LA CONTRASTATA E TARDIVA FORTUNA IN ITALIA DELL’AUTORE DI ADDIO ALLE ARMI – AVVERSATO DAL FASCISMO, TROVA IN CESARE PAVESE E FERNANDA PIVANO I TRADUTTORI PIU’ CONGENIALI
L’interesse per Hemingway in Italia è abbastanza tardivo,
se si pensa che il primo intervento critico – un articolo di Mario Praz apparso
su La Stampa nel
1929, intitolato Un giovane narratore americano –
risale ad una fase già avanzata della sua carriera letteraria, quando The Sun also Rises e AFarewell to Arms avevano
già spopolato tra gli scaffali di mezzo mondo. Interesse non solo, come detto,
tardivo, ma anche in linea con certa indulgente bonarietà che la prima
generazione di americanisti riserva alla letteratura americana: letta e
criticata, ma sempre relegata al ruolo di appendice delle nobili lettere
inglesi, senza mai insidiare la millenaria superiorità della tradizione
europea. Basta osservare lo sforzo (spesso artificioso) dello stesso Praz di
ricondurre l’originalità americana a derivazioni europee. Basta guardare il
tiepido entusiasmo di Emilio Cecchi, o il cauto slancio di Carlo Linati, che
traduce Il ritorno del soldato già
nel 1925 e riceve un biglietto di ringraziamento dallo stesso Hemingway, ma non
riesce a immaginare «come possa [la civiltà europea] abbandonare questi suoi
preziosi beni nelle mani di Babbitt» (LINATI, 1923) [Ndr. “Babbit” è il tipico
americano medio-borghese di provincia per bene del boom economico. Il nome
deriva dal titolo di un romanzo del 1922 di Sinclair Lewis, intitolato “Babbit”
appunto].
Tra l’altro l’interesse dei
letterati italiani per Hemingway si riallacciava ad un elemento puramente
accessorio, o comunque esteriore, ossia lo stretto legame biografico
dell’autore con la nostra penisola. L’esperienza della guerra – l’arrivo a
Schio, la ferita alla gamba a Fossalta di Piave, il ricovero a Milano – si consuma
tutta su suolo italiano, e lascia in lui un fantasma da esorcizzare con
continui ritorni (almeno sette in totale). Nel 1922 Hemingway è in Italia due
volte, in aprile per seguire la Conferenza Economica Internazione di Genova
(dove, non essendo molto ferrato in economia, passa il tempo a disegnare
caricature di Lloyd George) e in maggio, quando attraversa le Alpi a piedi e
torna sui luoghi di guerra (leggenda vuole che abbia defecato sull’esatto punto
in cui fu ferito). Nel 1923 fa visita a Ezra Pound a Rapallo, vanno a piedi a
Pisa e Siena; poi, dopo una breve sosta a Sirmione, scopre una località di
montagna allora sconosciuta, resa glamour dal suo passaggio: Cortina d’Ampezzo.
Del 1927 è un breve giro in macchina con l’amico Guy Hickock, con annesso incontro
con Giuseppe Bianchi, il prete che lo aveva battezzato in fin di vita al
fronte. Nel 1948 e nel 1954 si divide tra Venezia e l’isola di Torcello, mentre
in mezzo, nel 1953, inaugura il famosissimo muretto di fronte al Caffè Roma di
Alassio.
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la
dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America,
avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale.
«Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva
di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale,
una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli
Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine
adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle
reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese.
«Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE,
1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di
Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande
attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio
Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio alle armi) o
qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel
reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui,
ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo,
prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di
Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di
lucidi giudizi critici che è Il
mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie
l’originalità della prosa hemingwayana:
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e
la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza
plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo
sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni
degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione
culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione –
quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come
vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni,
delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Cesare Pavese
Il primo a capire la connessione è Cesare
Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto
(PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby
Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva
sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano,
Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest
Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio
alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le
difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si
parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un
paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica
di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE,
1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere
di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa
hemingwayana:
Stendhal-Hemingway. Non raccontano il
mondo, la società, non dànno il senso di attingere a una larga realtà
interpretando a scelta, a volontà – come Balzac, come Tolstoi, come ecc. Hanno
una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali
rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i
suddetti. Su questa costante han costruito un’ideologia, che è poi il loro
mestiere di narratori: l’energia, la chiarezza, la non-letteratura.
