Nell’essere madre c’è la solitudine, la guerra, la ribellione. Il rapporto con i figli e un ruolo che cambia. Da “Maternal” a Kazuo Ishiguro
Torno spesso a un racconto ferrarese di Giorgio Bassani. Lida Mantovani è una ragazza madre, una giovane ingenua che si è fatta ingannare da quello che avrebbe dovuto essere il suo grande amore. E’ un racconto immenso nel perimetro di un sottoscala. Al centro di questo racconto ci sono due donne: Lida e sua madre che prima di lei ha avuto la stessa sorte. Nel condividere l’abbandono e la solitudine di madri per caso sono diventate amiche, complici; si spartiscono la malinconia come un pezzo di pane.
Gaia Manzini, autrice dell’articolo
Ireneo, il bambino nella culla, e loro due a lavorare insieme, a cucire i panni di altri nel loro piccolo appartamento; sospirano all’unisono, ma non parlano mai dell’accaduto. Ogni tanto la madre tenta un riferimento, poi lo lascia cadere nel vuoto; s’incanta a osservare la figlia, la scruta, dice Bassani, e quello sguardo sembra un abbraccio di due compagne di sventura. D’un tratto la madre la prende per le spalle, la fa alzare e la trascina davanti allo specchio. Le dice di guardare come sono diventate uguali; sottolinea una somiglianza fisica che rivela molto altro. Tra loro due che lavorano all’unisono come una piccola melodia ci sono solo sguardi d’intesa per chi debba andare ad aprire la porta. Ciascuna per sé fantastica sulle infinite cose della propria vita che potevano essere e non sono state. Parla, Bassani, del destino che ci si trasmette come un’identità; parla della solitudine delle madri al di sotto dello sguardo di chi passa per strada.
“Young Mother Sewing” è un dipinto del 1900 di Mary Cassatt. E’ conservato al Metropolitan Museum of Art (Wikipedia)
Ho pensato a Lida Mantovani mentre guardavo Maternal, il nuovo film di Maura Delpero premiato con la Menzione Speciale al Festival di Locarno 2019 e ora finalmente nelle sale. Maternal è ambientato nell’Hogar, un centro religioso italoargentino per ragazze madri, un luogo paradossale in cui la maternità precoce di giovani madri adolescenti convive con il voto di castità delle suore che le hanno accolte, tra regole rigide e amore cristiano.
Sono tutte donne in questo film: le suore nei loro abiti bianchi, figure quasi interscambiabili, e poi le ragazze, con vestiti rimediati e succinti, i capelli tinti, le unghie colorate, i rossetti, le scarpe col tacco, ma tutte bambine – come Lu e Fati –, con i loro figli avuti per caso, messi al mondo perché è capitato, perché doveva andare così, non si poteva prevenire in nessun modo. Solo donne, sottratte allo sguardo e al rumore del mondo. Come nel racconto di Bassani, c’è un dentro e c’è un fuori. Il dentro che riguarda il femminile e il materno e un fuori evocato solo per come si raffronta a questo femminile. Anche Lu, il corpo sensuale ma troppo magro, i capelli decolorati, il trucco eccessivo, ha una bambina. Lu si preoccupa di non potersi fare la ceretta alle gambe e all’inguine, e chiede a sua figlia di rubare i rotoli di scotch dal deposito del convento: basta applicare le striscioline sulla gamba e tirare con uno strappo netto per avere gambe (quasi) perfette. Ci si mette tantissimo tempo, ma non importa: loro di tempo ne hanno un’infinità. Si depila, si tinge, si trucca Lu, perché non ne vuole sapere di stare in convento. La vita la chiama. Vuole uscire, vuole fare l’amore con un uomo che conosce e che ama, che la riempie di promesse e di botte, che se ne infischia di lei. Ma Lu vive solo dentro ai suoi occhi, acquattata nel desiderio che lui mostra nei suoi confronti, anche se dura poco, anche se in fondo sa che non le servirà a cambiare vita, ma ci spera sempre, si inganna sempre, di continuo; perché ingannarsi di continuo è un modo per continuare a vivere. Lu è come la balorda e sbandata Mara di Caro Michele, il romanzo Natalia Ginzburg; la ragazza che dice di essere incinta del protagonista, anche se non è sicura, e in questa sua insicurezza c’è la levità di chi si fa ingannare dal mondo. Mara è la ragazza senza dimora né lavoro che si porta dietro il suo bambino da una parte all’altra della penisola, sperando di trovare prima o poi qualcuno che si prenda cura di lei.
E ritrovo questa stessa solitudine delle madri in altri libri di oggi, anche se in modi diversi. La apprezzatissima Guadalupe Nettel ha scritto un libro bello e terribile sulla maternità: La figlia unica.
Guadalupe Nettel
Laura che non vuole figli e si fa chiudere le tube, e poi Alina che invece prova di tutto per rimanere incinta e quando ci riesce, dopo pochi mesi, le danno la più terribile delle notizie: sua figlia non ha sviluppato il cervello in modo completo e dopo la nascita non sopravviverà se non allo stato vegetativo. La maternità si trasforma nel luogo del paradosso: quella stessa donna che aveva tanto desiderato un figlio ora si ritrova a desiderare che non rimanga in vita, perché sarebbe una semi vita, sarebbe durissima e piena di sofferenze. Quella di Nettel non è solo la storia di Laura, Alina e Doris, ma anche la messa in scena dell’antinomia che lega le donne all’idea del materno. Il desiderio di un figlio come imperativo biologico o istinto inalienabile e il desiderio della propria vita nella sua pienezza, della propria autorealizzazione: come se le due cose non si potessero mai incontrare, come se non ci fosse mai concesso di desiderare tutto, ma solo di scegliere e pentirci della nostra scelta.
In Maternal la contrapposizione è tra Lu e suor Paola, la giovane suora che culla e consola i bambini, soprattutto la figlia di Lu quando Lu scompare per inseguire la sua vita. La contrapposizione è il cortocircuito di un mondo chiuso, in cui da un lato c’è la maternità precoce delle ragazze e dall’altro quella assente delle suore. Come a dire quanto il materno sia complesso, pieno di contraddizioni, di allontanamenti e ritorni. Suor Paola con la bambina si toglie il velo, si fa vedere come donna, la stringe a sé durante la notte, devia dal percorso intrapreso, così come deraglia Lu che non dà più notizie di sé. E’ qui che, come tra le righe dei romanzi che mi tornano alla memoria, ogni donna è sola di fronte al materno e alla possibilità di plasmarlo secondo la propria visione del mondo. E questa solitudine, questo ripensare incessantemente al proprio ruolo spesso si trasforma in una guerra tra madre e figlio, tra madre e figlia.
