RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA DA VECCHI, APPLICANDO IL TEOREMA SCALFARI: FOTTENDOSENE. RECENSIONE SENZA INIBIZIONI DI VITTORIO FELTRI AL LIBRO DI ANTONIO POLITO PROVE TECNICHE DI RESURREZIONE.
Tutto si può dire di Antonio Polito, uno dei migliori giornalisti su piazza, vicedirettore del Corriere della Sera, ma non che abbia l’ attitudine ad emozionare il prossimo.
La sua prosa è leggera, razionale, nessun ricciolo sentimentale. Non usa i colpi bassi della malinconia. Eppure è riuscito a commuovere il sottoscritto per l’ ingenuità con cui ha affrontato un’ impresa disperata. Con anima candida, affiorata in lui come il burro dopo essere stata centrifugata dalla vita, si è cimentato in un esercizio da pazzi e senza rete: esaltare la vecchiaia.
Essa gli è tutta davanti, è una parete in cui non ha ancora piantato un chiodo. Ma quale un Cristoforo Colombo che non ha sciolto le vele della Santa Maria, cerca di mostrare a se stesso, ai coetanei, e al mondo intero, che le Indie dei tesori infiniti sono appena oltre l’ orizzonte, così Polito fa con la canizie, sostenendo che è il massimo, ed è una divinità barbuta che versa cornucopie di bellezza, grazie e ricchezze non solo sui vecchi, anche sui giovani dai quali perciò si aspetta onori, gratitudine e forse pure baci da seriche ragazze in fiore. Figuriamoci.
Vorrei dirgli: giovane, che ne sai? Tu hai 63 anni, ti tieni in forma facendo ginnastica che non so per quale motivo adesso si chiama Pilates, sei un principiante della senilità, essendo giunto appena nel suo vestibolo, ti stai sistemando le mutande senza pannolone nello spogliatoio, però non hai cominciato a giocare, e già discetti del modo di vincere una partita impossibile. Ho detto della commozione.
Perché? Perché Polito ha ragione: non serve aver ragione contro la protervia del destino. S’ intende: il libro (Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita, Marsilio, pp.
155, ? 17) è bellissimo. Scritto da dio. Documentato. Ha persino perle di poesia e trasmette buon umore. Tuttavia ha un torto (o un merito?) inesorabile: è perfetta utopia. Polito si veste da Peter Pan e crea un’ isola che non c’ è.
Purtroppo, come dice una pellicola dei fratelli Coen: questo non è un mondo per vecchi.
NEO-REALISTICO Il racconto è da film neo-realistico. Un giorno, improvvisamente, quella faccia davanti allo specchio, non è più la tua. Era una vita che ci convivevi, bella o brutta, ti ci ritrovavi. Ma ecco sei un altro, inizia un altro te stesso, non solo una nuova età, ma sei tu ad essere una nuova, anzi vecchia bestia.
Come provare ad essere felici, o almeno a cavarsela, mentre le forze si smorzano, e intorno scorgi sguardi che suggeriscono: «fatti più in là, tocca a noi»? Le cose sono peggiorate ai nostri dì a causa del diffondersi del linguaggio eufemistico: per non dire che hai oltrepassato l’ invisibile soglia, e sei vecchio, anziano, hanno addirittura introdotto la formula «grande adulto», poveri noi, che falsità, che trucchi ridicoli.
A tale avvenimento piuttosto importante nella vita di ciascuno – dopo il quale ce n’ è solo uno piuttosto seccante, dotato di falce -, e a come viverlo bene, è dedicato questo saggio romanzesco, che merita di essere letto d’ un fiato e poi meditato, attingendone lo spirito battagliero e i consigli pratici. Dico ciò a prescindere dal fatto, già annunciato, che io non ci credo. Credo nei particolari raccontati da Polito, adoro i suoi consigli. Tuttavia la prospettiva finale, e cioè che la vecchiaia possa essere un Eden, sia pure moderato, senza guizzi a causa del mal di schiena, somiglia a quei proverbi consolatori, tipo «sfortunato al gioco, fortunato in amore», con cui il popolo sistema gli sfigati.
GENNARO SANGIULIANO, ANTONIO POLITO, VITTORIO FELTRI, ALDO CAZZULLO
Certo, ci sono soddisfazioni ineguagliabili che ci si può prendere passata una certa età, ed è la possibilità di dire la verità, fottendosene. È quella che è stata chiamata la «mozione Scalfari». Il fondatore di Repubblica se ne uscì con codesta frase: «Se uno attraversa il decennio novanta-cento, e io sono a novantaquattro, allora quello è uno che… scusate… è uno che se ne fotte». Polito propone di non aspettare quell’ età, di cominciare subito a sessantacinque anni. Personalmente, l’ ho fatto. È la libertà che è il dono più prezioso che regalano gli dèi agli anni che passano. Si è prigionieri di un fisico ammosciato, ciononostante ci si è disfatti di altre catene: il conformismo, che non è affatto prerogativa della senescenza ma degli imberbi. Me ne rido della reazione scandalizzata dei giovani, o di quelli che si fingono tali per piacere, che pretenderebbero il servilismo dei vecchi alle idee correnti.