Flaubert sceglieva un ambiente; loro no.
Dostojevskij costruiva un mondo dialettico; loro no.
Faulkner stilizza atmosfere e mitologizza; loro no.
Lawrence indagava una sfera cosmica e l’insegnava; loro no.
Sono i tipici narratori in prima persona. (PAVESE, 1952)
Al di là di queste scarne notazioni, il merito di
Pavese sta nell’aver introdotto all’opera di Hemingway una sua allieva
particolarmente dotata. Siamo a Torino, nella primavera del 1935, e Fernanda
Pivano è una giovane studentessa del liceo classico D’Azeglio. Tra le
versioni da Erodoto, l’antipatia per la professoressa di chimica e l’amicizia
con i suoi compagni – tra cui Primo Levi, «sommesso e timidissimo», ma che «si
imponeva da gigante con la sua bravura, il suo talento, la sua gentilezza»
(PIVANO, 2008) – rimane folgorata dall’arrivo di un supplente di italiano
«giovane giovane», un po’ ritroso, con i capelli arruffati, ma con «una
bellissima voce che avrebbe fatto invidia a un attore, un po’ atona, un po’
soffocata, sempre sommessa, fascinosa mentre leggeva Dante o Guido Guinizelli e
li rendeva chiari come la luce delle stelle». Fa lezione sul Momigliano
(manuale inviso al ministero), cita De Sanctis e Croce, e non fa mistero della
sua insofferenza per le fanfare in camicia nera. Lui è, appunto, Cesare Pavese,
e i suoi studenti lo adorano. Un giorno l’idillio viene interrotto dalla
polizia fascista, che lo arresta e lo manda al confino. Fernanda, bocciata
all’esame di italiano, lo rivede per caso in piscina tre anni più tardi, nel
1938. Pavese non ricorda la sua vecchia allieva, ma se ne innamora all’istante.
L’ammirazione sconfinata di lei, però, non sfocia nella passione amorosa (due
volte lui la chiederà in sposa, due volte lei opporà un garbato rifiuto) ma
l’intesa intellettuale è ottima, e mentre lei prepara la tesi su P.B. Shelley,
Pavese le suggerisce di dirottarsi verso la letteratura americana. Così la
Pivano:
Naturalmente gli avevo chiesto che
differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una
parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in
portineria quattro libri, ognuno avvolto in una carta da pacchi arancione e il
titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell
to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman,
l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon
River Anthology di Edgar Lee Masters. (PIVANO, 2008)
Un gesto così semplice come portare dei libri poteva
costare caro a quei tempi. Proprio quell’anno, il 1938, segna un vigoroso giro
di vite nella censura fascista, che si fa più stringente, più
puntigliosa, aspirando al controllo sistematico di ogni uscita editoriale. «A
datare dal 1° aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la
diffusione in Italia delle traduzioni straniere» recitano i documenti ufficiali
(RUNDLE, 2010). Incurante del pericolo, Fernanda legge i libri d’un fiato e
traduce Masters: grazie ad un astuto stratagemma – la raccolta viene spacciata
per una devota e improbabilissima Antologia di S. River – il
libro esce nel 1943 presso Einaudi. Fernanda, ormai conquistata dalla
letteratura americana, lavora ora su Addio alle armi di Ernest
Hemingway, altro testo proibitissimo dal fascismo.
Il perché sia proibito è facile da intuire. È un
romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di
Caporetto (a cui tra l’altro Hemingway non assistette, modellandola sulla
ritirata greca in Tracia durante la guerra greco-turca del 1922) è considerata
lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Facile immaginare, dunque,
perché Hemingway suscitasse l’entusiasmo degli oppositori. Come è facile
immaginare la faccia delle SS naziste quando, durante una retata presso la sede
di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi.
Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando
Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la
notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro
piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco.
Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili
interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la
definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da
anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).
Hemingway con Fernanda Pivano
L’episodio dovette giungere alle orecchie di Hemingway
poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel
Concordia di Cortina, aperto fuori stagione solo per lui. Lei all’inizio pensa
ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora
scomparso delle Dolomiti» (PIVANO, 2017) e lo raggiunge. È il 10 ottobre del
1948:
Quando mi aveva vista lì sulla porta della
sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per
entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte
richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi
racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva
detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie:
“Tell me about the Nazi” (PIVANO, 2008).
