambiò?
«Completamente, ma per ricordarmi da dove venivo, mutare pelle e cominciare a ragionare sul mio terreno d’ elezione, ebbi bisogno di un’esperienza differente. Non esisteva solo il teatro d’ avanguardia e dopo aver partecipato al Don Chisciotte televisivo e poi ad Alleluja brava gente, lo capii definitivamente anche grazie all’ incontro con lo sceneggiatore che aveva messo mano a Cervantes, Roberto Lerici. A presentarmi Carmelo Bene fu proprio lui».
Che animale da palco era Bene?
«Lo conobbi che non aveva ancora compiuto quarant’ anni. Da ragazzo avevo visto il suo Caligola. Mi era rimasta impressa una frase: Voglio soltanto la luna. A ben vedere, un manifesto programmatico».
Allo Stabile de L’ Aquila passaste molto tempo insieme.
«Era uno spettacolo vivente, Carmelo. Anzi, era lo spettacolo sempre nuovo di se stesso. In Abruzzo, il grande salentino abituato ai tepori della sua terra d’ origine, arrivò vestito come se dovesse scalare le vette himalayane per recitare ne La cena delle beffe. Bevitore incallito, tifoso juventino non di rado fazioso, citazionista compulsivo di Stirner, Majakovskij e del suo preferito, Schopenhauer, al quale secondo me affibbiava teorie e pensieri che il filosofo non aveva mai pronunciato. Ogni tanto lo interrompevo: Dove l’avrebbe scritta il tuo Arturo questa cosa? A che pagina esattamente? A quel punto ridevamo fino a star male» .
A L’ Aquila lei divideva tempo e idee anche con Gassman.
«Quanto mi sono divertito con Vittorio. Il teatro di avanguardia stava diventando ministeriale e quello di ricerca non si preoccupava di apparire grottesco. Gassman era spiritoso, pare che un giorno abbia detto a chi lo annoiava con le spiegazioni dotte e cervellotiche: Non vi affannate, sospendete le ricerche».
Vi eravate incontrati per la prima volta su un set di Scola.
«In Se permettete parliamo di donne, nel 64. Vittorio era scatenato, amava le feste, il casino, il vitalismo. Andare in macchina con lui però rappresentava un pericolo».
Correva?
«Correva e in auto con lui evitavo accuratamente di salire. Aveva precedenti non proprio rassicuranti. A Napoli, tornando da una festa piena di stelle del cinema, irritato per la fila immobile, aveva sgasato con una Porsche finendo per travolgere una 500. Al volante c’era una signora, Gassman si precipitò a vedere se si fosse ferita e per lasciare i propri estremi. La donna era illesa, ma quando vide l’attore più famoso d’ Italia circondato da Sordi e Lollobrigida ebbe quasi un mancamento».
Vi ritrovaste poi sul set di Robert Altman.
«Il film si intitolava The wedding e nel 1978 trascorremmo un mese in una villa sulle rive del lago Michigan, tra Canada e Stati Uniti. Per ingannare il tempo e regalarci una variazione dal paesaggio pianeggiante e monotono, andavamo spesso in un vicino luna park».
Che facevate al Luna Park?
«Lunghi giri sulla ruota panoramica. Poi tornavamo sul set e a volte, improvvisavamo. I ruoli non erano fissi e un giorno mi toccò interpretare il fratello minore di Vittorio. Sulla sceneggiatura c’era scritto: Dialogo in italiano e lo rivisitammo a modo nostro. Lui mi chiese come stesse mia moglie, io gli risposi che aspettava un bambino e lui, mimando con le mani il gesto dell’amplesso, proruppe in un grevissimo: Sempre a scopà, eh?. Altman non capì una sola parola, ma decise dalla prossemica che il ciak andava benissimo. Se cerca il film lo troverà identico ad allora».
Altman si accontentava?
«Tutt’altro. Era un duro, capace di severità inattese e pedanterie che altro non erano che perfezionismo. Un altro duro era Monicelli. Fuori dal lavoro, uomo simpaticissimo. Sul set un generale prussiano che sapeva sempre quello che voleva».