ESERCIZIO TERAPEUTICO In realtà questa è l’ epoca caratterizzata non dall’ islamofobia o dall’ omofobia, infatti musulmani e froci non sono mai stati così coccolati e vincenti, bensì dalla emarginazione e dalla crudeltà contro i vecchi. Per usare un termine coniato in rima con i precedenti siffatta attitudine persecutoria è definita «ageofobia», caratterizzata dall’ «ageismo». Sarebbe il razzismo contro chi è “in età”. Se non avete mai sentito questi termini sociologici, scovati da Polito, ciò dimostra che il risvolto aggressivo della società contemporanea contro la non più «venerata canizie» esiste eccome, al punto che in vigore c’ è il pregiudizio contrario, vale a dire il dominio della gerontocrazia. Vecchio è ormai un aggettivo spregiativo. Così si legge spesso «vecchio porco», invece giovane porco non esiste. Si guarda con un certo schifo un signore anziano che è rallegrato da una bella ragazza, o una donna matura che si accompagna a un giovanotto, quasi che le rughe siano viziose in sé. Si ritiene, non tanto sotterraneamente, che qualunque cosa faccia un anziano (lavorare, governare, amare, insomma vivere) sia un usurpare ciò che di diritto spetterebbe alla generazione successiva. E perché?
ANTONIO POLITO, VITTORIO FELTRI, FRANCA LEOSINI
Perché sì.
Per levare assurdi complessi di colpa a chi si sta avviando o ha scavalcato i sessantacinque anni di età (in Italia siamo tredici milioni e mezzo) la lettura di Polito è un esercizio terapeutico perfetto.
Fa crescere l’ autostima. Il problema è che Antonio, neofita della vecchiaia, mette l’ asticella troppo in alto. Parlando di felicità esagera. Cala Trinchetto. Del resto è egli stesso a citare Solone che dice al ricchissimo Creso: «Nessuno dei viventi è felice». Provarci va bene, contare di riuscirci è illusione. Quanto a tentare la resurrezione, il mio responso è che se ci si prova, a risorgere, ci si schianta. Prometeo è finito incatenato alla rupe con un’ aquila a mangiargli il fegato. I cristiani – al cui concetto di resurrezione Polito si riferisce – non pensano di farcela da soli, chiedono soccorso, però per ora non è risorto nessuno tranne il Numero 1. Tuttavia, se si esclude il traguardo inarrivabile, le pagine pullulano di consigli salutari, che mi sento anch’ io di sottoscrivere. Due tra i tanti.
Coltivare la pazienza e l’ umorismo. Vero è che a essere trattati come rottami, fa venire il nervoso. Si può resistere. Consoliamoci pensando che i giovani, i quali guardano male noi anziani, quasi fossimo scrocconi che gli occupano il posto auto, soffriranno quando noi avremo finito di patire. Così imparano.
La lunga intervista di Alessandro Giuli a Mattia Feltri, autore del libro Novantatrè (Marsilio editore, anche ebook a euro 9,99), sarà di difficile lettura per i più giovani, nati magari dopo il periodo di Mani pulite. Per loro i nomi di Davigo o Borrelli, forse anche di Di Pietro diranno poco o nulla, eppure allora questi magistrati erano tutte le sere nei telegiornali. Per i più anziani sarà come ripassare alla moviola quegli anni, un utile esercizio per rivedere giudizi, prendere le misure da certi fatti, forse rivedere certe convinzioni sulle vicende di allora e sui giudizi dei protagonisti di anni complicati. La lettura è consigliata però a tutti, perché il libro di Mattia Feltri è corretto, pulito, senza forzature polemiche e tutto teso a ricostruire per capire più che per giudicare. Il modo migliore per fare informazione e riflettere storicamente su Tangentopoli e sugli effetti che a avuto sulla società e il costume pubblico italiano.