È l’inizio del sodalizio tra Papa (come
lei chiama lui) e Daughter (come lui chiama lei). Lui le parla
di Fitzgerald e Gertrude Stein, impilando tutti i ricordi della stagione
parigina che riorganizzerà in A Moveable Feast. Lei accumula
indelebili memorie, tra luci e ombre: la lunga tavolata del Natale 1948 a villa
Aprile, sempre a Cortina; le gite in montagna su una vecchia Buick azzurra;
l’«ombra permanente di disperazione» (PIVANO, 2017) al Gritti di Venezia, dove
la chiama nel 1954, l’anno del Nobel, per sostenerlo dopo l’incubo di uno
sciagurato safari in Congo (con ferite, notti all’adiaccio e ben due incidenti
aerei); il solare declino alla Finca Vigia, la casa di Hemingway a Cuba, dove
Fernanda lo rivede nel 1956 con «i suoi bermuda sorretti per miracolo sotto lo
stomaco teso dal gin» (PIVANO, 2017).
In tutto si conteranno, su Hemingway, una biografia, la curatela dell’opera
omnia, cinque edizioni delle opere, quindici prefazioni, quattro traduzioni,
innumerevoli pagine critiche.
Estratto dell’articolo di Mario Taccone Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Valentino Valitutti
Eternemente sbronzo, esibizionista e trasgressivo, Hemingway col suo linguaggio asciutto, allusivo e contaggioso, seppe decrivere il mondo com’era non come desiderasse che fosse, nevroticamente alla ricerca di un approdo che non gli riuscì mai di trovare.
Qualche anno fa, in un albergo di Siviglia,
rilessi all’ anziano matador de toros Jaime Ostos quanto Ernest Hemingway aveva
scritto su di lui vedendolo in azione nell’ arena a metà del secolo precedente:
«Jaime Ostos mostrò lo stesso coraggio dei cinghiali delle Sierras della sua
regione. Come il cinghiale, dava prova di un’ audacia quasi folle e rischiava
sempre più grosso fino a sembrare uno che vuole suicidarsi».
Il libro di Michael Katakis su Hemingway
Riascoltando quelle parole, Ostos minimizzava
lusingato, col suo ghigno da cinghiale. Commentò: «Hemingway era una cara
persona, un sentimentale. Beveva molto. Faceva colazione con una bottiglia di
vino e due croissant. Come scrittore non si sentiva capito. Diceva: forse non
riesco più a esprimermi, ma io continuo a scrivere le cose come le sento e non
posso che andare avanti così».
Incompreso Hemingway? L’ uomo del Nobel e del
Pulitzer? Dei bestseller globali? Sì, il vecchio torero ricordava bene. Perché
“Ernie” appartiene ormai alla riserva protetta dei classici, ma per
tutta la vita venne incornato dalla critica. Nei romanzi e ancora di più nei
racconti, aveva scarcerato la prosa inglese dall’ eloquenza, dall’ enfasi, dal
fronzolo vittoriano, però – a giudizio dei suoi detrattori – si era lasciato
imprigionare troppo presto in uno stile da duro che rasentava l’ autoparodia
involontaria.
Mr. Papa incassava quegli attacchi malissimo
e già alla fine degli anni Trenta denunciava i sintomi paranoidi della sindrome
da accerchiamento: «Mi odiano, vogliono farmi fuori» si legge in una lettera.
Lo scontro più celebre, se non altro perché
fisico, con un critico ebbe luogo a New York nell’ agosto ’37. Prima di
ripartire come reporter per la guerra di Spagna, Hemingway incrocia negli
uffici dell’ editore Scribner un tizio col quale ha un conto in sospeso. Si
chiama Max Eastman, è il giornalista che dalle colonne della rivista
progressista New Republic ha malmenato il suo “trattato” sulla
tauromachia Morte nel pomeriggio sfottendone soprattutto il machismo: la boria,
ha scritto, «di chi si appiccica peli finti sul petto». L’ ego virile
sanguinante, “Hem” se l’ è legata al dito.
