DATA ROOM: IL FISCO CHE NON C’E’

DATA ROOM: IL FISCO CHE NON C’E’

Per far quadrare i conti dello Stato senza tagliare i servizi, dalla sanità alla scuola, c’è un solo modo: ridurre l’evasione. Il Mef stima 107 miliardi l’anno di tasse non pagate, che diventano 191 se includiamo anche l’economia sommersa, secondo lo studio del parlamento europeo. Fatturazione e scontrini elettronici stringono le maglie ai piccoli contribuenti, ma bisogna investire sugli analisti per il controllo dei dati. La lotta all’evasione di grandi imprese e multinazionali richiede invece monitoraggi mirati, e qui l’investimento nel personale è ad altissimo rendimento. I «grandi contribuenti», quelli sopra i 100 milioni di euro di fatturato, in Italia sono solo 3.320 (quelli noti): lo 0,06% dei 6 milioni di partite Iva. Ma nell’ultimo anno hanno garantito il 35% dell’evasione recuperata dal fisco.

Entrate da controlli sostanziali: meno 23,8%

Nonostante ciò, la Corte dei Conti nell’ultimo rendiconto generale dello Stato dice che le entrate da accertamenti sostanziali sono in flessione di 5,6 miliardi: meno 23,8% rispetto al 2017, meno 9% rispetto al 2016. I soggetti in campo per il recupero del dovuto sono Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, Procure, Dogane. Tutti con un problema comune: il personale. Ovvero la materia prima necessaria a una seria attività di contrasto.

Agenzia delle entrate: mancano 4000 dipendenti

L’Agenzia delle entrateha 36.069 dipendenti. Dal 2000 a oggi ne ha persi circa 10 mila. Con quota 100 altri 1.146 sono pronti a uscire. In più 800 dirigenti, nel 2015, sono stati retrocessi a impiegati perché erano stati promossi internamente senza vincere un concorso. Una via «forzata» anche dal blocco delle assunzioni. Sta di fatto che il loro stipendio è sceso da 3.500 euro a 1.700, e così quelli che avevano prodotto i risultati migliori sono andati ad alimentare i grandi studi di consulenza fiscale che assistono la «concorrenza», e cioè le grandi imprese. E non lo avrebbero mai fatto se la risposta dello Stato non fosse: «ponti d’oro a chi se ne va». Risultato: tagliati i controlli, poiché i servizi allo sportello non possono essere certo sacrificati.

Tanti concorsi, tutti bloccati

Per far ripartire la macchina servono 4000 assunzioni e almeno 350 nuovi dirigenti. Il passaggio obbligato è quello dei concorsi. Nel 2010 è stato dato il via libera a una selezione per 175 dirigenti. Peccato che sia stata bloccata tre volte da altrettanti ricorsi. Ora il Consiglio di Stato ha dato ragione all’Agenzia, ma per completare l’iter i dirigenti selezionati diventeranno operativi fra due anni. Bloccato anche il concorso per mille funzionari ad alta responsabilità tecnica, e ora si va davanti al Tar. Un altro bando per 160 dirigenti è uscito a inizio 2019. Bloccato pure questo, e si aspetta la pronuncia della Corte costituzionale. Infine il concorso per 510 funzionari, rimandato per difficoltà a trovare i locali. La prima prova finalmente si terrà il 18 settembre. Solo in Lombardia, per 115 posti, le domande sono 23 mila.

Chi scova i grandi contribuenti

Gli specializzati dell’Agenzia sui controlli alle banche sono, in tutto il Paese, soltanto otto. Un settore che dovrebbe essere sempre «blindato», sia di mezzi sia di personale, è quello che si occupa dei 3.200 grandi contribuenti presenti in Italia, proprio perché spesso l’evasione è di grandi dimensioni. Le Regioni che hanno un dipartimento dedicato sono nove: Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Sicilia, Puglia e Piemonte. Per controllarli tutti possono contare su circa 500 persone. La metà di questi «grandi contribuenti», cioè 1676, si trovano in Lombardia. Per monitorarli il dipartimento dell’Agenzia delle Entrate lombardo ha soltanto 179 persone, di cui 67 dedicati ai controlli sostanziali.

Il modello Milano

In questo quadro emerge il modello Milano. Anche qui le risorse sono scarse, ma una pervicace attività di coordinamento fra Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza e Procura, dal 2015 a oggi, ha portato all’erario 5 miliardi e 633 milioni di euro grazie a patteggiamenti e accordi firmati da 115 soggetti, e il 90% erano proprio «i grandi». La lista è nota: Apple nel 2015 ha dovuto pagare al fisco 318 milioni di euro; Google 306 milioni nel 2017. Nel 2018 Amazon ha dovuto versarne 100, altrettanti Facebook e 79 il gruppo Mediolanum. Quest’anno è toccato a Kering (gruppo Gucci), 1,2 miliardi, mentre Ubs ha «scucito» 102 milioni di euro. Anche grazie a questo risultato siamo riusciti a calmare le acque di Bruxelles sui nostri conti pubblici. Se lo Stato fosse un’azienda privata, chiederebbe a queste tre galline dalle uova d’oro: «visto che a Milano sono concentrati il 32% dei grandi contribuenti, di cosa avete bisogno per marciare a pieno regime?». Ecco cosa manca.