Giuliano Ferrara, giornalista, ministro e anchorman televisivo
Il libro è prefato da Giuliano Ferrara, che ci va giù pesante, scandendo ancora una volta la sua avversione viscerale per Mani Pulite. Ecco il passo centrale: “Una volta Feltri in un’intervista disse: “Cercavo l’ambiguità morale nei romanzi”. Direi che con questo libro, fondato sulla sua vecchia inchiesta, quell’ambiguità l’ha trovata. Con il suo corteggio di viltà, di supponenza, di fame e volontà di potenza, con i provincialismi e il cattivo gusto di una cortigianeria frustrata, Feltri l’ha raccontata, l’ambiguità, l’ha rimessa a nuovo. L’ha seguita e riferita, senza battere ciglio, come una trama che sta dipanandosi e che sarà stata giudicata in un tempo necessario alla decenza della verità. Qui troverete delle conferme ormai ovvie anche per i vilains, i protagonisti meschini di allora: l’obbligatorietà dell’azione penale non c’entrava, non c’entrava la sanzione di reati personali, non c’era alcuna imparzialità della giurisdizione, la magistratura era politicizzata e mediatizzata, il processo al regime calpestava i diritti delle persone, la tortura della carcerazione preventiva funzionava a dovere, e con un certo piacere di chi la comminava; le fazioni si misero in moto per allontanare il calice di un sistema fritto e rifritto nelle tangenti, ma sotto gli occhi di tutti e con vantaggio comune. Ogni grandezza scomparve, il carattere feroce degli italiani emerse con tratti tragici e anche grotteschi, tutti i moralizzatori sono stati uno dopo l’altro violentemente moralizzati. Lo sradicamento della corruzione non era solo, alla luce dei vent’anni successivi, un vaste programme, come l’abolizione della fame, della sete o della stupidità, era anche un equivoco ideologico reazionario, un instrumentum regni dei più abusati. Presero corpo nel Terrore gli effetti di contrappasso delle adulazioni, degli imboscamenti, delle sinecure repubblicane alle quali in tanti attingevano, senza la luce della passione, con una grettezza senza confronti, e quel contrappasso si manifestò nella denigrazione delatoria, nel tentativo di salvare l’onore degli altri incuranti del proprio, nell’abbandono totale del bene comune e della Repubblica a un’ondata di follia riparatrice, una purga che era giacobina e staliniana presuntivamente, ma nella farsesca versione della seconda volta, della ripetizione della storia.”
L’intervista di Alessandro Giuli è apparsa sul Foglio di oggi 21 Gennaio 2016. Alla fine troverete un breve filmato con lo stralcio del discorso di Craxi alla Camera del 3 luglio 1992, una chiamata in correo che la dice lunga sullo stato dei partiti in quegli anni.
Il pool di Mani Pulite: Davigo, Colombo, Ambrosio, Di Pietro
Mattia Feltri ai tempi di Mani pulite ci credeva eccome nella palingenesi italiana dalle ruberie e dalla corruzione. Ventiquattrenne, era giovane abbastanza per inebriarsi senza farsi troppe domande. Oggi, quando lo incontro in un caffè romano del Rione Monti, lui, inviato della Stampa ultraquarantenne, si emoziona rievocando le lacrime impotenti di Gianni De Michelis ai funerali di Bettino Craxi: “Non siamo riusciti a difenderlo”. Ma è l’unica concessione a uno stato d’animo altrimenti calmo e pacificato. Dal 1992-’93 a oggi sono sorti e tramontati parecchi mondi, sotto il cielo italiano. In questi giorni Mattia ha pubblicato con Marsilio un libro intitolato “Novantatré”, con prefazione di Giuliano Ferrara, che raccoglie (lievemente emendati e aggiornati) gli articoli scritti sul Foglio del 2003 nella rubrica Mattia nel Terrore: “Fu il direttore Giuliano Ferrara – scrive Feltri nell’introduzione – a propormi un’inchiesta sterminata, lunga dodici mesi, per rifare ogni giorno del 2003 la cronaca di ogni giorno del 1993, col vantaggio di sapere come sarebbe andata a finire”. Un corpo a corpo con i falsi splendori e le reali, tragiche miserie di Tangentopoli. Mattia ha appena scritto sulla Stampa una replica alla stroncatura che suo padre gli ha inflitto, con garbo, sul Giornale. Vittorio Feltri gli rimprovera un atteggiamento così garantista da essere unidimensionale rispetto a Mani pulite, ha letto il libro, si è sentito “scaraventato nella discarica dei reietti”. E obietta: “Se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70”. Quanto a Craxi, invalicabile protagonista di ogni riflessione su quegli anni, “quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (…) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene”. Nel gergo giornalistico si direbbe che il conflitto tra i due Feltri “fa sangue”, qualcuno sarà tentato di spremerne un poco per un buon titolo; però qui non c’è conflitto né sangue. Mattia ha chiuso la questione così: “Su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’Indipendente; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza”.