Lalla Romano
Lalla Romano nel 1969 scriveva Le parole tra noi leggere con cui poi vinse il Premio Strega. Un libro poetico, un libro disperato che suona terribile: un’indagine amorosa sull’estraneità che divide lei e suo figlio, così analitica da sembrare l’autopsia di un rapporto. Per tutta la narrazione non chiama quasi mai per nome suo figlio, per tutta la narrazione è soprattutto un “lui”. L’indagine si avvale di tutte le prove: compiti in classe, disegni, poesie, frammenti di diario. Non c’è solo la memoria, ci sono i cassetti, gli armadi di famiglia. Lalla Romano ricompone per strati il proprio figlio. Succhiava il latte con ferocia poi lo rifiutava, scalciava nel ventre, era già in lotta, aveva uno sguardo nero lungo già in fasce; scriveva poesie, era moralista, magro col naso adunco, camminava sbandando tagliandole la strada, era dissacrante; l’unica affinità tra di loro era quel gusto per i fiori, gli stessi. “A cosa ti serve essere intelligente?” gli chiedeva lei. “A farmi compagnia con me stesso” rispondeva. Lalla Romano cerca di leggere suo figlio come si farebbe con un libro, cerca le ragioni della loro incomunicabilità. “Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia”. Il libro in effetti è un accerchiamento. Anche se poi il vero oggetto dell’indagine è la madre: una donna che cerca sé stessa, la propria autenticità, forse la propria colpa. “Suo figlio non esiste, è una sua fantasia” le dice qualcuno, seminando il dubbio sulla parzialità dello sguardo, sulla lente deformante della letteratura. In questa solitudine di madri siamo lì a immaginarci i nostri figli, a volte cancellando gli atti più atroci come fa Carmen Totaro nel suo romanzo appena uscito: Un bacio dietro al ginocchio (Einaudi). Una madre, una figlia la loro incomunicabilità e un inizio verticale, con la madre chiusa in bagno, il gas acceso a simulare un tentativo di suicidio; un figlia fuggita, scomparsa, e la domanda solo sussurrata nel pensiero, il dubbio sulle intenzioni della ragazza; l’indicibile. Perché il rapporto tra madre e figlia è sovente quello di due solitudini che stridono e poi si riavvicinano, in un continuo scambio, una specie di marea che si alza e si abbassa tra amore e odio, rabbia e dedizione, dolcezza e crudeltà come ben sapeva la Francesca Sanvitale di Madre e figlia (1980), ma anche la Carla Cerati di quel libro lucido e bellissimo che è La cattiva figlia (1990).
Carla Cerati
La solitudine è nell’idea stessa di madre, perché idea da farsi e disfarsi di continuo lontano dagli sguardi esterni, dai giudizi, dalla tradizione. Ogni madre lo sa: bisogna riscriversi da capo, e la scrittura si fa nel silenzio, senza confusione intorno.
C’è una scena bellissima in Maternal. Le suore allestiscono una discoteca per le ragazze madri, che hanno bisogno di divertirsi, di scatenarsi, di vivere il dentro con qualche spiraglio del fuori. E così, a ritmo di musica e sotto luci colorate, vediamo queste giovani donne vestite per l’occasione dimenarsi sensuali, sotto lo sguardo dei loro bambini e delle suore ai lati della pista. Non c’è nessun altro, nessun invitato, è come una festa di famiglia. La festa si conclude con la distribuzione delle ostie in forma di patatine. Delpero non solo riflette sulla complessità del materno, ma anche sentirsi donne dentro a una visione totalmente maschilista: donne come oggetto del desiderio. La vita per Lu, e per altre come lei, esiste solo nel momento in cui ci sentiamo desiderate, volute da un uomo: le ragazze modellano i vestiti arrivati con le donazioni sulle proprie misure, e mentre cuciono fantasticano sull’incontro giusto, l’uomo che le porterà via con sé.
Francesca Sanvitale
Racconta l’autrice irlandese Emilie Pine in Appunti per me stessa (Rizzoli), uscito da pochi mesi, della sua giovinezza sbandata, fatta di droghe, feste e amnesia di sé. Racconta di come sia difficile per molte ragazze sottrarsi al desiderio altrui. Il desiderio degli altri è inevitabile e ci si sottomette con un atteggiamento sacrificale, senza accorgersi della parzialità della visione e del fatto che ci sta auto-infliggendo millenni di subordinazione senza neanche saperlo.
Eppure anche un figlio può essere un oggetto del desiderio, certe volte fino all’accanimento, altre semplicemente oltre la propria coerenza, come capita a suor Paola. Diceva Natalia Ginzburg nelle Scarpe rotte – racconto delle Piccole virtù che la ritrae a Roma insieme all’amica Anna Zucconi a lavorare insieme in un appartamento sul progetto di una rivista – di sentirsi diversa dall’amica senza figli. C’è qualcosa che la fa sentire legata indissolubilmente ai propri bambini, è una limitazione della propria libertà, ma anche una salvezza per certi versi. Una madre resiste sempre alla tentazione di “buttare la vita ai cani”, di abbandonare la propria strada e il senso di sé. A differenza di Lu, suor Paola sembra saperlo, come lo sa il piccione nel libro di Guadalupe Nettel, che cova le uova del cuculo ben sapendo che non si tratta di un suo pulcino, ma rispondendo a qualcosa al quale non può sottrarsi.