Un turbo senza carburante

Il settore dedicato dell’Agenzia delle entrate della Lombardia negli ultimi 3 anni ha perso il 13,5% dei dipendenti. Mancano 30 funzionari e i dirigenti dall’anno prossimo, per tutta la Lombardia, saranno solo 3. Guardia di Finanza Milano, un’eccellenza, ma a occuparsene ci sono 200 persone. Ne servirebbero altre 100 e un investimento in strutture informatiche. Le grandi aziende hanno un business sempre più frammentato fra vari Stati, ed è molto difficile scovare dove stanno producendo profitti. Recuperare il dovuto richiede grandi competenze e un’adeguata formazione: per preparare un investigatore servono 7-8 anni di esperienza e continui aggiornamenti. Alla Procura di Milano, fino a qualche anno fa, i magistrati dedicati ai reati societari, economici, fiscali, corruzione, erano 15. Oggi sono in 10. Vista la potenzialità del territorio, la complessità delle indagini, e la necessità di non sottrarre magistrati ad altri dipartimenti, ne servirebbero altri dieci, supportati da altrettanti amministrativi e polizia giudiziaria.

Il paradosso

Se queste tre istituzioni fossero dotate del personale necessario, quanto denaro in più entrerebbe nelle casse dello Stato? E perché il modello Milano, che è osservato dagli inquirenti spagnoli e francesi, non viene replicato nel resto del Paese? Questo tipo di collaborazione non c’è in Emilia (anche se qualche tentativo si sta facendo), manca nel ricco Veneto, non c’è a Napoli. C’è poi un fattore indiretto a costringere la piazza di Milano a essere sempre sotto organico, e riguarda sia l’Agenzia delle Entrate, che la Gdf e la Procura: il costo della vita nel capoluogo lombardo è alto, e molti vincitori dei concorsi arrivano dal Sud, ma appena possono chiedono il trasferimento a casa, dove con uno stipendio da 1500 euro si campa meglio.

Cooperative compliance

C’è poi la questione che riguarda la collaborazione tra il Fisco e i big dell’impresa con ricavi superiori ai 10 miliardi. Oggi le società che aprono i libri contabili al Fisco prima ancora di fare la dichiarazione dei redditi, sono in tutto una ventina, quasi tutte a partecipazione pubblica o fornitori pubblici (Enel, Ferrovie, Leonardo, Atlantia). Dal primo gennaio 2020 la «cooperative compliance» sarà allargata a tutte le aziende sopra i 100 milioni di fatturato. Ma il personale che se ne occupa non c’è.

Il milione di italiani con 85 miliardi su conti esteri

Gli italiani che hanno depositato 85 miliardi su conti esteri superano il milione. Sono i numeri prodotti dallo scambio automatico di informazioni fra 103 Stati (CRS). Per verificare se questi soldi sono stati o meno dichiarati, e di conseguenza recuperare il dovuto, servono persone e mezzi performanti. Carenti.

Le banche dati che non si parlano

C’è il problema delle banche dati che non si parlano fra loro: quella dell’Agenzia delle Entrate non è a disposizione della Guardia di finanza. All’Agenzia non sono disponibili le segnalazioni operazioni sospette, che invece ha la Gdf. Perciò se l’Agenzia sta facendo un accertamento su tizio, potrebbe non sapere che quella stessa persona è stata segnalata per riciclaggio. Le Dogane invece non condividono la loro (Aida) con nessuno.

Evadere non è un reato grave

Infine una domanda: lo Stato considera l’evasione un reato grave? La risposta è no. Sul piano normativo l’evasione è al pari di un reato bagatellare: se rubi un portafogli con dentro 50 euro o evadi 100 milioni la procedura è la stessa. Finisci davanti ad un giudice monocratico e l’accusa è sostenuta da un viceprocuratore onorario, mentre la difesa si porta i più grandi studi professionali. Davanti al giudice monocratico finiscono i reati meno gravi, quelli considerati «gravi» finiscono davanti ad un collegio composto da tre giudici. Lo Stato quindi considera poco grave evadere 100 milioni o un miliardo, anche quando l’evasione è fraudolenta (frutto di false fatturazioni). Una partita difficile da vincere se non cambia l’approccio dello Stato.

DATA ROOM è la rubrica di approfondimento di MILENA GABANELLI per il Corriere della sera

DATA ROOM:LEZIONE DI ECONOMIA CIRCOLARE

DATA ROOM:LEZIONE DI ECONOMIA CIRCOLARE

I DATI RACCOLTI DA MILENA PARLANO CHIARO: 9 MILIARDI FRA 30 ANNI SARANNO TROPPI, GIA’ ADESSO UN SOLO PIANETA NON CI BASTA- BISOGNA VIVERE E CRESCERE CON ALTRI MODELLI, PRODURRE E CONSUMARE CON I MODI ALTERNATIVI DELL’ECONOMIA CIRCOLARE.

 

 

gabanelli economia circolare 4

Ogni anno l’ economia mondiale consuma quasi 93 miliardi di tonnellate di materie prime tra minerali, combustibili fossili, metalli e biomassa. Di queste, solo il 9% sono riutilizzate. Il consumo di risorse è triplicato dal 1970 e potrebbe raddoppiare entro il 2050. Secondo il Global Footprint Network, per mantenere l’ attuale stile di produzione e di vita, un solo Pianeta non ci basta, ne servirebbe 1,7, ovvero un’ altra Terra.