Bettino Craxi, presidente del Consiglio e segretario PSI all’epoca di Mani Pulite
Il punto di partenza di questa conversazione è un libro che, pubblicato e letto a rate nel 2003 su un quotidiano votato al berlusconismo frondista e anti manettaro, poteva ispirare un eccitato coinvolgimento militante. Riletto oggi, con l’ausilio di una pietas ermeneutica suggerita con fredda cognizione dall’autore, lascia dietro di sé uno sgomento spettrale, nulla di consolatorio e qualcosa di perdonabile. Un viaggio nella miseria umana. A cominciare da quella delle vittime, i politici spazzati via dal circo mediatico-giudiziario: un suicidio di massa, con tratti di cannibalismo, al cospetto di una dittatura giacobina senza possibilità né volontà di resistenza. Penso ad amici di Mattia e della ditta fogliante come Francesco Rutelli (“Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere”) e Luigi Manconi (quella di Craxi “è l’infermità dei cattivi… la malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori…”).
Luigi Mancone, già deputato verde
Piercamillo Davigo, ex giudice di Mani Pulite
“Manconi mi chiamò, quando lesse nella mia rubrica la sua citazione vecchia di dieci anni. Pensai: adesso s’incazza… mi disse invece: davvero io ho detto quelle cose? Lui era davvero stupito. Quelli che si rilessero, e si rileggono, faticano a riconoscersi. Anche io che l’ho scritto, riprendendolo in mano dopo 12 anni, ho trovato nel libro cose che non sapevo di aver raccontato… E’ vero, i peggiori sono stati i politici. Intendiamoci: l’impressione che noi al Foglio abbiamo maturato sulla magistratura resta quella, non un passo indietro. Però i magistrati erano i carnefici e i carnefici sentono l’odore del sangue. I politici erano le vittime e si sono comportati come si comportano sempre le vittime: hanno cercato di mandare avanti le altre vittime. Come nei romanzi distopici, quando i personaggi cercano di vendersi amici o mogli pur di salvarsi la pelle. Il disfacimento del Psi è qualcosa di clamoroso, davvero si rubavano tra naufraghi il pezzetto di legno per restare a galla e poi affondavano tutti”. Mattia l’ha raccontato, questo e molto altro, attraverso gli avvenimenti quotidiani e le parole agonizzanti dei protagonisti. “Quando un amico, dopo aver visto la fiction ‘1992’, mi ha detto tu devi riprendere in mano quel tuo lavoro, gli ho risposto che non potevo mica competere con le fiction, non posso mica raccontare la verità; la verità non esiste, esistono punti di vista più o meno forti e argomentati.
E lui: appunto, il tuo deve esserci. Allora ho cominciato a rimettere mano al libro. Ma alla fine mi sono accorto che i libri sono importanti per chi li scrive, il resto è una conseguenza più o meno positiva. E il mio è un libro che parla anche di noi oggi, della condizione umana che si ripete ciclicamente nel tempo, motivo per cui l’ho chiamato immodestamente ‘Novantatré’: è chiaro che non si trattava delle decapitazioni nella Rivoluzione francese, ma il processo dell’animo umano è quello”. C’è un libro di Remo Bodei, “Geometria delle passioni” (Feltrinelli), nel quale si racconta dei nobili parigini arrestati che, in attesa della ghigliottina, muti e aggraziati componevano madrigali… nel tuo libro c’è un girone dantesco di politici che si gettano l’un l’altro nel fuoco, non è uno scarto antropologico da poco. Ma la meccanica del capro espiatorio si ripete. “Il nostro è un paese che ha cercato di ripartire da ceneri e bugie attraverso la coscienza dei propri capri espiatori, Craxi mai ha dubitato di esserlo, e nemmeno i fascisti nel 1945, da colpevoli naturalmente”.
A proposito, nella risposta a tuo padre scrivi questo: “Nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi”. E’ talmente vero che la più grande responsabilità di quei due partiti non sta nell’aver profittato di un’innocenza forzosa (An) o garantita dall’ipocrisia (il Pci partitocratico come gli altri e anche alimentato dai rubli di Mosca), sta sopra tutto nel non aver saputo pacificare l’Italia post Tangentopoli. Un fallimento storico che non riguarda soltanto la Bicamerale… “Senza per forza parlare della caratura dei vecchi leader, che rispetto ai contemporanei ci sembrano sempre migliori, secondo me quella pacificazione non era possibile perché quei partiti non sono stati capaci di rinunciare all’assolutismo delle loro tradizioni che, diventato così piccino e inutile, è stato sostituito dal nuovo assoluto delle Mani pulite. Solo chi non voleva vedere, come disse Craxi, poteva ignorare che cosa fosse il Pci dal punto di vista della legalità. Sui postfascisti mancava la controprova”. Che poi è tremendamente arrivata.