In molti di questi percorsi la solitudine delle madri e dei figli sembra annullarsi nel momento in cui i figli vengono cresciuti e condivisi come si faceva una volta nelle grandi famiglie. I bambini dell’Hogar che sono bambini di tutti, anche delle suore. Il bambino di Marta in Caro Michele, perché di lui si interessano nelle loro lettere tutti i personaggi di quel libro bellissimo. I bambini di Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher, nella loro famiglia allargata di contadini, dove quasi non si sa chi sia figlio di chi. La maternità in ogni sua forma, e in un senso più ampio, è il tema di questo secolo. Lo è quando si tratta di un dubbio come per Sheila Heti in Maternità, lo è anche quando Kazuo Ishiguro in Klara e il sole lo mescola ai temi dei corpi artificiali. Il materno è da sempre un tema universale, con la forza che hanno i temi universali di farsi incessantemente particolari. Abbiamo ancora bisogno di parlarne, perché sono le donne a cambiare nel tempo e a ritoccare la propria visione della vita e di loro stesse, a ribellarsi alla propria solitudine urlando quella solitudine, riempiendola di nuovi significati e sfumature. Scrive Anne Enright, la grande scrittrice irlandese: “Ciò che mi interessa non è il dramma di essere un bambino, bensì quello di essere una madre”.
LETTERATURA E BOTTIGLIA: PERCORSI NARRATIVI TRA STORIA, COSTUME E ARTE – LO SPAZIO DEL VINO NELLA VITA DELL’UOMO – ” EMPI IL BICCHIER CHE E’ VUOTO/VUOTA IL BICCHIER CHE E’ PIENO/NON LO LASCIAR MAI VUOTO/NON LO LASCIAR MAI PIENO. “
Come poche altre, la civiltà del bere è allocuzione ricca di
rimandi e di suggestioni.
In essa si condensa e stratifica l’intera storia dell’umanità.
Fin dalle più remote testimonianze, l’atto dell’uomo che beve risponde ad un
bisogno elementare che sovente si accompagna ad un rito, un evento sociale, un
valore da tramandare, un ricordo da cancellare, un patto da suggellare,
un’amicizia da consolidare.
Primo fra tutti, nell’incertezza primordiale di una natura
ostile, il legame con il trascendente, con Dio.
L’uso delle bevanda, più specificamente del vino, nei riti
sacri, propiziatori o funebri, negli sponsali è diffuso in ogni epoca e in ogni
letteratura, fin dalle epoche più arcaiche.
Nel Vecchio Testamento (genesi 9:20) si racconta di Noè che
pianta la vigna sul monte Ararat, quello stesso dove si salva dal diluvio
universale e sulle cui creste ancora oggi archeologi fantasiosi ricercano
l’Arca.
Vicino a Montevarchi, in provincia di Arezzo, in un deposito
di lignite, sono stati ritrovai i resti fossili di tralci di vite datati a 2
milioni di anni fa.
Residui vinosi sono stati trovati all’interno di una giara
di terracotta, di circa 9 litri di capacità, venuta alla luce in un villaggio
neolitico nel nord dell’Iran.
Si può dire che l’uomo a inventato il vino? Sì e no.
Di certo la vite è pianta spontanea, come spontanea sarà
stata la prima fermentazione del liquido dell’uva, magari innescato di qualche
lievito.
La trasformazione poi del metanolo in vino, nella bevanda
come oggi la conosciamo e apprezziamo, è tutta un’altra storia, che non poteva
essere scritta senza la mano dell’uomo.
Nella storia della letteratura la prima testimonianza
dell’uso di bevande alcooliche la troviamo incisa sulle 11 tavolette di argilla
che raccontano il mito di Gilgamesh il sovrano sumero, per due terzi divino e
per un terzo uomo, grande amatore (secondo gli studiosi ha inventato lo ius primae noctis). Chissà quale parte
della sua natura identitaria lo spingeva ad allietare il gargarozzo: quelle
divine o quella umana?
Il vino, certo confortava il viaggio agli inferi di Kha,
l’architetto dell’antico egizio, la cui tomba fra le poche trovate intatte, è
ora conservata al museo Egizio di Torino.
Osiride è dio della fertilità e della morte, quindi colui che consente la vita e che la spegne,
pesando i cuori nell’oltretomba, dando in pasto ad un mostro quelli che erano
più pesanti di una piuma.
Ebbene, si narra che proprio Osiride insegnasse agli egizi
la coltivazione della vite e la produzione del vino.
Architetto Kha, Museo Egizio Torino
Le testimonianze letterarie sulla vite e la produzione del
vino in ambiente greco e romano sono abbondantissime, a volte sotto forma di
frammenti, altre volte come snodi narrativi per motivare l’azione o descrivere
l’ambiente, all’interno di famosi poemi, come l’Odissea,IIiade, Eneide.
Omero così descrive il giardino di Alcinoo: “ Ivi una vigna
è anche piantata feconda/di grappoli; parte di questi seccavano al sole/ su
aprica terrazza, spiccati, e fanno di altri vendemmia/ e altri li pigiano; uve
più avanti/ acerbe pendono in fiore, altre imbrunano” (odissea VII).
Artemisia Gentileschi: Il giardino di Alcinoo
Orazio, liberto quindi schiavo liberato, dalla nativa Venosa
non porta solo l’aglianico, ma un vero e proprio culto per la vite: nel Carme I.18
esorta l’amico Quintilio Varo a coltivare la vigna “voce di Dioniso, padre di
amore di bellezza”. Fra una libagione e l’altra, meditando sulla frenetica vita
dell’urbe non ancora eterna, Orazio nel Carme II-11 si rivolge a Quinto Irpino
per incitarlo a bere il vino perché “..sperde i vecchi pensieri che consumano”.
Nel Carme I,11, vv 6-7 Orazio esorta” filtra il vino, poiché la vita è breve
rinuncia alle speranze lontane”, …..
Orazio Flacco
Sulla diffusione del mito di Dioniso, ucciso dai Titani
appena nato e dalle cui ceneri sparse nasce la vite, abbiamo testimonianza
diffusa nel materiale archeologico e nei reperti attici, corinzi, italioti, nei
quali il dio è raffigurato ebro e danzante sotto pergolati, inseguito della
baccanti.
Lo sviluppo della viticultura a Roma avvenne grazie alla
importazione di nuovi vitigni dalla Grecia e, specie con Augusto, alla
stabilità politica e all’assegnazione delle terre ai veterani. Ben presto
viticoltura e enologia rappresentarono aspetti importanti dell’economia romana,
come testimoniano i trattati di agricoltura da Catone a Varrone a Lucio Moderato Columella, allo stesso
Virgilio e i ritrovamenti di Ercolano e di Pompei.