Nel 2018, il giorno in cui abbiamo consumato tutte le risorse naturali che il Pianeta è in grado di rigenerare in un anno, è caduto il primo agosto: mai così presto. È come finire lo stipendio al 20 del mese, ma nessuno ti fa credito per gli altri 10 giorni. E i mutamenti climatici sono legati anche all’ utilizzo di materie prime.

raccolta differenziata

Un modo per fare la raccolta differenziata

Il 62% delle emissioni di gas serra (escluse quelle provocate dal consumo del suolo) avviene durante il processo di estrazione e lavorazione delle materie prime, mentre solo il 38% in fase di consegna o utilizzo dei prodotti.

Che succederà fra 30 anni, quando saremo 9 miliardi di persone e il riscaldamento globale più su di un altro grado e mezzo? Onu, Ocse e governi sono d’ accordo: l’ unica alternativa per salvare il pianeta è l’ economia circolare. A Davos, a gennaio, ne è stato stimato il valore potenziale: 3.000 miliardi di dollari nel mondo; 88 miliardi solo in Italia, con un bacino di 575 mila occupati, secondo l’ ultimo bilancio del Conai, il consorzio nazionale degli imballaggi.

gabanelli economia circolare 5

Vuol dire che si può crescere cambiando modello di sviluppo. L’ economia circolare in concreto «chiude il cerchio» del ciclo di vita dei prodotti, incrementando il loro riutilizzo, favorendo i risparmi energetici, e diminuendo gli sprechi in ogni settore.

DIFFERENZIATA CON CHIP

Qualche esempio: oggi in Europa un’ auto rimane parcheggiata in media per il 92% della sua «esistenza»; il 31% del cibo viene sprecato lungo la catena del valore, gli uffici in una giornata sono mediamente utilizzati per il 35%-40%, mentre la durata dei manufatti delle nostre industrie non supera i 9 anni.

Uno dei più autorevoli studi del settore, il rapporto «Growth Within» stilato da McKinsey e Fondazione MacArthur, ha calcolato quanto costa al Vecchio Continente la somma di questi sprechi: 7,2 trilioni di euro. Quanto potenziale ci sia nell’ economia circolare lo dimostra il mondo sempre più numeroso delle startup e delle aziende che innovano sui prodotti esistenti e sulla loro modalità di produzione.

arte del ricicloSolo rimanendo in Italia, c’ è per esempio il filo in nylon riciclato prodotto da Aquafil e usato anche da Adidas per i suoi costumi. Le traverse ferroviarie realizzate con pneumatici dismessi e plastica da rifiuto urbano di GreenRail. Il lanificio Bellucci di Prato utilizza lana 100% rigenerata, e proprio a Prato, dove si lavorano stoffe da oltre mille anni, già nel secolo scorso era stato lanciato il primo (e inconsapevole) modello di produzione sostenibile con la lana rigenerata: materia prima che scarseggiava e che quindi veniva «stracciata» per poi essere recuperata nella produzione di nuovi abiti.

L’ azienda bergamasca Grifal produce il cartone ondulato, totalmente riciclabile e così resistente da poter sostituire il polistirolo o altri materiali chimici da imballaggio. Lo scorso giugno l’ azienda si è quotata all’ Aim, e dopo un solo mese il valore delle sue azioni ha registrato un più 160%. C’ è la Novamont, l’ azienda italiana che ha creato la plastica biodegradabile, utilizzata sia per le buste della spesa che in agricoltura: i teli per la pacciamatura si «compostano» nel terreno senza lasciare residui nocivi.

gli asini che fanno la differenziata a riace

Riace, un asino adibito alla raccolta differenziata

Contro l’ obsolescenza programmata, un’ azienda olandese ha progettato lo smartphone Fairphone, costruito per essere riparato: è modulare e ogni pezzo può essere sostituito facilmente. Costa 399 euro e le materie prime non provengono da zone di conflitto. È chiaro che per invertire direzione, l’ industria globale dovrebbe riconvertirsi. Ma quanto costa? Gli studi non lo dicono. Alcuni Stati hanno provato a calcolarlo: il Regno Unito stima un costo pari al 3% del suo Pil.

gabanelli economia circolare 7Eppure i cittadini apprezzano e sostengono le produzioni sostenibili. Secondo l’ analisi realizzata da PwC con Centromarca e Ibc, nel 2019 i consumatori di tutto il mondo cercheranno sempre più alternative salutari e naturali e i valori etici influenzeranno le decisioni d’ acquisto. I numeri: il 37% del campione vuole prodotti con packaging eco-friendly, il 41% dichiara di evitare il più possibile l’ uso di contenitori di plastica, più di due terzi dei consumatori è disponibile a pagare un prezzo più alto per prodotti a km zero; il 42% pagherebbe di più per prodotti ecosostenibili; il 44% è attento all’ origine e vuole sapere se il bene è stato prodotto eticamente.