Francesco Saverio Borrelli, ex capo del pool Mani Pulite
Bettino Craxi e Cesare De Michelis, più volte ministro
Dalla dittatura del proletariato, fascista o comunista, alla dittatura degli onesti. “La totale incapacità di pensare la politica come l’ambito del possibile e del compromesso”. E’ il marchio dei Cinque stelle. “Quando arriva qualcuno come Beppe Grillo, che propone una visione assolutistica della politica, non può che ottenere qualche vittoria tattica, magari sanguinosa, forse anche un po’ duratura, ma destinata al fallimento”. Ai finiani rimproverai a suo tempo questo: saremmo disposti a tollerare una quota minima, fisiologica di ruberie, ma soltanto in presenza di una buona arte di governare; loro nemmeno questo. “Lo diceva Benedetto Croce, che non ha mai giustificato i ladri. Se io vado da un medico mi interessa che mi guarisca, non la sua dichiarazione dei redditi. Non è un arrendersi al malaffare ma alla imperfezione umana, ai crolli improvvisi della nostra moralità che non sempre regge…”. Una delle cose migliori del libro di Mattia sono i corsivi alla fine di ciascun paragrafo: dichiarazioni pubbliche o lanci di agenzie illuminanti che fanno da contrappunto alla narrazione, ma si potrebbero leggere anche solo questi corsivi per avere un filo conduttore di verità compiute e inoppugnabili. Ci sono in particolare le frasi dei magistrati del pool milanese, ebbri di potenza: dalle spacconate dipietriste alla missione di rivoltare il paese come un calzino (Piercamillo Davigo), la rivendicazione di una “rivoluzione legale e saggia” (Giulio Catelani); poi parole come “tortura”, la celebrazione della carcerazione preventiva come metodo per “la ricerca della verità” (Francesco Saverio Borrelli) o perché “altrimenti la gente s’incazza” (Davigo), l’autoconvinzione che i magistrati siano gli “unici rimasti a garantire il presidio democratico” (Roberto Scarpinato) e così via fino al culmine: “Finora nella nostra inchiesta siamo corsi dietro alle brecce… restano da compiere ancora i rastrellamenti” (Davigo). Rastrellamenti! Ecco, il punto di vista dei moralizzatori è questo, una missione da realizzare manu militari dichiarata così, con aperta iattanza e spregio della misura. Oggi mi domando se questi timbri tragici, questi toni bellicosamente trionfali possano ancora essere utilizzati dalle toghe. La mia riposta sarebbe no, perché nel frattempo la politica ha reagito… magari prendendole di nuovo. Voglio insomma avvicinarmi a Silvio Berlusconi. “Anche per me no, la magistratura non può più permetterselo. Dipende dal fatto che è finita l’ebbrezza, ma quello stato d’animo non riguardava soltanto i magistrati, riguardava tutti noi che facevamo il tifo per loro. E quando tu hai una tifoseria rumorosa e numerosa prendi coraggio. Ma poi il clima è cambiato, sono aumentate le file di quelli che hanno capito che la grande rivoluzione era in realtà un grande linciaggio, qualcuno ha capito che quei magistrati non perseguivano più il reato ma la colpa collettiva. Come rilevava lo stesso Borrelli, Mani pulite non è andata nella direzione sperata”. Lui era il capo. “Borrelli, e ci tengo a dirlo, è una persona che stimo molto, se non altro perché sa scrivere ed è un uomo colto. Non è una cosa da poco. Io non sono un persecutore dei peccati, mi piace capire le persone. Borrelli l’altro giorno ha scritto una lettera a Pigi Battista sul Corriere della Sera dicendo che lui non ha detto quella frase famosa – noi li incarceriamo per farli parlare e li scarceriamo quando hanno parlato – ma quella frase c’è, risulta da più d’una fonte. Lui non ricorda d’averla pronunciata o probabilmente le dà un’altra interpretazione. A me piace pensare che un uomo del suo livello culturale, andando a sbatterci contro dopo tanti anni, non si riconosca più in quelle pagine lì, come non ci si riconosce più nessuno. Come Rutelli e Manconi, amici che si chiedono: ma eravamo noi, quelli? Ecco, spero, penso che questo accada anche al procuratore Borrelli”. E’ successo poi che ogni tentativo di proseguire quella battaglia con mezzi scopertamente politici, da Antonio Di Pietro ad Antonio Ingroia, ha rivelato se non malafede la malagrazia e la pochezza dei suoi interpreti. “Quando Di Pietro sbatteva i pugni sul tavolo davanti a Prodi lui interpretava il ruolo della guardia davanti al ladro. Poi non più, dal momento dell’ingresso in politica”. Torno a insistere: la politica ha tentato di riguadagnare sovranità con Silvio Berlusconi, malgrado tutti i suoi deficit iniziali e quelli mostrati in corso d’opera.