E’ probabile che compagno di libagioni di Orazio, magari
allo stesso desco di Augusto, sia stato il poeta Ovidio, relativista ante litteram, una sorta di bunga bunga
latino, mondano e salottiero, tre matrimoni, poeta ufficiale di Augusto fino
alla caduta in disgrazia, sulla quale sono fiorite molteplici congetture. Ovidio,
sfuggente sul punto, nella sua Ars
amatoria I 237-244, si limita ad affermare: “il vino dispone l’animo
all’amore e lo rende pronto alla passione” . Aggiungo ai possibili motivi delle
caduta la più verosimile: una sbornia colossale e una confessione troppo
esplicita all’augusteo ospite (in vino veritas, appunto).
Un Catullo in stato di alterazione alcoolica è quello che incita
un coppiere a versagli non acqua, ma un calice di Falerno: “ tu via, dove vuoi,
vattene, acqua rovina del vino; con gli estremi va a stare. Questo è puro
Bacco”. (Carme 27). Provenendo da Verona è assai probabile che Catullo abbia
avuto precoce dimestichezza con il vino, nel tentativo di trovare conforto dal
travagliato amore per Lesbia.
L’affinità fra corpo e vino si rinviene nella consuetudine
ancora attuale, quando si versa un po’ di vino, di inumidirsi le dita e
toccarsi reciprocamente in segno benaugurante . Spandere il vino per farne
sprigionare le proprietà vivificanti e miracolose è credenza che risale
addirittura ad età arcaica e documentata durante i simposi greci.
Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia XXII,114
racconta di Augusto che chiede all’ultra centenario Pollione Romilio il segreto
della sua buona salute: “all’interno col vino, all’esterno con ‘olio” risponde
il vecchio. Lo stesso Plinio, secondo quanto riporta Manica Nanetti nel suo Del corpo del vino, elencava i vini
conosciuti dai romani in circa 80 qualità pregiate e cento di normale qualità.
Né poteva mancare Virgilio, il poeta bucolico per
eccellenza, che nel II libro della Georgiche elenca le qualità dei diversi
vini, fornendo consigli su come scegliere il terreno adatto, sulla zappatura,
sui sostegni, sulla potatura della vite e sulla raccolta.
“Ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche,
s’addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini;
e la psitia migliore per il passito e il lageo leggero,
che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua,…
…. Vi sono le viti aminee, vini robustissimi,
a cui cedono il passo quello di Tmolo e persino il Faneo, re
dei vini..
Il vino romano, a causa delle scarse tecniche di
conservazione, era un liquido assai diverso di quello attuale: sciropposo,
molto alcoolico e dolce, a volte col sentore resinoso che prendeva dai
recipienti di terracotta in cui veniva conservato. Com’è testimoniato in
numerosi scritti, il vino veniva bevuto allungato con acqua e mischiato a miele
o altre spezie.
Lorenzo Bianchi, ricercatore, sull’Osservatore Romano del
dicembre del 2005, ricorda la prima esplicita menzione al fenomeno della
transustanziazione, una epigrafe di otto versi collocata nella basilica di San
Lorenzo Fuori le Mura in Roma che recita: “Il vero sangue è sull’altare e
sembra vino”.
Come non ricordare la centralità del vino nella liturgia
cristiana, fin dal suo esordio sul Vangelo: ricordiamo che i famosi ultimi che saranno primi sono gli operai
che lavorano una vigna (Matteo 20, 15), che la vigna sarà data ai vignaioli che
la sapranno far fruttificare ( Matteo 21,17) mentre il primo miracolo di Gesù è
quello della trasformazione dell’acqua in vino per le nozze di Cana ( Giovanni 2,1-11).
In tale occasione, curiosa è l’affermazione che Gesù fa allo
sposo, che suona così: gli altri danno prima il vino buono, poi quello meno
buono, tu sei fortunato perché puoi dare tutto vino buono. E’ la testimonianza
storica di una pratica invalsa già allora: presi dai fumi del vino puoi dare
agli avventori qualsiasi intruglio.
Durante l’ultima cena Gesù si rivolge ai discepoli dicendo:
“io sono la vera Vite e il mio padre è il vignaiolo.. Io sono la Vite e voi i
tralci,,”(Vangelo di S. Giovanni 15).
Il significato mistico è evidente: la vite è la chiesa, gli
apostoli devono fruttificarla, come i tralci devono crescere, recare grappoli,
alimentare la cena del Signore. Solo una cultura fortemente legata alla cultura
e alla pratica della coltivazione dei vigneti poteva suggerire all’ebreo
palestinese Gesù di Nazareth una similitudine così diretta.
Crollato l’impero
romano, le campagne restano a lungo incolte, inselvatichite. I villani lasciano
i poderi insicuri e si rifugiano nelle città, nasce l’economia curtense. I
vassalli dispongono di tanta terra da coltivare e la indispensabilità del vino
ai fini eucaristici, spingono gli ordini religiosi a coltivare le vigne e a
perfezionare le tecniche di vinificazione, alcune delle quali ancora in uso
adesso.
San Benedetto, nella sua Regola, con una buona dose di
realismo, sa che opporsi all’uso del vino nei conventi sarebbe una partita
persa prima di giocarla.
La Regola è quella riassunta nel motto ora et labora ed è comprensibile che seppure i lavori più pesanti
fossero affidati ai postulanti o agli
artigiani del convento, di certo ai monaci un cicchetto ogni tanto, magari nel
rigore della cella, non doveva essere sgradito.
San Benedetto allora così detta: “ Ben si legge che il vino
ai monaci assolutamente non conviene; pure perché ai nostri tempi è difficile
che i monaci ne siano persuasi, allora ciò acconsentiamo, in modo però che non
si beva fino a saziarsi”. Chissà se sarebbero bastate, al frate cellario, in
questo caso, le pur capienti botti di alcuni cantine conventuali. La Regola
stabiliva, per la precisione, una razione pro capite giornaliera equivalente al
nostro quartino.