l'arte del riciclo 11E allora perché, oggi, solo il 9% della produzione è «circolare?» Cosa resta, a conti fatti, degli studi e delle proiezioni economiche? Ci sono le certificazioni e i premi per i prodotti più «virtuosi» come quella Cradle to Cradle , «dalla culla alla culla» per prodotti progettati in alternativa al modello «dalla culla alla tomba», che identifica prodotti ad alto spreco e zero riutilizzo. C’ è una direttiva europea, la 2014/95/UE, in Italia recepita a fine 2016, che ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società quotate, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l’ obbligo di rendere note le loro politiche di sostenibilità ambientale, sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e dei rischi. Il tutto secondo il principio del Comply or explain : chi non fa nulla deve spiegare il perché. Esistono poi dei programmi come il CE100 della Ellen MacArthur Foundation, che riuniscono le aziende più impegnate sul fronte degli obiettivi ambientali e le promuovono. Ma alla fine una normativa di sistema non c’ è, e la maggior parte dei prodotti sono progettati per durare il meno possibile.

Nel campo delle energie rinnovabili il motore trainante è l’ Europa, la nostra Enel è leader nel mondo, e nel mercato sono entrati i pannelli riutilizzabili, ma oggi pesano solo per un quinto della produzione globale di energia. Un esempio su tutti racconta come continua a girare il mondo: l’ Arabia Saudita aveva annunciato il più grande impianto di energia solare del pianeta. L’ obiettivo del programma da 109 miliardi di dollari era quello di generare – da solare – un terzo del fabbisogno energetico del Paese entro il 2032. Erano sei anni fa, nulla è stato fatto.

gabanelli economia circolare 6Perché? Quando nel 2016 il barile era sceso a 27 dollari, per il regno saudita la transizione alle rinnovabili sembrava ormai imprescindibile, ma appena il prezzo del petrolio è salito, l’ urgenza è svanita. L’ unica vera pressione, oggi, arriva dalla consapevolezza degli adolescenti di tutto il mondo, che chiedono di avere un futuro abitabile… mentre i loro padri glielo stanno cucinando a fuoco lento.

Milena Gabanelli e Francesca Gambarini per il “Corriere della Sera – Dataroom”

 

DATAROOM: SUI FONDI EUROPEI TOCCHIAMO IL FONDO

DATAROOM: SUI FONDI EUROPEI TOCCHIAMO IL FONDO

gabanelli fondi ue 5

L’ Italia ha dato molto all’ Unione Europea: solo nel 2017, circa 4,4 miliardi in più di quanto abbia ricevuto da Bruxelles. Nel 2016, ha avuto 11,5 miliardi ma ne ha sborsati 13, 9. E fra il 2011 e il 2017, ha accumulato in tutto 36,1 miliardi di saldi negativi. Nello sbilancio tra il dare e l’ avere, l’ Italia arriva quarta, dopo la Germania, il Regno Unito e la Francia. Ma chi decide quanto «dare» e quanto «avere»? Il «dare» si decide in base ai trattati da cui è nata l’ Unione, firmati da tutti i Paesi.

FONDI EUROPEIPrincipio generale: chi sta meglio aiuta chi sta peggio, per favorire la stabilità e la pace sociale dell’ Ue. Il bilancio dell’ Unione è definito in un piano di sette anni, rappresenta l’ 1% del Prodotto interno lordo totale dei Paesi membri, ed è sottoposto annualmente all’ approvazione dell’ Europarlamento, sola istituzione direttamente eletta dai cittadini europei, cioè da noi tutti (nessuno può dire «non c’ ero»).

Fondi Europei per il mezzogiornoPertanto ogni anno, ogni Stato versa a Bruxelles un contributo basato sul reddito nazionale lordo, su alcuni dazi doganali, su un’ aliquota Iva, e così via. Bruxelles a sua volta ricambia erogando i suoi fondi. Se un Paese taglia il suo contributo, come ha minacciato di fare Roma, va incontro al 2,5% di interessi di mora sulla somma dovuta, più lo 0,25% per ogni mese di ritardo.

Fatti due calcoli sulle rispettive popolazioni, ogni cittadino del Paese più ricco, la Germania, dà a Bruxelles circa 286 euro all’ anno (162 euro in più di quanto riceva). Quello più povero, il greco, versa 140 euro ma ne incassa 541, cioè 401 in più. Mentre ogni italiano è in credito verso Bruxelles di circa 39 euro. Errori e contestazioni sono possibili per tutti.

Ma chi amministra meglio, ha più speranze di conquistarsi la fiducia di Bruxelles e dunque i suoi fondi. Lo fa capire bene la nostra Corte dei Conti, nella relazione 2018 depositata lo scorso 9 gennaio: «la dinamica degli accrediti dipende, oltre che dalla preassegnazione dei fondi a ciascun Paese nell’ ambito della gestione concorrente, anche dalla capacità progettuale e gestionale degli operatori ». Nel piano 2014-2020 la Ue ha stanziato a favore dell’ Italia 42,7 miliardi che, aggiunti a 30,9 miliardi di co-finanziamento nazionale, prefigurano 73,6 miliardi da investire in programmi di occupazione, crescita, tutela dell’ ambiente, agricoltura (sono fondi strutturali, quelli che rappresentano la metà di tutti i finanziamenti europei).