Nei locali della Scribner lo vedono afferrare
un libro e scagliarlo in faccia al recensore. I due si avvinghiano, rotolano
sul pavimento rovesciando scrivanie. Seppur con gli occhiali rotti, Ernest –
che è più grosso e pratica il pugilato – sta per avere la meglio, ma si
trattiene. Li separano. I duellanti si ricompongono bofonchiando parole di
scusa. Sotto lo sguardo impietrito del grande editor Max Perkins, la bagarre si
chiude lì. Ma il livore anti-Hemingway avrà vita lunga, cristallizzandosi in un
pregiudizio che, oggi, nell’ impero del politicamente corretto, rischia di
trovare nuova linfa.
Hemingway e Scott Fitzgerald
Macho col sorrisetto sghembo alla Clark
Gable, robusto amatore e bevitore, fanatico di corride, pescatore nei Caraibi,
cacciatore in Africa… A 120 anni dalla nascita – 21 luglio 1899 – è di quell’
Hemingway poseur che tornano a parlarci molte tra le foto, alcune inedite,
raccolte nel sontuoso volume mondadoriano Hemingway. L’ uomo e il mito. Ecco,
appunto: il mito. «Io non lo sopporto. È semplicistico, limitante, stupido. Il
vero Hemingway era una personalità complessa, ricca di sfumature. Era
affettuoso, crudele, una brava persona e un bastardo, un tipo insicuro,
spaventato dalla vecchiaia e dalla morte. Certo, la responsabilità dell’ aver
creato il mito fu in parte anche sua.
Commise l’ errore nel quale incappano spesso
i “famosi”: quello di pensare di poter controllare il proprio mito.
Ma non funziona così: il mito assume una vita propria». Ed è lui a controllare
te.
Parola di Michael Katakis. Oltre che curatore
dell’ album ora tradotto in italiano, è il signore a cui gli eredi hanno
affidato l’ onere gravoso e invidiabile di gestire i diritti mondiali di
Hemingway. Buttali via. Katakis vigila e tratta non solo sui libri di Mr. Papa
ma pure sulla massa di cimeli oggi custoditi alla John Fitzgerald Kennedy
Library di Boston. Lettere, telegrammi (tra i quali uno in cui l’ ancora
senatore JFK chiede a Ernest di chiarirgli il concetto di
“coraggio”), plichi “top secret” dei servizi militari di
intelligence sotto Eisenhower, e poi assegni, scontrini di librerie, biglietti
di aerei, treni, navi…
Più una marea di foto: undicimila. Hemingway
è stato lo scrittore più fotografato del Novecento. Ma che rapporto aveva con
la propria immagine? «La curava molto» risponde Katakis. «Oltretutto aveva la
fortuna di essere fotogenico. Ha presente le famose foto realizzate a Sun
Valley, Idaho, nelle quali lo vediamo con i figli o con Gary Cooper? Sono
sbalorditive, alcune vennero scattate da Robert Capa. Ma Patrick, il
secondogenito di Hemingway, mi ha confessato che erano costruite a tavolino per
promuovere quella località. Succedeva spesso che al padre offrissero alloggio
gratis e altri vantaggi per usare la sua faccia a scopi pubblicitari». Questa
di Hemingway cripto-testimonial turistico ci mancava.
Hemingway con Silvia Beach a Parigi
Il narcisismo “mediatico” di Ernest
era cominciato molto presto. Prendi quello scatto celeberrimo che a Parigi, da
giovane, lo ritrae insieme a Sylvia Beach davanti alla libreria Shakespeare and
Company: Hemingway sogghigna spavaldo con la testa fasciata da una benda delle
dimensioni di un turbante. Che gli è successo? Niente di speciale. Una notte
che era sbronzo si è alzato per andare al gabinetto, ma al buio ha scambiato la
catenella dello sciacquone con quella della luce e tirando di strappo s’ è
fatto crollare la plafoniera sulla zucca. E il giorno dopo eccolo lì che
sfoggia la cicatrice nemmeno fosse una ferita di guerra.
Civetterie di un esibizionista precoce, ma
anche di uno che, fondendo esperienze vissute e scrittura, aveva deciso di
scaraventare in quell’ impresa tutto se stesso, a cominciare dal proprio corpo.