Lavorò per lui su un set statunitense.
«A New York passammo 20 giorni di grande letizia. Giocavamo a fare i gagà italiani e Mario si piccava di essere più elegante di me. Non gliela davo vinta: Mario, ma ci hai guardati bene? Come fai a sostenere una fregnaccia simile? Con le persone ironiche il problema della gerarchia non esisteva».
È vero che rifiutò un Otello propostole da Gassman?
«Uno dei pochi grandi rimpianti della mia carriera. Mi offrì il ruolo di Jago. Tra Otello e Jago la rivalità dal testo si innerva sugli attori e li mette in inevitabile opposizione. Memore di un’altra edizione dell’Otello in cui Vittorio aveva recitato con Salvo Randone scambiandosi di ruolo ogni sera e ritrovandosi quindi regolarmente paragonato a lui in positivo o in negativo, sfidarlo mi parve imprudente e rinunciai: Vittorio, lo sai bene come funziona ‘sta storia fra Jago e Otello, no? – gli dissi- se vinci tu me ce rode, se vinco io mi dispiace: mi sa che è meglio che continuiamo ad andare a cena insieme e rimaniamo amici. Non me ne sono mai pentito a sufficienza».
Ha mai provato invidia per qualcuno?
«È successo, certo, ma mai nei confronti di quelli che ritenevo bravi. Non ho mai sentito astio né frustrazione per chi possedeva e dominava un mestiere, al limite ho masticato amaro per chi sprovvisto di talento arrivava a recitare comunque su palcoscenici importanti».
Lei li ha calcati, non solo in teatro. Fellini la adorava.
«Mi chiamava Gigiaccio e diceva che venirmi a vedere a teatro era come assistere allo spettacolo del fuoco. Federico non si permetteva il lusso di domandarsi il perché o il per come, guardava e basta: Mi avvicino a te per lasciarmi riscaldare. Uno dei complimenti più belli che mi abbiano mai fatto.
Altre blandizie? Altre dolcezze?
«Eduardo De Filippo mi venne a vedere ai tempi di A me gli occhi please, lo spettacolo che nel 1976, senza alcuna aspettativa, ebbe un esito lungo e molto duraturo. La faccia sorpresa di Sagitta, mia moglie, che la sera della prima mi avverte insieme all’ impresario della fila di persone in attesa sul ponte, non me la sono più dimenticata.
Perché?
«Perché non ci credevo. Li mandai amorevolmente a fare in culo, eppure non mentivano».
Torniamo a Eduardo?
«Era il 1977. Si sedette in prima fila e a fine spettacolo, madido di sudore, bagnatissimo, con il trucco che mi calava sugli occhi andai a salutarlo. Poi mi raggiunse in camerino, vecchio, con le rughe profonde, mi strinse le braccia e mi disse che anche lui, quando era giovane, faceva cose simili alle mie: Qualcuno finalmente continua insistette e io un po’ mi commossi».
La grandezza della semplicità?
«A me gli occhi era uno spettacolo autenticamente popolare messo in piedi ai tempi in cui i detrattori pur di non pronunciare la parola popolo, preferivano dire popolaresco con un’evidentissima puzza sotto il naso. Eduardo e Fellini erano grandi proprio nella semplicità. Una sera a cena con Lerici e Federico, il maestro romagnolo lo teorizzò in parole a me e a Roberto: Non c’ è un solo mio lavoro che non sia partito da un’idea semplice che sviluppando ho trasformato in complessa. Federico detestava i parolai che usavano termini astrusi per non dir nulla. Se osavi pronunciare sovrastruttura ti inseguiva con il bastone».
Di gente così ne ha incontrata tanta?
«Tantissima. Alzavano il ditino e ti spiegavano: Questa è la cultura alta e quest’ altra invece, quella bassa. Io a questa dicotomia non ho mai riconosciuto dignità. Non avverto la necessità di definire. Quando sento dire: Stanzio un miliardo per la cultura applaudo, però poi mi chiedo: Ci spiegate anche cosa intendete esattamente per cultura?».