Francesco Rutelli, già vicepresidente del Consiglio e ministro
Per un ventennio ha polarizzato l’Italia in due fronti e tenuto in vita quello dei mozzorecchi, il partito delle procure. Il Cav. ha impiegato con grande spargimento di energie i suoi dispositivi mediatici, ha goduto di sostegno da parte di piccoli, preziosi fiancheggiatori garantisti come il Foglio. Però ha perso. “Berlusconi ha dei meriti che abbiamo riconosciuto. Nel 1993, nello schema di cui dicevamo – postfascisti e postcomunisti al centro e gli altri più o meno sottoterra – arriva lui e salva la baracca. Non so in che mani saremmo finiti, al di là di quelle di Achille Occhetto… insomma questa cultura super giudiziaria avrebbe avuto la strada in discesa. Invece Berlusconi ha tenuto viva una piccola ribellione garantista, il distacco dalla mitologia manipulitista. Però alla lunga ha perso. Ha combattuto molto male la battaglia, oggi Forza Italia non è un partito garantista, neanche un po’, e nemmeno liberale. Questo è il grandissimo fallimento di Berlusconi: ha perso perché è stato condannato, ha giocato la partita su di sé invece che giocarla in generale, e non ha fatto riforme. Sono contento che ci sia stato, ma ha perso su tutta la linea”. Oggi Renzi sembra avviarsi a qualcosa di non troppo dissimile, sebbene ci siano differenze di peso. La sua estrazione politica lo aiuta, ma un conflitto carsico con una parte influente della magistratura è già agli atti. “Renzi ha diversi vantaggi. Intanto non ha 49 o 75 avvisi di garanzia. Poi, come abbiamo detto, i tempi sono diversi e lui è saggio: non è andato allo scontro frontale, non avendo l’urgenza che poteva avere Berlusconi, probabilmente ha posticipato la faccenda, ma un paio di schiaffoni li ha dati. Una cosa che apprezzo, ma molto molto, in Renzi è questa: ogni volta che c’è un ministro, sottosegretario o collaboratore nei guai, le sue valutazioni, che possono essere condivise o no, non dipendono mai dal metro del casellario giudiziale. Se lui facesse dimettere la Boschi, si procurerebbe più danno o meno danno? Lui valuta così: mi fa più danno se va via. E se la tiene lì. E fa bene. Lupi fa più danno se resta o se va via? Fa più danno se rimane, allora lui preme perché vada via. Sono valutazioni che possono non piacere, ma la politica deve ragionare con il metro della politica, non con quello del football americano, del’induismo o della magistratura”.
Il fondatore di Forza Italia e ex primo ministro Silvio Berlusconi
C’è un elemento nuovo in questo tuo ragionare, una specie di pietas, di comprensione antropologica per tutti, anche per i magistrati e i loro errori. Quasi che, per dirla con Charlie Hebdo, “Tout est pardonné”. “In quegli anni ho pensato il peggio possibile. E quando ho scritto il libro, dodici anni fa, l’ho vissuto anche come un atto d’accusa. Ma quando l’ho riletto non lo era più. Storicamente puoi condannare Robespierre, ma oggi a che serve? Sono cambiato anche io, ho perfezionato la mia visione del mondo e penso che le società si muovano tutte assieme, magari qualcuno dà una spinta maggiore ma nessuno può farcela da solo. Mi sono accorto che ‘rastrellamento’ lo diceva Davigo, ma lo urlavamo con lui tutti noi. Usciva dalla sua bocca ma partiva dalle nostre corde vocali. Sarebbe un delitto dare la colpa solo a Davigo, era la colpa d’un mondo di cui Davigo era l’avanguardia”.