E, dalle 220 schegge di mortaio austriaco che a diciott’ anni s’era beccato
nelle gambe mentre faceva l’ ambulanziere sul fronte italiano ai terribili
incidenti aerei durante il viaggio africano del ’54 dal quale rientrò mezzo
cieco e sordo, con cranio ustionato, fegato e rene stritolati, fratture
multiple alla spina dorsale, quello di Hemingway fu – in vita – il corpo più
martoriato nella storia della letteratura.
A un secolo di distanza è davvero difficile
rendere l’ idea dell’ impatto che una simile figura di scrittore-personaggio
produsse sulla scena letteraria dell’ entre-deux-guerres. Per quanto i bollori
dei “folli” anni Venti incoraggiassero certe trasgressioni, Ernest
Miller Hemingway atterrò in quella temperie come un venusiano. Era un
giovanotto della buona borghesia di Chicago che, contro i desiderata di una
madre arpia e della propria classe, aveva rinunciato all’ università per
mettersi a fare il sordido mestiere di giornalista. Il vero scrittore «è uno
zingaro» avrebbe teorizzato più tardi, ma nomade lui lo divenne da subito.
Tra viaggi, guerre e rivoluzioni spesso
vissute come vacanze estreme, «Hemingway est tout le temps dehors», è sempre da
qualche parte là fuori, chiosava un critico francese. Rompendo con l’ immagine
del letterato ottocentesco sigillato in uno studio, Mr. Papa scrive in
alberghi, bar, accampamenti nella savana. Perfino quando lavora in casa sembra
circondato da una caotica atmosfera di provvisiorietà non sedentaria. Quanti la
visitarono prima che venisse plastificata a museo, raccontano la dimora cubana
della Finca Vigía come un delirante bric à brac di poltrone sfondate, pendole
scariche, teste di bufalo, pelli di antilope, pugnali, cavallucci di Murano,
pipistrelli sotto formalina, quadri di Miró, Braque, Masson, cappe da torero,
medicinali, e le pareti del bagno cosparse di graffiti perché Hemingway si
controllava la pressione ogni giorno annotandone i valori sul muro. Ernest gira
in bermuda sorretti da uno spago o da una cintura con su inciso Gott mit uns
sottratta al cadavere di un tedesco durante l’ ultima guerra. Un filo
balbuziente, in Europa e a Cuba parla un esperanto di sua invenzione nel quale
mescola spagnolo, francese e italiano. Negli States ha invece il vezzo di
esprimersi come i pellerossa nei vecchi western o nelle barzellette: «Io
scrivere libri.
Io pensare mai» ridacchia, contro gli
intellettuali.
Anche grazie a stravaganze del genere,
Hemingway divenne «un trendsetter, un creatore di tendenze», ricorda Katakis. I
giovani, ragazze comprese, iniziarono a radunarsi nei posti da lui celebrati, a
scimmiottare il linguaggio prosciugato, allusivo e così contagioso dei suoi
libri. Che all’ occasione non disdegnavano il turpiloquio. Defense of Dirty
Words si intitolava un articolo del ’34 nel quale “Ernie”
giustificava quel vocabolario per amore di realismo.
Osserva Katakis: «Oggi viviamo in un’ epoca
politicamente corretta. Per certi aspetti va benissimo, mentre su altri è
repressiva e stupida. Penso che Hemingway comprenderebbe il fastidio odierno,
che so, verso la caccia, ma credo che non accetterebbe limitazioni alla libertà
di dire o scrivere. Lui non aveva paura delle parole. Cercava sempre di
scrivere com’ era realmente il mondo, non come desiderava che fosse. A me pare
che in quest’ epoca teoricamente illuminata continuiamo a incontrare la stessa
quantità di stronzi di sempre. Oggi però non si può chiamare figlio di puttana
un figlio di puttana. Bisogna chiamarlo uomo d’ affari o banchiere».
Tra pochi giorni si aprirà a Key West,
Florida, il tradizionale concorso per il miglior sosia di Hemingway, arrivato
quest’ anno alla 39° edizione. Per quale altro scrittore si organizzano gare
tra imitatori? Non me ne viene in mente nessuno, ma posso sbagliare. La
kermesse si svolge allo Sloppy Joe’ s, uno di quei bar dove Hemingway,
trincando, raccoglieva materiale per le sue storie, ma nei quali vide pure il
proprio mito impazzire come la maionese. Nel ’50 scriveva a un amico: «Entri in
un locale notturno e subito ti si avvicina uno che ti fa: “Lei è
Hemingway, vero?” e ti molla un cazzotto senza dare spiegazioni, oppure
comincia a strofinarsi contro tua moglie… Henry James non aveva di questi
problemi».