Dopo la Polonia, l’ Italia è il Paese Ue cui Bruxelles ha assegnato più soldi. Ma è anche il sestultimo per capacità di spesa: fino allo scorso ottobre abbiamo speso solo il 3% dei fondi disponibili, contro una media europea del 13%. Cosa si rischia? Lo scrive la Commissione Europea: «se una somma stanziata a favore di un dato programma non viene ritirata entro la fine del secondo anno a decorrere dall’ approvazione dello stesso, tutte le somme di denaro non versate non saranno più disponibili per quel programma».

scontro tra due treni in pugliaEd è il conto che l’ Ue sta presentando a Napoli: potrebbe revocare i fondi già stanziati per la linea 6 della metropolitana (98 milioni), e quelli per la via Marina (16 milioni). A rischio anche gli 813 milioni per la Tav. La Corte dei Revisori Ue nel Rapporto 2018 scrive: sulla programmazione 2007/2013 l’ Italia ha accumulato 950 milioni di fondi non impiegati e progetti sospesi, e in questo è seconda in Europa dopo la Romania.

Secondo i dati della Commissione, l’ 89% dei grandi progetti italiani presentati nel 2007-2013 aveva un’ insufficiente analisi costi-benefici, il 68% errori di pianificazione o di conoscenza del mercato interno, il 51% insufficiente valutazione dell’ impatto ambientale e copertura finanziaria.

SCONTRO DI DUE TRENI IN PUGLIA

12 luglio 2016: scontro di treni in Puglia

Fra gli esempi di sprechi marcati da burocrazia e incapacità, ce ne sono stati pure di tragici. Nel novembre 2007, Bruxelles approva il Programma di sviluppo regionale della Puglia. Comprende anche il «Grande Progetto» di raddoppio dei 13 pericolosi chilometri di binario unico sulla linea Corato-Barletta.

Nel febbraio 2008, la Regione Puglia approva le modalità dell’ intervento Ue, ma dal 2011 in poi, il Programma viene più volte modificato. Nel frattempo, al «Grande Progetto» vengono assegnate diverse autorità di gestione e diversi «organismi» per valutare le pratiche amministrative, un intrico di competenze. Il 19 aprile, nove anni dopo la prima approvazione giunta da Bruxelles, e quattro anni dopo l’ erogazione di 180 milioni, parte la prima vera gara d’ appalto per il raddoppio del binario unico. Troppo tardi. Il 12 luglio 2016, su quello stesso binario, due treni si scontrano: 23 morti, 50 feriti.

Quando non sono tragedie, sono soldi buttati. Nel gennaio 2018, il tribunale della Corte di Giustizia Ue conferma il taglio di 380 milioni dal totale di 1,2 miliardi del Fondo sociale Ue per la Sicilia. Ecco alcune irregolarità citate dai giudici: «progetti presentati dopo la scadenza dei termini, progetti non ammissibili alle misure per le quali erano stati dichiarati. Spese relative al personale non correlate al tempo effettivamente impiegato per i progetti; consulenti esterni privi delle qualifiche richieste; spese non attinenti ai progetti, spese contabilizzate in modo inappropriato; violazione delle procedure di appalto e di quelle per la selezione di docenti, esperti e fornitori».

ALESSIA MOSCA

Alessia Mosca

Ce la caviamo bene anche con le frodi. Le segnalazioni di irregolarità riguardanti Roma giunte dall’ Olaf (l’ autorità anti-frode di Bruxelles) sono quintuplicate nel periodo che va da 2007 e il 2013, solo nel 2017 si è passati da 927 a 1227. Un esempio pittoresco: Val Trompia, maggio 2018. Tre allevatori bresciani prendono in affitto pascoli in alta quota per le loro nuove mandrie, mirando ad incassare 200 mila euro di fondi Ue della Politica agricola comunitaria. Ma in Val Trompia ci sono anche i carabinieri forestali, che un giorno spediscono un paio di droni a curiosare dall’ alto su quei pascoli. Così scoprono che lassù non c’ è nemmeno una mucca. I tre bresciani vengono denunciati. Loro, certo, non volevano essere «contributori netti» di Bruxelles.

gabanelli fondi ue 1Ma c’ è qualcos’ altro, che ci danneggia: «L’ Italia non è abbastanza presente a Bruxelles, in tutti i sensi – dice Alessia Mosca, eurodeputata autrice del libro «L’ Unione, in pratica: un’ Europa a misura d’ Italia» -. Spesso non ci siamo ai tavoli più importanti dove si decide, soprattutto nei progetti transnazionali che calamitano i fondi diretti più importanti, dove devi dimostrare di avere un sistema-Paese che può stare in un network.

Ma non molti nostri politici parlano bene l’ inglese o il francese, in più i ministri preferiscono restare nei loro collegi che andare alle riunioni di Bruxelles, dove se invece ci sei, puoi negoziare». In effetti preferiscono parlar male dell’ Europa, anche senza conoscerne i meccanismi, dai cortili di casa. E i cortili applaudono.