Il pensiero va al romanzo di Eco Il nome della rosa, capostipite del genere giallo storico erudito,
all’abbazia localizzabile probabilmente in Val di Susa, e in particolare a due
dei personaggi che compaiono nel libro: il cellario, appunto, Remigio da
Varagine e il dolciniano Salvatore, crapulone, deforme e ripugnante,
fornicatore e gran bevitore.
Una scena del film Il nome della Rosa
Nel romanzo non ci sono pagine dedicate al vino e all’arte
di vinificare, che pure ci sarebbero state bene, vista l’attitudine dei frati.
Ma alcuni personaggi sembrano in preda ad una eccitazione
dionisiaca, ad una perenne ansia espiatoria.
Fra queste spicca Salvatore lo sguattero, una figura che
ricorda, per i tratti fisici e per la misteriosa lingua che farfuglia
mischiando latino volgare, dialetto francofono, parole auliche ed
ecclesiastiche, un vero e proprio satiro, simbolo di ogni eccesso.
In fondo se c’è nel libro una morale questa può essere che
ogni eccesso rovina: frate Jorge per l’eccessivo amore per Dio, i crapuloni e
incontinenti per l’eccesso dei piaceri. Una morale sulla quale, di fronte
all’ennesimo bicchiere di vino, varrà la pena riflettere.
Frate Guglielmo, unica figura interamente positiva del
romanzo, risponde al novizio che lo interroga: “Cosa vi terrorizza di più della
purezza? chiesi- La fretta, rispose Guglielmo”. (pag. 388 Bompiani 1980).
Frate Guglielmo, interpretato da Sean Connery
Un indiretto elogio alla
lentezza, che avrebbe fatto di Guglielmo un buon vignaiolo e un ottimo enologo,
viste le sue attitudini alla calma e alla riflessione, il pensiero originale,
la curiosità, l’amore per l’ordine e per le piccole cose.
Nel Medioevo col crescere dei
consumi si infittiscono le regole per vinificare e mescer il vino, temi già
trattati da Carlo Magno nel suo editto De Villis. Gli statuti medioevali
disciplinano minuziosamente la
composizione della bevanda, stabilendo che non possa contenere spezie o
zuccheri.
Si stabilisce, ad esempio, che
il vino novello, quello da consumare fra novembre e dicembre, deve essere
segnalato all’ingresso della taverna da un rametto di ulivo o altra pianta,
tradizione ancora in uso, specie nelle zone rurali del sud d’Italia. Forse è da
questa antica usanza che prende nome “foglietta” il bicchiere di vino.
Nelle hosterie (da host, cioè
ospitante) vengono servite pietanze particolarmente adatte alle bevute: ad
esempio minestra di fagioli secchi, servita salata, lo scapece, pesce fritto e
poi marinato in sale e aceto.
Legumi, zuppe, farinate vengono
servite comunemente anche sulle tavole dei ricchi, anche se di contorno ai
piatti più costosi, a base di carne e selvaggina, accompagnato dai vini più
invecchiati e pregiati.
Il cibo assume un forte valore
simbolico di status, come ci ricorda Massimo Montanari nel suo Alimentazione e
cultura nel Medio Evo” Laterza 1988, ma attorno alla tavola rotonda della
taverna cade ogni distinzione sociale. Il villano e il nobile sotto la frasca,
accomunati nell’eccitazione benefica del vivo, fanno proprio l’invito di Orazio
aduna gioia, magari frugale, ma per brevi attimi incondizionata.
Le qualità curative del vivo
crescono nella credenza popolare e nella pratica quotidiana con l’affinamento
delle tecniche di vinificazione e con la creazione, all’inizio nei conventi e
nelle abbazie, per curare l’anima dopo avere curato il corpo, poi ad opera
degli speziali a fini commerciali, di bevande a base di vino o alcool, con
aggiunte di additivi, principi attivi della vecchia farmacopea, varianti utili
ad incontrare i gusti dei consumatori.
Per avere esatta cognizione di
cose fosse il vino d un punto di vista chimico occorrerà attendere Lavoisier,
ciò nonostante la sapienza nella preparazione dei semplici l’evidenza empirica della loro efficacia, unita alle
fanfaronaggine di uno stuolo infinito di botanici improvvisai, piazzisti senza
scrupoli e un caravanserraglio di avventurieri di ogni risma, contribuiscono ad
una diffusione incredibile…
Fracastoro nel 1555 nell’opera
“De vini temperatura sententia” racconta di una disputa fra due medici veronesi
(due perdigiorno nullafacenti) circa la classificazione del vino, secondo le
indicazione ippocratiche, se cioè ritenerlo “caldo e umido” o “caldo e secco”.
Ci consola il fatto che, persi nelle loro dispute, almeno i due non potevano
fare danni sui poveri pazienti. Nel
libro V di Dioscoride, nella traduzione del Mattioli del 1568 si legge: “
liquore, vero sostentamento della vita nostra, rigeneratore de gli spiriti,
rallegratore del cuore, restauratore potentissimo di tutte le facultà,
operationi corporali, però meritatamente si chiama vite la pianta
preziosissima, che lo produce… Ma bevuto senza modestia, senza regola (come
fanno gli ebbriachi) infrigidisce tutto il corpo(…) nuoce al cervello, alla
nuca, ai nervi: però causa (…) mal caduco, spasimo, stupore, tremore,
abbagliamento d’occhi, vertigini(…) letargia.”
Lo stesso Mattioli consiglia ai
lettori di “bersene ogni mattina a digiuno un cucchiaio” per sfruttare le
qualità curative del vino.
Il ‘600 per quanto riguarda il
vino è prevalentemente francese. Non erano ancora stati inventati i caffè, ma
le botti che sprizzavano vino alla Croix de Lorraine o a la Pomme di Pin,
costituiscono il primo esempio di locali alla moda che nei secoli della Bella
Epoque renderanno Parigi celebre nel mondo.
Ben inteso, i frequentatori di
allora non erano gli squattrinati artisti boemiennes dell’800-900, ma borghesi
ben pasciuti, amanti della buona tavola e del buon bere. Fra di essi anche
letterati eccellenti, come Racine, Molière La Fontaine.
La figura dominante nel campo
enologico è in quel secolo un abate, procuratore presso l’abbazia di
Hautvillers: dom Pierre Pérignon, il cui nome ricorre ancora oggi su una
celebre etichetta di champagne.