Cos’ è la cultura per lei?
«Sapersi comportare. Saper stare in mezzo agli altri. Saper crescere insieme. È sempre più difficile, ma non dispero. Le persone in fila al Globe per Shakespeare o all’ Auditorium per ascoltare lezioni di storia contemporanea mi fanno ben sperare. Di cultura, nel senso più ampio del termine, c’ è sete».
Se dovesse vergarsi un’epigrafe cosa vorrebbe che ci fosse scritto?
«È stato curioso, così curioso da inseguire forse troppe ipotesi».
Nell’anno delle vacanze autarchiche e distanziate, che nessuno ha ancora capito se saranno veramente vacanze, sulle orme di illustri predecessori letterari (Pasolini in primis), abbiamo deciso di raccontare questa strana estate italiana con un viaggio a tappe lungo le spiagge e i luoghi più famosi della costa della Penisola, in un periplo che partirà dalla Liguria e arriverà al Friuli Venezia Giulia. Qui le puntate precedenti.
E finalmente, dopo oltre duemila chilometri, eccoci nella nostra “Nashville patriottica e poliglotta”, dove un tempo si celebrava, parole di Pier Vittorio Tondelli, «la più ardente, improvvisata e autogestita carnevalata rabelaisiana cui sia possibile partecipare in patria. Per questo ogni anno si torna a Rimini: perché questo è l’unico luogo in cui è ancora possibile vivere e innestarsi nel continuum del romanzo nazionalpopolare». Oggi forse meno romanzo e più nazionalpopolare, meno effimera trasgressione nord europea più turismo di famiglia lombardo-veneto, con la pragmatica speranza – molto romagnola – di tamponare i danni e salvare una stagione.
«Non è per tutti, non è per tutti», grida una signora un tantino su di giri, attaccata alla grate del cancello che affaccia sul giardino del (fu) mitico Grand Hotel neanche fossimo a un concerto rock. Intorno una discreta folla di curiosi, i più morbosi con la speranza di visitare la suite 315, quella con le finestre affacciate sul giardino dove il regista romagnolo ammirava una “Rimini che non finisce più”. A Rimini il mito di Fellini resiste nell’immaginario, non sempre glorioso: l’hotel La Gradisca, la spa la Dolce Vita, il negozietto Amarcord e via a scendere. Quasi nessuno si ricorda che il ragazzone fuggì con una valigia di cartone appena dopo la maggiore età e che nella sfavillante riviera non girò neanche un fotogramma. Il mare d’inverno? A Ostia. La stazione di Rimini in Amarcord? L’ingresso di Cinecittà. Non era un capriccio, semplicemente il dato emotivo contava più della realtà. Quando Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia, osò posizionare un getto d’acqua davanti alla prua del Rex per dare l’impressione del movimento della nave, Fellini lo interrogò preoccupato: «Non sembrerà vera?».
Rimini però è sempre stata la città dell’accoglienza. Se l’era inventata quasi dal nulla, con il determinante contributo dei marchi tedeschi, Piero Arpesella, che negli anni del boom aveva trasformato il Grand Hotel, in passato anche alcova segreta degli amori del duce e Claretta Petacci, in un tempio di raffinata eccentricità, dove le signore «non prendevano mai l’ascensore ma scendevano le scale fino alla hall, esibendo i loro gioielli come in una passerella di Wanda Osiris».
Il cavalier Arpesella fu uno dei primi a comprendere le potenzialità del turismo congressuale e a ragionare intorno al concetto di destagionalizzazione, a quei tempi poco più di una parolaccia. A lui e a suo figlio Marco, che alla fine dei Sessanta fondò “Promozione Alberghiera”, la più grande cooperativa turistica d’Italia, il Comune intitolerà a novembre, dopo qualche polemica con la famiglia, un giardino proprio dietro al Grand Hotel.