Milena Gabanelli e Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera – Dataroom”

 

DATA ROOM SULLE INCOMPIUTE

DATA ROOM SULLE INCOMPIUTE

QUANTO CI COSTA IL RINVIO DELLE 300 GRANDI OPERE PUBBLICHE? MILENA GABANELLI FA LE PULCI AL GOVERNO GIALLO-VERDE, INDECISO FRA STOP AND GO, MENTRE BALLANO FINANZIAMENTI PER  MILIARDI E MIGLIAIA DI POSTI DI LAVORO.

 

Si fa presto a dire «fermiamo tutto e rifacciamo i conti», ma anche i ripensamenti hanno un costo: il tira e molla sulle opere in corso ha dato il colpo di grazia a un intero settore. Giugno 2018, s’ insedia il nuovo governo e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli decide di stoppare i finanziamenti a tutte le grandi opere già in corso o programmate: dal tunnel del Brennero (appalti per un valore di 5,9 miliardi), alla pedemontana veneta (2,3 miliardi), dall’ alta velocità Brescia-Padova (7,7miliardi), al Terzo Valico tra Genova e Milano (6,6 miliardi), oltre alla Torino-Lione. Il ministro vuole rivedere il rapporto costi-benefici. Dopo sei mesi di conti, il 17 dicembre, ha scoperto che con il Terzo Valico (opera urgente, con cantieri aperti da anni) è meglio andare avanti.

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Beppe Grillo e sotto Di Maio ad una manifestazione No Tav

Le altre opere, a parte la discussa Torino-Lione – dove in ballo ci sono i finanziamenti europei – a oggi sono ancora bloccate. Nel frattempo le imprese di costruzioni, che stavano già sul lastrico, sono a rischio fallimento. Da luglio a dicembre hanno fatto richiesta di concordato Astaldi, Grandi Lavori Fincosit di Roma, la Tecnis di Catania, e da ultimo la più grande cooperativa italiana, la Cmc di Ravenna. Per Condotte è andata peggio: è finita in amministrazione straordinaria per evitare la liquidazione degli asset.

DI MAIO NO TAVOperai, manovali, carpentieri, ingegneri, geometri: zero. Al lavoro non c’ è più nessuno, perché nessuno viene più pagato. Quindici delle prime 20 imprese sono in stato pre-fallimentare o in forte stress finanziario perché le entrate previste sono bloccate, mentre le uscite nei confronti dei fornitori (che continuano ad accumularsi) costringono molti piccoli imprenditori a chiudere.

Parliamo di aziende il cui destino dipende da quanto «strette» sono le relazioni politiche, quasi tutte con guai giudiziari, indebolite dai tempi ingiustificabili della burocrazia e dalle modalità delle gare, dove spesso vince chi fa il prezzo più basso, obbligando le imprese in sub-appalto a tirarsi il collo.

gabanelli quanto ci costa non fare le opere 3L’ esito complessivo è che nessuno rispetta le scadenze, i rimpalli di responsabilità finiscono nei tribunali in contenziosi senza fine con enormi richieste di risarcimento alle stazioni appaltanti pubbliche. La più grande, Anas, che proprio a causa dei ritardi ha cancellato solo nel 2018 circa 600 milioni di euro di lavori, deve ora affrontare le rivalse economiche delle imprese, che a loro volta sono esposte con banche e fornitori. Alla fine le richieste vengono soddisfatte al 10-15% con ritardi mostruosi che uccidono le aziende dell’ indotto.

Mentre il fondo rischi da contenzioso di Anas di circa 9 miliardi serve a gestire i contraccolpi giudiziari, i costi di ri-cantierizzazione da parte di altri contractor sono quantificabili in un 20% secco in più del prezzo pattuito. Il corollario è quello del crollo dei bandi di gara pubblici (meno 67% nell’ ultimo anno e mezzo), per cui oggi Anas si trova priva di autonomia finanziaria se esce dal perimetro di Ferrovie dello Stato. La sua sopravvivenza è appesa agli iter lunghissimi dei finanziamenti pubblici che partono dai Consigli dei ministri e transitano per mesi nelle commissioni parlamentari.

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Milena Gabanelli

Alla difficoltà di realizzare progetti approvati (300 sono le opere incompiute), si aggiungono i 21 miliardi bloccati sulle grandi opere in corso, e il fatto che negli ultimi tre anni oltre 10 miliardi di investimenti in infrastrutture, messi nero su bianco, non sono partiti. Tutto questo trascina inquantificabili costi occulti e il risultato è che le grosse imprese del settore stanno andando fuori mercato, 418 mila potenziali posti di lavoro sono saltati, mentre 120 mila aziende sono fallite.

L’ agenzia di rating Standard&Poor’ s l’ ha appena definito «l’ anno nero delle costruzioni».

La causa principale è nel mostro a cinque teste della burocrazia, e qualcuno punta il dito contro il nuovo codice degli appalti che ha introdotto ulteriori controlli sulle imprese sottoponendole al visto preventivo dell’ autorità anti-corruzione. La patente di legalità però è inevitabile perché le infiltrazioni malavitose sono talmente ramificate da toccare decine di sub-fornitori. Sarebbe invece il caso di accendere un faro sul ruolo del Cipe.

Il comitato interministeriale per la programmazione economica alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi, che dovrebbe fungere da distributore delle risorse, ma viene interpellato per ogni modifica progettuale anche quando il costo dell’ opera resta immutato. Ogni passaggio «costa» 6-8 mesi.