Non era più vita. La leggenda cominciava a
fare a pugni col suo campione, ma adesso lo trovava stanco, imbolsito, amaro.
Forse le foto più belle sono quelle in cui il vecchio Ernest dorme, spesso
visibilmente ciucco. Aveva vissuto tanto, troppo per infilare tutte le cose
viste e provate in quel piccolo imbuto che è la letteratura. Si aggrappava ai
ricordi e quando, per sottrarlo agli abissi maniaco-depressivi, gli svuotarono
la memoria con una quindicina di elettroshock, disse: «Mi hanno rubato il mio
capitale». Ma ricordava ancora come si carica un fucile dal caccia, e all’ alba
del 2 luglio 1961 lo usò contro di sé.
Mosso da un’ ambizione senza scrupoli, era
stato irriconoscente fino alla perfidia con gli amici, da Sherwood Anderson a
Scott Fitzgerald, che lo avevano aiutato a diventare chi diventò. Però poteva
essere anche d’ una generosità sfrenata e quelli che gli volevano bene
assicurano che sotto il carapace era «fragile come una meringa».
Tutti gli eroi dei suoi libri sono degli
sconfitti. Non dei falliti in senso borghese, ma degli uomini che scommettono,
si buttano nella lotta vitale e falliscono. Speculare all’ ossessione americana
del successo, il fallimento è il tema chiave dell’ arte di Hemingway. E forse
quello che più irrita un’ epoca anti-tragica e idiotizzata dal progresso come
la nostra.
Una volta Fernanda Pivano mi disse che
Hemingway considerava Morte nel pomeriggio il suo libro migliore. Perché? «Per
via del capitolo 16» rispose “la Nanda”. Sono le pagine in cui
“Ernie” spiega la propria poetica del personaggio, dell’ emozione,
dell’ omissione deliberata. A me però il capitolo più importante è sempre
sembrato il 20°, l’ ultimo. Mr. Papa – che aveva un talento speciale per i
finali struggenti – lo scrisse nel dicembre ’31 ed è un elenco di tutte le
toccanti cose spagnole che lui non è stato in grado di mettere nel libro:
“Se fossi riuscito a fare un vero libro, ci sarebbe stato dentro tutto…
le giornate di treno in agosto con le tende abbassate dalla parte del sole e il
vento che le gonfia… l’ odore del grano e i mulini a vento di pietra… le
strade innaffiate nel sole e le gocce ghiacciate sui boccali di birra… le
cicogne sulle case e volteggianti nel cielo… un caldo che nessuno sa che cosa
sia il caldo finché non c’ è stato…”».
Stilista supremo (riscrisse la fine di Addio
alle armi 47 volte), venuto su nella palestra del Modernismo con Joyce, Pound e
Gertrude Stein per trimurti, Hemingway non è riuscito a fare un “vero
libro con dentro tutto” non per imperizia, ma perché nel Novecento la
letteratura ha divorziato dalla totalità, dall’ idea dell’ autore onnisciente.
Death in the Afternoon è perciò un frammentone di 300 pagine.
AMORE SENILE, DOCILE MELANCONIA PRIMA DEL CREPUSCOLO, TRAGICO E VIOLENTO PER ENTRAMBI-LA STORIA DEGLI ULTIMI ANNI DI HEMINGWAY E ADRIANA, RAMPOLLA VENEZIANAIN UN LIBRO DI ANDREA DI ROBILANT
Andrea De Robilant, giornalista e scrittore romano
Lo ha scritto in inglese perché destinato al mercato americano. Poi, mercè l’ aiuto della moglie, lo ha tradotto in italiano. Ne è venuto fuori Autunno a Venezia – Hemingway e l’ ultima musa (Corbaccio, pagg.266, euro 19,90) scritto da Andrea Di Robilant, giornalista che ha vissuto e respirato l’ aria anglosassone, ma potrebbe essergli stato ispirato da Papa Hemingway in persona tanto è intimo e vissuto in diretta.