Abbè dom Pérignon
Usava il pinot nero, a perfetta
maturazione, libero di muffe o acini verdi: l’uva doveva essere tutta di
qualità eccellente. La pressature era rapida e il mosto subito raccolto e
travasato in botti. A vino fatto esso veniva travasato e chiarificato più
volte. Verso maro, alla luna, dom Pérignon metteva il vino in bottiglia dove i
residui di zucchero ancra presenti fermentavano in bottiglia, conferendo al
vino le famose bollicine. Se dopo 18 mesi il vino non si spumantizzava, veniva
venduto come vino normale.
Per resistere ala pressione le
bottiglie, inizialmente a forma di mela, poi nel ‘700 a forma di pera, dovevano
essere piuttosto robuste; ciò nonostante un terzo della bottiglie si
rompeva. La chiusura della bottiglia,
avveniva con un tappo di legno, avvolto con canapa o tela impregnata di sego
legato con una funicella sigillata con pece o cera.
I forti costi di produzione e
di trasporto rendevano lo champagne particolarmente costoso: una bottiglia era
capace di valere quanto quattro giorni di paga di un operaio.
Il ‘700 per la storia del vino non è il secolo giusto:
l’inverno del 1709 fu terribile in Europa, e in special modo in Francia. A
Parigi la temperatura si mantenne per oltre 10 giorni a -20 °C. Si gelarono le viti e il vino nelle botti
all’interno delle cantine. La penuria fu terribile e i prezzi si impennarono.
Questo provocò alterazioni sui mercati e ripercussioni sociali, a riprova del
ruolo centrale del vino nelle economia di allora.
Accanto al mercato principale, bevande, infusi, pozioni,
elisir a base di vino, già note nell’antichità e poi sviluppate nei conventi,
trovano una ascesa direttamente proporzionale alle malattie, pestilenze,
disordini esistenziali e sociali.
E’ il momento d’oro dei medici erboristi, dei chimici, dei
ciarlatani alla Dulcamara.
Dulcamara, personaggio dell’Elisir d’amore di Donizzetti
Nel 1717 il medico Castore Durante, nel suo Herbario Nuovo,
valuta le proprietà medicamentose della vite selvatica:” la radice bollita e
bevuta in due cucchiai annacquata con acqua marina, purga l’umidità del corpo.
Il succo degli acini abbellisce il viso delle donne, caccia le lentiggini e fa
cadere i peli, giova alla dissenteria e può essere utile come dentifricio”.
Un vero e proprio toccasana, una farmacopea concentrata, cui fin dal 1631 d’altra parte Francesco Poma non aveva esitato ad attribuire virtù anche contro la pestilenza.
Ma si apprestava ad arrivare la seconda parte del secolo, il
‘700 appunto detto poi l’età dei lumi.
La ragione dei filosofi sa essere confusa da sola senza
bisogno dei fumi dell’alcool: fu guerra dichiarata, senza quartiere. Diderot, D’Alembert,
Rousseau, Voltaire, Condillac, insomma tutti i più brillanti spiriti del tempo
diedero addosso ai bevitori, irrazionali per definizione!
Voltaire decretò che il vino è contrario alla lucidità dello
spirito, l’ebrezza è contraria alla salute e dannosa alla Ragione e non ce ne
fu più per nessuno.
Voltaire
Qualcuno ricordando Galeno e Ippocrate tentò il recupero,
rifugiandosi nel vino medicamentoso, ma piombò nella tristezza e nel
dispiacere, proprio le malattie dell’animo umano che gli illuministi volevano
curare con la Ragione.
Erano d’altra parte quelli i tempi in cui si aveva del vino,
da un punto di vista chimico-fisico un’idea molto approssimata: nel 1751, anno di pubblicazione della
Encyclopédie si crede che il vino sia
composto da sale, zolfo, spirito infiammabile, acqua e terra. Dovevano ancora
arrivare Lavoisier e Chaptal per dimostrare che il vino non è altro che carbonio, idrogeno e ossigeno
fermentati.
Il principale romanzo storico italiano di Don Lissander non
parla specificamente del vino, ma degli osti.
Per lo più vengono descritti come gente pratica, scaltra, attenta. La loro morale e il giudizio sugli uomini è descritta con poche parole: i galantuomini sono quelli che bevono il vino senza criticarlo, pagano senza tirare sul prezzo e se devono dar di mano, o peggio, lo fanno fuori dall’osteria.
Manzoni usa gli effetti del vino, quando se ne abusa, in una
scena del 14 capitolo del libro che vede per protagonista Renzo Tramaglino.
Dopo l’assalto ai forni, evento storico cui ha casualmente
assistito, rimanendone coinvolto, Renzo è agganciato
da uno sbirro che lo porta in una osteria. La giornata era stata clamorosa, un
bicchiere tira l’altro, al giovane si scioglie la lingua e arringa agli
astanti, lanciando accuse ai potenti.
Persi gli ultimi barlumi di lucidità, Renzo è pronto a
cadere nella rete dello sbirro che, con uno strattagemma sul nome da mettere
sulla tessera del pane, gli fa confessare il proprio.
Ma l’800 è il secolo della psicoanalisi, una nuova finestra
dalla quale i romanzieri possono guardare nel profondo l’animo umano.
L’inconscio e il vino in che rapporti stanno? In quasi tutte
le culture ambedue aprono la strada a quelle intuizioni e a quello stato dello
spirito che permettono di superare i limiti abituali, attingendo nel profondo
della natura umana. Il vino era stato a lungo un simbolo di prestigio sociale,
uno viatico per ogni simposio in cui la sua “loquacità” permetteva di
affrontare discorsi alati e impegnativi sul mondo e sulla società.
Con l’800 il vino è ricondotto in una dimensione soggettiva,
la ciucca è utile per chiudersi in sé stessi, il diaframma alcoolico è un
estremo tentativo di rifiuto del mondo corrotto, ostile e nello stesso tempo
per sottrarsi alle vertigini della psicoanalisi, alle sue impietose,
imbarazzanti diagnosi.
Il vino non viene, in buona sostanza, visto in se stesso, ma
nel suo rapporto con la persona, per gli effetti che ha sulla psiche e per gli
effetti liberatori delle pulsioni interiori, così acutamente indagate da Freud.