Ma a Rimini, e più in generale in riviera, l’industria principe è da sempre legata al popolo della notte. «La chiamano l’industria del sesso», scriveva Pier Vittorio Tondelli in Rimini, polifonico viaggio in una Romagna balneare trasformata in una sorta di Disneyland casereccia. Per cercare di capire cosa sia cambiato da allora Stefano Lucciola mi dà appuntamento al Garden bar di Riccione alla sette di mattina. Io appena sveglio, lui appena tornato da una serata di lavoro. «A Misano, al Villa delle Rose, oggi forse il miglior locale in Italia», racconta, «C’erano duemila persone, per via delle norme anti-Covid. Musica commerciale ma sopratutto trap, perché quest’anno gli italiani sono la maggioranza».
Nonostante l’alba sia spuntata da poco qui è già tutto un gran baccano, come fossimo a Trastevere all’ora dell’aperitivo. Ci sono i buttafuori che hanno appena terminato il turno, tutti rigorosamente dell’est Europa – in questo lavoro la selezione è darwiniana – sedicenti Pr che discutono di strategie davanti a un caffè e ragazzi appena usciti dai locali e indecisi se tirarla ancora per le lunghe. Una ragazza che sta servendo al bar, ma che lavora anche alla discoteca Biblios, sentendoci conversare ci aggiorna che il Cocoricò, luogo simbolo della disco commerciale anni Ottanta, riaprirà a settembre.
Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti
Stefano è un veterano, uno dei pochi della vecchia guardia che è riuscito a rinnovarsi e a stare al passo con gli stravolgimenti dell’industria del turismo. «Il lavoro è cambiato completamente. Prima era un divertimento, tutto era semplice, oggi devi essere un professionista, curare ogni singolo aspetto alla perfezione, non basta più aprire un locale e aspettare che la gente entri». Negli anni è molto cambiata anche la gente della notte, la tipologia di clienti che si muove per locali in base a determinati interessi. Lo spiega più esplicitamente Stefano, a cui è rimasto un filo di accento romano: «Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti.
Il club dove ha lavorato per una vita, prima come buttafuori poi in qualità di proprietario, era il Blow Up, l’ultima luce di Bellariva, leggendario locale dove nei gloriosi Ottanta centinaia di ragazze scandinave dopo aver attraversato mezza Europa si mettevano ordinatamente in fila pur di avere la chance di conoscere Maurizio Zanfanti, in arte Zanza, mitologico playboy romagnolo con oltre seimila donne conquistate, secondo la vulgata. Rigorosamente straniere, tendenzialmente svedesi. A uno sventurato che aveva osato chiedergli se in questi rapidi incontri di amorosi sensi avesse l’abitudine di utilizzare il profilattico, aveva risposto con una curiosa metafora calcistica: «O si sta in campo o in tribuna».
«A Rimini dopo Fellini c’è Zanza. È sempre stato il numero uno, come Pr e come latin lover», racconta Stefano, facendosi scappare un sorriso, «Ha interpretato alla perfezione il prototipo del vitellone romagnolo. Ma non era uno che amava vantarsi, non gli piaceva la conta delle sue conquiste, erano gli altri a raccontare queste storie leggendarie». Una delle più quotate narra di un riminese in trasferta svedese che alla fine di una serata si ritrovò in camera di una giovane pulzella locale che teneva, sul comodino, una foto del nostro. «Una volta, era il ’95», ricorda Stefano, «con il Blow Up facemmo una promozione sulla Vicking Line, una nave da crociera che faceva la spola Svezia-Finlandia. Non appena salii a bordo trovai la fila di ragazze che ci tenevano a dirmi che erano amiche del Zanza». Maurizio Zanfanti se ne è andato due anni fa, e lo ha fatto – tutti a Rimini ne sono convinti – nell’unico modo in cui uno come lui se ne poteva andare. Forse meritava anche un premio, per la sua indiretta attività di promozione turistica, invece in un Paese bigotto e paternalista come il nostro, perennemente avvolto dal senso di colpa cattolico, gli fu di fatto impedito il funerale in Chiesa. Per aver passato la vita a fare il vitellone. A rendergli omaggio ci pensò la Bild, con un grande e articolato pezzo che titolava cosi: “Italienischer Papagallo machte amore mit 6.000 fräulein”. Non c’e’ bisogno di traduzione.