Arriviamo al coro dei giornalisti, un plotone d’esecuzione che andò oltre anche al vero o presunto patto dei quattro giornali – Corriere, Repubblica, Stampa, Unità – per con cordare linea, scoop e titoli. “In realtà, rispetto agli altri attori sulla scena, numerosi giornalisti sono rimasti nel ’93, non sono mai rincasati. Forse perché è più comodo, ma continuano esattamente allo stesso modo. Chiamano inchiesta il riciclaggio sedentario dei verbali. Noi del Foglio – con Vichi Festa, Christian Rocca, Filippo Facci – facevamo controinchieste andando a sudarci dichiarazione per dichiarazione, le procure naturalmente non ci davano niente. Un vero controlavoro con tutte le difficoltà conseguenti. E sai come le chiamavano le nostre controinchieste? ‘Veleni’. Noi che lavoravamo: veleni; quelli che facevano la buca delle lettere: inchieste. E continua così! Ci sono giornalisti che vivono da decenni sulla pubblicazione di verbali recapitati dalle procure, un po’ comodo… ”. Tranne qualche raro caso, poche autocritiche a posteriori. “Non è che devi fare le abiure in piazza, però… Dopo i funerali di Craxi mi ricordo le lacrime di De Michelis a ‘Porta a Porta’, e ancora un po’ mi commuovo, mentre diceva ‘non abbiamo saputo difenderlo’. Quella era una cosa bella… ce ne volevano altre, non necessariamente con le lacrime ma ci volevano”. Davvero c’era un solo gigante, Bettino Craxi? “Su YouTube ci sono le deposizioni del processo Enimont, sono perfino divertenti: ho rivisto da poco un’ampia parte della deposizione di Bossi e un’ampia parte della deposizione di Craxi. Non c’è nulla di meglio per restituirci la sensazione del nostro impazzimento: abbiamo scelto un fanfarone di provincia, quel Bossi lì che balbetta, invece di un grande statista… E guarda che Craxi sbagliò per primo, all’inizio, definendo Mario Chiesa un ‘mariuolo’, ma era la figura migliore”. Conclusione: Mani pulite è stata la prima prova di sedicente sovranità italiana dopo la fine della Guerra fredda, del sistema bloccato; allentato il guinzaglio, il cannibalismo. “Non ho mai creduto alla regia straniera, che dovevano fare gli americani? Cercavano di capire quel che succedeva, e provavano a indirizzare il corso degli eventi. Nel grande caos, ognuno ha fatto la sua parte”.
Riprendo un articolo di Vittorio Feltri, apparso sul Giornale. Con la sua ironia amara e l’espressione prosaica che lo rende simpatico, il giornalista pesa fatti e persone smitizzando luoghi comuni, ma senza saccenteria, anzi col tono di compiaciuta complicità e l’indulgenza di chi ne ha viste tante. Questa volta parla di giornali e di giornalisti.
I giornalisti si sopravvalutano. I direttori, poi, si sentono investiti di una missione e pensano di essere chissà chi: dimenticano che il loro peso (momentaneo) è commisurato alla stazza della testata che guidano. Se ne ricordano soltanto quando, licenziati, verificano di non contare più nulla. I loro ex subalterni (perdonate il termine antipatico), nel giro di alcune ore, li considerano zero e, incontrandoli in corridoio, dopo un minuto di convenevoli sono annoiati e trovano un pretesto per scaricarli. Succede a tutti i capi di essere snobbati una volta persi i galloni: sarà lo stesso per Ferruccio de Bortoli che ha appena abbandonato la poltronissima del Corriere della Sera, occupata in due riprese per 12 anni. Più di lui, in quel posto elevato credo che siano durati, nella prima metà del secolo scorso, solo Luigi Albertini e Aldo Borelli, le cui vicissitudini sono ignote alle ultime generazioni. Immagino lo stato d’animo di Ferruccio: egli proverà un senso di solitudine, parente stretta dell’inutilità. Il Corriere non è un giornale qualsiasi: è il quotidiano per eccellenza, il più autorevole e importante d’Italia, antico e glorioso. Chiunque faccia il nostro mestiere di scribi sogna di lavorarci e di dirigerlo, privilegio riservato a una ristretta élite di fortunelli. Si dice che gli addetti alla compilazione di articoli e di pagine si dividano in due categorie: quelli che hanno una scrivania in via Solferino 28 e quelli che la vorrebbero. Chi presta opera in altre redazioni finge di essere soddisfatto; in realtà mira al Corriere. Coloro che lo hanno lasciato per recarsi altrove, attratti da stipendi più consistenti, lo rimpiangono: in cuor loro desiderano rientrarci, magari nel ruolo di numero uno. Aspetta e spera. Quando viene scelto il comandante del primo foglio nazionale, e se ne pronuncia il nome, ogni collega dice a se medesimo: se hanno assunto quello lì potevano ingaggiare anche me.