Adiana Ivancich
È la storia – poco nota – dell’ ultima fase nella vita di Hemingway, quella forse più dolorosa e sanguinante. Con Adriana Ivancich – splendida ragazza diciottenne che Papa conosce una sera di pioggia – lo scrittore ritrova la sua ultima musa, colei che lo avrebbe aiutato a riscoprire la vena narrativa assopitasi dopo circa dieci anni di inattività rispetto a Per chi suona la campana (1940). Papa aveva ormai cinquant’ anni, l’ età del bilancio e dell’ amarezza, che si insinua nell’ anima camuffandosi da malinconia inspiegabile.
Adriana, rampolla di una famiglia veneziana, aveva gambe snelle, un profilo che avrebbe fatto innamorare chiunque, e capelli neri, densi come il velluto. Il matrimonio di Papa con la quarta moglie Mary non andava più così bene. Le loro vite erano separate.
Lui preferiva Venezia, diviso tra il Gritti – un albergo affacciato sul Canal Grande e le sue acque color del vino – e l’ Harry’ s, il bar dove i camerieri e il maitre erano diventati suoi sodali. Mary amava sciare e trascorrere gran parte dell’ anno a Cortina dove avevano una casa. Questo treno di vita da separati rese galeotta la storia con Adriana, che sarebbe divenuta la Renata di Di là dal fiume e tra gli alberi. Nel libro si narra la storia di un colonnello dell’ esercito americano malato, a cui la guerra ha lacerato l’ anima. Renata è il suo ultimo grande amore. Sarà un libro considerato da molti critici una prova stanca di Hemingway, ed in più farà scandalo.
Adriana con Papa Hemingway
In una città come Venezia non si accettava che una delle sue ragazze venisse messa così in esposizione, chiamata Daughter – figlia – ma dipinta come un’ amante disinibita. In realtà – lo dice lo stesso Andrea Di Robilant, nipote di un compagno di bevute di Papa – quel libro – che forse non piacque neanche a Nanda Pivano – fu «il solo modo per Hemingway per liberarsi definitivamente dai fantasmi che la guerra gli aveva lasciato, e che per lui si erano mutati in strascichi dolorosi. Dopo quel libro si sentì libero, più pronto a rivedere tutto ciò che era stato prima».
Adriana verrà con lui alla Finca Vigìa a Cuba (la sua casa tenuta), dove Papa la voleva vicino avendole delegato le copertine sia di Di là dal fiume e tra gli alberi (1950) ma soprattutto di Il vecchio e il mare (1952). I grafici della Arnoldo Mondadori avevano mal accettato l’ intromissione di questa giovane musa da cui Papa appariva soggiogato. Quando lei era presente, Hemingway scriveva con una limpidezza classica capace di far fare alle parole tutti i giri della corrente del Golfo. Ciò fu possibile soltanto grazie ad Adriana.
Il libro di Di Robilant ha potuto scavare dentro questo rapporto così profondo e inusitato – che forse non rovinò nella fisicità del sesso – grazie ad un atout estremamente prezioso, le lettere scritte da Hemingway a Adriana, ancor oggi inedite, che la Hemingway Foundation ha reso accessibile a Di Robilant. Sono scritte in un inglese che fa capire non soltanto come Papa riuscisse a manipolare le parole ma così intime e personali da rivelarci chi fosse lo scrittore e l’ uomo: geniale, infantile, capriccioso, e profondamente generoso.
Papa fu al centro – proprio in quegli anni – di una controversia accesa tra un giovane e già tenace Giulio Einaudi e un sardanapalesco Arnoldo Mondadori che pagava fior di quattrini pur di non perdere uno scrittore tanto amato e letto come mai nessun altro in Italia in quel momento.
Quasi nessuno sa che Hemingway accettò di permutare parte del proprio imponente credito in diritti con Giulio Einaudi ricevendo – al posto di cinque milioni di vecchie lire degli anni ’50 – le azioni per un valore corrispondente della casa Editrice Einaudi, di cui per molto tempo a venire divenne uno dei principali azionisti. Lui, Papa Hemingway, primo azionista di una casa editrice “comunista”! Il biografo dice – giustamente – che se lo fece, fu perchè in qualche modo voleva lasciare qualcosa ad Adriana, che peraltro non smise mai di sostenere economicamente. Fino al matrimonio, sfortunato, di lei.Papà si ammazzerà con un colpo di fucile e Adriana si impiccherà nel 1983.