Il governo ha trovato in cassa 150 miliardi disponibili già stanziati, di cui è stato speso meno del 4%. Soldi immediatamente utilizzabili grazie a un accordo con la Banca europea degli investimenti.

Ci sono 60 miliardi destinati al Fondo Investimenti e sviluppo infrastrutturale; 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione; 15 miliardi di fondi strutturali europei; 9,3 miliardi di investimenti a carico di Ferrovie dello Stato che controlla l’ altra grande stazione appaltante del Paese, Rfi, Rete ferroviaria italiana; 8 miliardi di misure per il rilancio degli enti territoriali; 8 miliardi per il terremoto; 6,6 miliardi nel contratto di programma dell’ Anas. Ma il governo ha preferito fermare tutto, e attingere da lì i fondi per la riforma delle pensioni, il reddito di cittadinanza, la flat tax per le partite Iva.

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Nel negoziato con la Commissione Ue sono stati proprio gli investimenti a essere sacrificati. L’ impostazione complessiva prevede ancora 15 miliardi nei prossimi tre anni per le grandi opere, ma al 2019 è stato sottratto un miliardo per destinarlo come copertura di altre misure, togliendo solo a Ferrovie dello Stato circa 600 milioni. I costruttori per stare a galla hanno iniziato la corsa disperata a vincere maxi commesse all’ estero, per arricchire i portafogli-lavori e godere di maggiore credibilità verso le banche, il mercato, le agenzie di rating.

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Spesso propositi di lungo termine che finiscono per appesantire i conti (già in rosso) quando c’ è da anticipare il costo di alcune opere. Alla fine il rischio è quello di spianare la strada all’ ingresso in Italia dei grandi general contractor europei e cinesi che hanno le spalle finanziarie più larghe per assorbire cambi di programma e ripensamenti con la conseguenza però di creare minore occupazione. Dalla francese Vinci (40 miliardi di fatturato) al colosso China State Construction Engineering. Basti pensare che la nostra più grande impresa di costruzioni, la Salini Impregilo, ha un fatturato di 6,3 miliardi (dato 2016).

Milena Gabanelli e Fabio Savelli per “Dataroom – Corriere della Sera”

 

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DATAROOM DI MILENA GABANELLI SULLA CONTAMINAZIONE AMBIENTALE: VOI PENSATE ALLA CAMPANIA, MA IN LOMBARDIA CI SONO OLTRE 3300 SITI INQUINATI, E ANCHE IL VENETO E’ PIENO DI SCORIE – 6 MILIONI DI ABITANTI VIVONO NELLE AREE DEI 45 SITI PIÙ CONTAMINATI D’ITALIA. PER CHI HA MENO DI 25 ANNI, NELLE ZONE A RISCHIO È STATO REGISTRATO UN AUMENTO DI TUMORI MALIGNI DEL 9%. ANCHE I BAMBINI SI AMMALANO DI PIU’. ECCO LA MAPPA

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Nei terreni e nelle falde dei 1.469 ettari di costa che bagna la città di Crotone è stata riscontrata, nel 2002, la presenza di zinco, piombo, rame, arsenico, cadmio, mercurio, ferro, idrocarburi, benzene, nitrati, frutto perlopiù, di uno smaltimento abusivo, sistematico e incontrollato di montagne di rifiuti industriali. Dopo sedici anni, 9 commissari e 121 milioni di euro stanziati, la bonifica è ancora in alto mare.

Quante sono e dove stanno le aree a rischio sanitario

Il caso di Crotone, diventato emergenza, è solo uno fra migliaia: l’Ispra ne ha contati 12.482. Siti potenzialmente contaminati, distribuiti su tutto il Paese, con un record di 3.733 casi in Lombardia. Mentre i siti in cui l’inquinamento è stato considerato talmente grave da comportare un elevato rischio sanitario, e per questo definiti «di Interesse Nazionale» (Sin), sono 58. L’interesse, a partire dal 1998, era quello di bonificarli. Oggi per la maggior parte resta ancora da capire la portata della contaminazione. Parliamo di aree industriali dismesse, in attività, aree che sono state oggetto in passato di incidenti con rilascio di inquinanti chimici, e aree in cui sono stati ammassati o interrati rifiuti pericolosi.

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Alle procedure di bonifica inizialmente doveva pensare lo Stato, dal 2012, 17 siti sono passati in carico alle Regioni. «Pensiamo a un fondo unico ambientale per sostenere le bonifiche», ha dichiarato qualche mese fa il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Il suo predecessore, Gian Luca Galletti, aveva già riferito in un intervento al Senato, il 19 gennaio 2017, di circa 2 miliardi di euro stanziati «dal mio Ministero a favore delle Regioni, dei Commissari delegati e delle Province Autonome di Trento e Bolzano». Finora la somma dei finanziamenti totalizza 3.148.685.458 euro. A fronte di questa spesa, «emerge l’estrema lentezza, se non la stasi, delle procedure attinenti alla bonifica dei Sin», scrive, qualche mese fa, la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.

Stanziati oltre 3 miliardi per fare cosa?