Il Corriere è un microcosmo che riflette alla perfezione il macrocosmo sociale. Ciò che avviene nelle sue stanze è simile a quanto si svolge nei palazzi del potere politico: stesse tribolazioni, accese rivalità, ambizioni sfrenate. Nell’azienda editoriale di cui trattiamo, de Bortoli è nato professionalmente al tempo dei Crespi (padroni storici), ai quali l’anno appresso, 1974, subentrarono i Rizzoli, una famigliona che, morto il capostipite Angelo senior, è stata in grado di dissipare (con impegno) un patrimonio immenso. Capita. D’altronde, chi tocca il Corriere crepa o si fa molto male. Esso è portatore sano di sfiga. Molti degli imprenditori che lo hanno posseduto, o hanno cercato di possederlo, sono finiti male. L’avvocato Gianni Agnelli lo raccattò per due soldi al termine dell’amministrazione controllata: un affare con i fiocchi. Egli però defunse consegnando agli eredi una Fiat a pezzi. E a pezzi sarebbe rimasta se Gianluigi Gabetti, genio finanziario del gruppo, non avesse estratto dal cilindro magico un coniglio mannaro: Sergio Marchionne. Un fenomeno. Roberto Calvi, quello del fu Banco Ambrosiano, ci rimise le penne: impiccato a Londra con in tasca un’opzione per rilevare l’impresa devastata dalla gestione rizzoliana. Orazio Bagnasco cercò di accaparrarsela e tirò le cuoia prematuramente. Altri che tentarono di mettere le mani sul mitico organo di informazione furono sbattuti in galera, taluni senza colpa. È la certificazione che questo giornalone è fonte di iella esiziale. Coloro che da esso sono fuggiti hanno avuto fortuna. Invece quelli che ne sono stati al timone, tranne poche eccezioni, tra cui Paolo Mieli, sono spariti nella generale indifferenza. Proprietari e direttori accomunati da un triste destino e dalla scalogna. Mi viene alla mente Giorgio Fattori, amministratore delegato e presidente della Rcs, persona di spessore: ebbe guai giudiziari e di salute. Deceduto. Lo rammento con gratitudine per avermi tolto dal Corriere e affidato L’Europeo , dove fui accolto con due mesi di sciopero, al quale resistetti col suo gelido sostegno. Via Solferino dovrebbe cambiare nome e chiamarsi viale del Cimitero. Non vi transito da un ventennio nel terrore di disgrazie, malattie, sciagure varie. Consiglio a de Bortoli, visto che è sopravvissuto a lungo agli influssi malefici del sito, di stare alla larga dal quartiere Brera. Non si sa mai. Contestualmente auguro al neodirettore, Luciano Fontana, di essere immune dalle note maledizioni. Egli, peraltro, essendo scampato alle stragi e al fallimento dell’ Unità (la cui dipartita è ancora oggetto di varie feste organizzate dai compagni per motivi misteriosi), dovrebbe avere gli anticorpi necessari per sopravvivere anche alle iatture del Corriere . Ma sia prudente. In ogni angolo della redazione si celano insidie. Non intrattenga rapporti coi sindacati interni, altrimenti detti Comitati di redazione, che hanno provocato più disastri dell’Isis.
Torniamo al dimissionato Ferruccio. La sua non breve permanenza nella ditta è stata contrassegnata da eventi memorabili, a cominciare dalla sua assunzione al Corriere dei Ragazzi nel 1973. All’epoca era un giovanottino. Gli premeva fare parte della categoria dei pennini d’oro ed ebbe soddisfazione. Nel 1975 passò al Corriere d’Informazione, diretto da un talento sciupato, Cesare Lanza, dove si impratichì. Era talmente bravo e intelligente che nel giro di pochi mesi divenne comunista ed esponente sindacale, manifestando una precoce predisposizione per il potere. Non ha scritto articoli indimenticabili, attività che non gli interessava e non gli interessa. Ma ha fatto cose assai più redditizie, realizzate con maestria: caporedattore di qui e di là, direttore di qui e di là, dal Sole 24 Ore al Corriere . Un’irresistibile ascesa che lo ha issato due volte sul trono da cui è sceso un paio di giorni orsono. I suoi meriti sono riconosciuti da chiunque non sia in malafede. L’uomo ha stile innato, capacità manovriere, mestiere consumato: praticamente è un sughero inaffondabile. Non è responsabilità sua se la carta stampata è in crisi e se migliaia di edicole hanno chiuso per disperazione, vendendo una miseria di copie. Forse l’intera categoria cui appartengo non ha saputo adeguarsi al progresso tecnologico e continua a confezionare giornali con tecniche superate, inconsapevole che la concorrenza di Internet e delle tv è micidiale. Per reggerla si imporrebbe un mutamento dello spartito. Ma questo è un discorso troppo complesso per essere affrontato nella presente circostanza. Resta da dire che de Bortoli è arrivato in cielo non perché sia un Bel Ami, figuriamoci. All’inizio del suo cammino è stato al massimo un Ami. Strada facendo si è trasformato in un duro, conservando modi garbati. Invecchiando, gli uomini imparano a essere spontanei, trascurano gli opportunismi e mandano al diavolo con il sorriso sulle labbra chi li importuna, a costo di pagare un prezzo salato: prima o poi qualcuno si libera di loro. Ecco. Ferruccio adesso è libero. Anche di cambiare professione e di investire la liquidazione a piacimento. In bocca al lupo, caro collega: benvenuto tra noi ex ragazzi di bottega.
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkNoLeggi di più