Sono naturalmente i poeti che per primi innalzano il vino (
e più in generale le droghe) a soggetto letterario, dotato di sue proprie
virtù, quasi di un’anima, medium
necessario lungo la stretta e scoscesa strada del rifiuto della realtà
decadente e della ricerca della solitudine.
Senza vino, afferma Baudelaire in opere dai titoli eloquenti, quali Le fleurs du mal, Paradis artificiels, Un
mangeur d’opium, il mondo sarebbe più vuoto, perdendo una delle scoperte
essenziali per l’umanità.
Ma il legame che unisce letteratura e bicchiere è di vecchia
data e supera oceani e continenti.
Baudelaire
Qualche anno prima della stesura dei Paradis artificiels moriva agonizzante a soli 39 anni Edgar Allan
Poe, distrutto dagli stenti e dalla sua dipendenza all’alcool: quante delle sue
storie macabre e agghiaccianti sono nate fra i fantasmi dell’alcool? Più che un
vero bevitore, afferma Tommaso Pincio nel suo blog, Poe era un bevitore
compulsivo e che non reggeva l’alcool; pieno di buoni propositi, una volta
accostato alle labbra il primo bicchiere, poi si apriva per lui l’abisso.
Sempre per rimanere oltreoceano, pensate che fino al 1988
cinque su sette premi Nobel per la letteratura americani erano alcolizzati:
Eugene O’Neill, William Faulkner, Ernest Hemingway, Sinclair Lewis. (e il
quinto?)
Hemingway
Per non dire della sbronza di birra a cinque anni di Jack
London, dell’intima familiarità di Truman Capote per la bottiglia, di Scott
Fitzgerald, a lungo compagno di sbronze di Hemingway.
Chi non ricorda la disperazione di Fernanda Pivano, la
scrittrice torinese, grande traduttrice della beat generation, di fronte a Jack
Kerouac eternamente balbettante, traballante sulle gambe, durante un viaggio promozionale
in Italia.
Il romanzo principale di Kerouac Sulla strada, ma soprattutto Big
Sur, sono la descrizione delle discesa agli inferi della dipendenza ad
alcool e droga. Non c’è impaccio, né rimorso per il perenne stato di
allucinazione in cui l’autore vive, anzi, la beat generation teorizza la
necessità per l’artista di stimoli allucinogeni ai fini creativi. Le opere discontinue,
a tratti oscure e degli esiti discutibili, di autori come Kerouac, Bukowski, Ginzburg
(e), a altri dimostrano che autoreferenzialità annacquata da alcool o mescalina
non sono gli ingredienti giusti per fare opere destinate a durare.
Kerouac e Ginzburg
Certo, il vizio può prendere chiunque, ma per gli psichiatri
di più gli scrittori perché l’atto di scrivere è solitudine, lavoro tormentoso,
che induce a bere, magari inconsapevolmente. Senza la bottiglia a fianco il
bianco della pagina è terrorizzante. Diventa una questione di ispirazione,
eterna angoscia per molti di loro.
Questa tesi giustificazionista
è smentita da una vera autorità in materia alcoolica, Steve King, scrittore di
successo planetario, secondo il quale non esiste questo principio di
causa-effetto: gli scrittori bevono perché gli piace, non bisogna essere per
forza persone creative e deboli moralmente, basta essere alcolisti. Un
alcoolista sincero, il King.
Stephen King
Dopo la pubblicazione nel 1899 dell’Interpretazione dei sogni e nel 1901 di Psicopatologia della vita quotidiana, diversi sono gli scrittori
che si ispirano alla psicoanalisi, fra tutti Svevo, Joyce, Kafka.
Il nuovo protagonista è un malato, speso un inetto afflitto
da una nuova malattia che affonda nella incapacità di adattarsi alla vita e al
mondo. E’ il vino, che ruolo ha? E’ la chiave per aprire il mondo
dell’inconscio e dell’autoanalisi?
Più spesso è un espediente per esplorare una dimensione
psichica di maggiore libertà che permette lo snodo narrativo e la catarsi;
altre volte è un elemento di sottofondo, una specie di greve sentore che
permane tra le righe.
Voglio fare, tra i tanti, tre esempi: La coscienza di Zeno, Sotto il vulcano e La leggenda del santo Bevitore.
Il protagonista del romanzo di Svevo è un represso che solo
per effetto del vino riesce a esprimersi, rivelandosi a se stesso come in una
metamorfosi. Ma le idee sono le stesse, i suoi ragionamenti restano invariati,
solo ora si esprime senza paure o inibizioni: “quando ho bevuto troppo, io
analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso
risultato.”
In queste pagine di Svevo Il vino è un elemento allegorico
(la metafora del sangue del protagonista), un effetto momentaneo non una
medicina che guarisce, ma che, come una prova, costruisce l’evidenza esteriore di una psiche malata dalla incapacità di
vivere.
Il romanzo di Malcolm Lowry è del 1947, dieci anni prima della sua morte.
Malcolm Lowry
Sul risvolto dell’edizione italiana di Feltrinelli, si
legge: “in apparenza, è un romanzo sul Messico, la pietosa epopea di un
alcolizzato che si dibatte contro i fantasmi della sua mente…o magari è un
romanzo d’amore… Certi lo considerano un romanzo sulla gelosia.. altri una allegoria
sulla Redenzione…. Lowry autorizza ogni interpretazione, dice di essersi
ispirato alla Anime morte per arrivare
a questo curioso risultato: una Divina Commedia ubbriaca”. Una eccellente
definizione.
Sono parecchi i punti del romanzo dove c’è il vino, lo si
acquista, lo si beve in solitudine o in compagnia, è un forte richiamo dal
fondo di oscure cantine polverose; ma è
l’intero romanzo a rispecchiare la visione alterata del mondo che solo uno
sguardo alticcio può dare.
Non c’è episodio o personaggio che sfugga a questa
inevitabile regola, che non appaia descritto come visto attraverso le lenti
deformate dell’alcool, le sue ebbrezze traballanti, le sue sghembe illusioni
ottiche, che diventano illusioni sentimentali, speranze frustrate, paure e angosce.