In Veneto, 781 milioni di euro sono stati usati per bonificare solo il 15% dei terreni e l’11% della falda di Porto Marghera. In Campania, l’area perimetrata nel Sin di Napoli Orientale, su cui insiste la quasi totalità degli impianti di deposito e stoccaggio di gas e prodotti petroliferi presenti sul territorio cittadino, la bonifica ha interessato finora solo il 6% dei terreni e il 3% della falda. Va molto peggio nell’area occidentale, quella dell’ex Ilva, ex Eternit, ex discarica Italsider: 242 ettari di superficie potenzialmente inquinati da metalli, ipa, fenoli, amianto; oltre 10 milioni stanziati dal Ministero dell’Ambiente, bonifiche: zero.

dataroom sulla contaminazione ambientale 3L’area di Tito, in Basilicata, ha completato solo il 4% della procedura di bonifica, idem in Sardegna, nonostante i 77 milioni stanziati dal Ministero dell’Ambiente, e i 20 già spesi per le aree industriali inquinate di Sulcis-Iglesiente-Guspinese. «La maggior parte delle risorse», dichiara la Regione, «sono in fase di progettazione, poi a causa della complessità delle opere e dell’aggiornamento della normativa sugli appalti, il grosso degli interventi deve essere ancora cantierato».

Sicilia, Friuli, Piemonte, Lombardia, Toscana: bonifiche zero

In Sicilia nei siti contaminati che vanno da Priolo (Siracusa), a Biancavilla (Catania), fino a Gela (Caltanissetta), sono stati spesi 3 milioni di euro per zero bonifiche. Nulla di fatto anche al Nord, per le aree industriali di Trento e per i metalli pesanti che hanno inquinato falde e terreni dell’area della Caffaro di Torviscosa, in Friuli, dove i milioni finanziati dal Ministero sono stati rispettivamente 19 e 35.

In Toscana, a fronte di finanziamenti per oltre 20 milioni, nessuna bonifica è stata completata nei Sin di Orbetello e Livorno. In Piemonte i circa 51 milioni stanziati non hanno ancora rimesso in salute le aree di Balangero, Pieve Vergonte e Serravalle Scrivia: qui, la bonifica delle falde e dei terreni è ferma allo 0%, così come nell’area contaminata di Cengio e Saliceto che il Piemonte condivide con la Liguria. La situazione più critica è però in Lombardia: 5 aree contaminate da metalli pesanti, idrocarburi, PCB, inserite fra le priorità di bonifica. Le attendono da circa 18 anni. Eppure, c’erano e ci sono finanziamenti da parte del Ministero per oltre 200 milioni di euro: non sembra, perciò un problema di liquidità.

Chi inquina non paga. Perché?

La European Environment Agency ha stimato i costi per le analisi e ricerche sui siti, ed è emerso che in Europa sono generalmente ricompresi fra un minimo di 5.000 euro e un massimo di 50.000 euro. Nel nostro Paese, queste stesse indagini costano più di 5 milioni di euro.

Inoltre il principio secondo cui «chi inquina paga» è spesso impraticabile, poiché l’inquinamento, il più delle volte, è così risalente negli anni che rintracciare giudizialmente il responsabile è difficile se non impossibile. C’erano riusciti a Porto Marghera, con il ragionamento: se chi ha inquinato non si trova, paga chi detiene l’area. Lo Stato aveva incassato 700 milioni di euro, con cui ha realizzato le opere di messa in sicurezza per impedire l’espandersi della contaminazione. Dal 2011, con i vari decreti Ilva il principio è stato reso ancora più intricato, e così in quasi tutti gli altri Sin, la messa in sicurezza, che non equivale certo alla bonifica, è stata fatta a carico dello Stato.

Con le bonifiche lo Stato ci guadagna

gabanelli ilva 5Bisogna poi fare i conti con la criminalità organizzata: dal 2002 ad oggi sono state 19 le indagini che hanno fatto emergere smaltimenti illegali di enormi quantità di rifiuti derivanti dalla bonifica di siti inquinati. Sono state emesse 150 ordinanze di custodia cautelare, denunciate 550 persone e coinvolte 105 aziende.

Insomma, più si ritarda, e più la criminalità si infiltra, quando invece dalle bonifiche lo Stato avrebbe solo da guadagnare. Già nel 2008 e ancora nel 2016, Confindustria ha stimato il fabbisogno in 10 miliardi. Se le opere partissero subito, in 5 anni, si creerebbero 200.000 posti di lavoro con un aumento della produzione di oltre 20 miliardi di euro, con un ritorno nelle casse dello Stato di circa 5 miliardi fra imposte dirette, indirette e contributi sociali.

milena gabanelli

Il prezzo che sta pagando la popolazione

L’Istituto Superiore di Sanità da anni monitora i rischi per la salute dei circa 6 milioni di abitanti che vivono nelle aree dei 45 (su 58) siti più contaminati d’Italia. Per chi ha meno di 25 anni, è stato registrato un aumento di tumori maligni del 9% rispetto a chi vive in zone non a rischio.

C’è un eccesso di malattie respiratorie per i bambini e i ragazzi; il rischio mortalità è più alto del 4-5% rispetto alla popolazione generale, con prospettiva di peggioramento. Che prezzo ha tutto questo?

Articolo di Milena Gabanelli per www.corriere.it  (in collaborazione con Adele Grossi)

 

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