Il romanzo autobiografico di Joseph Roth è del 1939, il
primo di anni tragici per l’Europa, l’inizio del finis Austriae. Tradotto in un bello e delicato film di successo da
Olmi nel 1988. Del romanzo preferisco parlare nella sezione Ciac, si gira! dedicata al vino nel
cinema. Per i curiosi segnalo che non è il solo romanzo di Roth intriso di
alcool, perché una bella dose la potete trovare anche il La marcia di Radetzky.
Joseph Roth
Fra gli altri romanzi significativi di questa breve
carrellata fra letteratura e bevute vale la pena ricordarne per cenni alcuni,
che magari potete cercare fra gli scaffali.
Il fondo della
bottiglia, di George Simenon, prolifico scrittore francese, noto come
creatore del commissario Maigret, ma anche per non lesinare in forti bevute ( l’ultima
moglie è alcoolizzata), è un libro in cui l’alcool è il protagonista
sotterraneo. L’inchiesta si snoda in modo sordido, fra cadaveri sotterrati e
aborti clandestini. L’alcool è sempre sullo sfondo, costante assillo per i suoi
temuti effetti, tanto per l’indagato, quanto per il commissario, che è nervoso,
si preoccupa dell’alito, si oppone e vince a fatica al forte richiamo di un
bistrot. L’indagato, che è un medico, è la sua cattiva coscienza: “il vino, la
birra, l’alcool, ne ha diminuita la quantità?” gli domanda, e Maigret
risponde:” ho raggiunto un risultato: vergognarmi quando ho in mano un
bicchiere di birra o cavados. Quando sono in mezzo a due inchieste rimango dei
giorni a non prendere che un po’ di vino a tavola”.
George Simenon
Il libro Il potere e
la gloria, forse il migliore fra quelli scritti da Graham Greene, il
preferito dal presidente Obama, messo a lungo all’indice dal Sant’Uffizio, si
svolge ancora una volta in Messico, dietro le orme di un prete alcolizzato e in
fuga, dopo aver copulato con una donna e averla messa incinta.
Un altro libro bello quanto sconosciuto è Maria Zof di Paola Drigo, scrittrice
veneta, siamo nel 1937 la storia, delicata e feroce, è ambientata in Carnia,
terra aspra di confine e di guerre. Un romanzo in cui un’ adolescente, che
sboccia all’amore, viene deturpata dalla miseria e dall’abiezione umana di un
padre-padrone incestuoso e in cui la grappa pare ancora una volta essere, oltre
che l’illusoria consolazione al dolore, una ancestrale giustificazione morale.
In Appuntamento a
Samarra, di John O’ Hara, l’appuntamento col destino avviene in fondo nella
maniera più loffia, per una serie progressiva di gaffe, piuttosto che con un
grande gesto tragico. Lo sfondo è la provincia americana, una città in cui
tutti si conoscono e il gesto di tanti ubriachi, come gettare il whiskj in
faccia a un amico, può aprire la porta della perdizione. Il protagonista si
avvita su se stesso e i suoi eccessi, più che dissolutezza di costumi o
anticonformismo estremo, sembrano servire solamente a ottundere la percezione
del punto in cui la trappola scatta e il destino si realizza. Un grande
affresco sui luoghi comuni di una America gretta di buone famiglie
intolleranti, una parabola etilica ancora fortemente imparentata con il
proibizionismo, quella con la bottiglia avvolta pudicamente in un sacchetto di
carta.
John O’ Hara
L’alcool in questi romanzi non sembra in fondo avere nulla
di liberatorio, quasi che l’eccesso o l’abuso di per se stessi abbiano il
potere di annullare e interrompere quella disposizione all’amore e al bello che
Ovidio declamava.
Sarebbe difficile per questi autori, come per la maggioranza
degli scrittori e intellettuali, inneggiare all’alcool con questi poveri
distici: “Empi il bicchier che è vuoto,/vuota il bicchier che è pieno,/non lo
lasciar mai vuoto,/non lo lasciar mai pieno. Cantilena popolare, che quasi
scolpisce il gesto e il lento fluire del liquido dal bicchiere alla gola,
serena e ribalda, come nella canzone Passa
la ronda i versi: “passa la ronda dei veri alpini: e la risponde “fiaschi
de vin”! Che la parola d’ordine per attraversare i camminamenti dei soldati sia
anche quella per attraversare la vita? Sembrano crederlo molti dei nostri poeti
di guerra, che in particolare con la grappa ebbero stretta familiarità, da
Ungaretti, a Pietro Jahier, a Robert Skorpel, a Clemente Rebora, a Ugo Betti.
Ma più della poesia, dimostrare il legame indissolubile fra
l’uomo e l’alcool, questo appunto dell’alpino Ugo Martegani: “la grappa poi è
come il mulo. Non vanta antenati, non ha speranza di posteri. Ti scorre dentro
a zig-zag come va i mulo in montagna. Puoi aggrapparti a lei se sei stanco,
fartene scudo se ti sparano, dormirci sotto se c’è troppo sole. Puoi parlarle
che ti risponde, piangere ed essere consolato e, se proprio hai deciso di
morire, ti sorride” .
Il sorriso della grappa chi mai l’ha visto? E’ come quello
misterioso e ineffabile di Monna Lisa? Fatto di quella stessa materia del sogno
destinato a svanire sugli spalti di Elsinor? Oppure è l’ardente preannuncio
della gioia che sarà e per sempre?
Questa dimensione esistenziale del vino e dell’alcool in
generale, che così si intreccia con la quotidianità dandole sapore e peso, è
una costante, come scrive Marco de Cesaris nel suo ..E giacque nudo. Il vino e la vita dell’uomo, appena edito per i
tipi Laurium.
Ne troviamo espressione poetica, che è anche rimpianto esistenziale, in Cesare Pavese, nella poesia Grappa a settembre. Poche immagini che si intrecciano fra loro, scambiandosi misteriosamente qualità e attribuzioni: la nebbia mattutina, le strade, la grappa, l’odore del tabacco e le donne,. “Tutto si ferma e matura, al mattino si vedono solo donne che ricevono il sole come fossero frutta. Le strade sono come le donne, maturano ferme”. Poi c’è l’odore del tabacco e c’è la grappa, un nuovo sapore: “è così che le donne non saranno le sole a godere il mattino”.