E se “Il Processo” di Kafka altro non fosse che il decorso di una malattia?
L’opera di Kafka, è noto, sollecita e frustra innumerevoli interpretazioni. La sua lingua meticolosa e impassibile è una parete liscia su cui gli strumenti analitici ( psicanalisi, teologia, marxismo) scivolano senza fare presa. Schiacciando su uno stesso piano i più vari livelli della realtà, lo scrittore induce gli studiosi a riarticolarli, e a tradire così l’enigma concreto della sua poesia. Non pretendo quindi di tentare in poche righe l’ennesima interpretazione ( del resto nella critica kafkiana si trova già tutto, come nella biblioteca di Borges), e meno che mai di ridurre quell’opera a una piatta allegoria, o a una lunga similitudine in cui ogni figura sta per un’altra. Vorrei semplicemente offrire il resoconto di una mia rilettura del “Processo”, condizionata forse dall’atmosfera pandemica e da una personale vicenda di paziente. Più mi inoltravo nella storia di Josef K., più mi sembrava di trovarmi davanti al decorso di una malattia. Dopo un risveglio sgradevole, in cui le cose non sono come dovrebbero essere, K. si scopre in arresto. Ma è uno strano arresto.
Comunicata la notizia, le guardie si congedano convinte che il funzionario “vorrà certo andare in banca”. “Come posso andare in banca, se sono in arresto?” ribatte K. stupito. “La cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione”, spiega un ispettore, né di mantenere “le sue abitudini”. Non è così che vengono comunicate certe diagnosi? Continui pure la sua vita come prima, finché è possibile… Le udienze somiglieranno allora a controlli periodici: un interrogatorio si può anche evitare, ma nel caso è l’interrogato a perdere l’opportunità di una “visita”. Il cappellano che darà a K. una sorta di estrema unzione oratoria ribadirà che “il tribunale non vuole niente da te. Esso ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. Il processo non avanza attivamente: semmai si moltiplicano i sintomi di una patologia strisciante, fino al momento imprevedibile in cui, chissà da dove, arriva la sentenza di morte. Negli uffici del tribunale, soffocanti e promiscui come corridoi d’ospedale, la gente aspetta che si ammettano “alcune prove nella sua causa” come aspetterebbe di poter mostrare i referti degli esami. Quando lì dentro K. si sente male vogliono portarlo in infermeria: “il suo corpo voleva forse ribellarsi e preparargli un nuovo processo (…)? Non respinse del tutto il pensiero di andare, alla prima occasione, da un medico”. Un ruolo fondamentale hanno in Kafka i letti, luoghi nei quali la vita pubblica e la vita intima si mischiano proprio come in ospedale: quello del pittore Titorelli, pigiato contro la porta, e quello da cui parla l’avvocato Huld ( gli avvocati sono dei medici- pazienti). Titorelli, che partecipa ai riti ufficiali dell’amministrazione ma conosce le vie ufficiose, sembra una specie di medico “alternativo”. E’ lui a spiegare a K. che “ci sono tre possibilità, cioè l’assoluzione reale, l’assoluzione apparente e la procrastinazione”, e anche che “tutto fa parte del tribunale”. La malattia coincide con la vita: si può al massimo cronicizzare, tenendo il processo “nel suo stadio più basso” e andando “dal giudice competente a intervalli regolari” ( i check- up, appunto). Quanto alla guarigione, è una leggenda. Perciò “un solo boia potrebbe sostituire l’intero tribunale” – ovvero, nella mia lettura “malata”, l’intero reparto dei medici specialisti, con le loro prescrizioni afflittive e contraddittorie e il loro gergo esoterico.
A queste prescrizioni ci si sottopone finché “arrivano momenti di sconforto (…) in cui sembra che abbiano avuto una conclusione felice solo quei processi fino dal principio destinati a un esito felice, come sarebbe avvenuto anche senza aiuti, mentre sono andati persi tutti gli altri, nonostante ogni assistenza”. K. cerca di sfuggire allo sconforto chiedendo aiuto a Leni, la domestica dell’avvocato simile a una “piccola infermiera”. Anche i due uomini che lo portano a braccetto sulla pietra dell’esecuzione si fermano “come infermieri quando il malato vuol riposare”. Così, sotto il loro bisturi, muore un funzionario che a trent’anni, mentre vorrebbe godersi la carriera e le notti di festa, passa il tempo a redigere una minuziosa anamnesi per capire dove si annida il virus della colpa. Ma è una ricerca vana. K. pretende di conoscere razionalmente ciò di cui si può solo avere esperienza; in un certo senso, è un ipocondriaco che vede avverarsi i suoi terrori. Qualche settimana fa, sul Foglio, Marco Archetti ricordava che le opinioni di Kafka sulla sanità erano quelle dei no vax. Aveva una sfiducia profonda nella pretesa dei medici di arrivare a risultati sicuri. In una lettera a Brod scrisse che “c’è una malattia soltanto, non di più, e la medicina insegue quest’unica malattia come un animale attraverso foreste infinite”. In una frase, ecco il riassunto delle trame più tipiche della narrativa kafkiana.
E’ POSSIBILE UN RAPPORTO CON LA LEGGE?- E POI, QUALE LEGGE?- OGNI RAPPORTO CON ESSA E’ DESTINATO INEVITABILMENTE A FINIRE NEL TRAGICO E NEL GROTTESCO?- DAVANTI ALLA LEGGE STA UN GUARDIANO E’ PER KAFKA UNA METAFORA SULLA INSOPPORTABILITA’ DELLA VITA, OPPURE LA CRITICA CONTRO CHI VORREBBE PER VIVERLA IL PERMESSO?
Perché amiamo Kafka? Cosa ci dice? Cosa muove in noi? Perché un giurista dovrebbe leggerlo e rileggerlo come ha fatto per una vita Antonio Cassese? La prima risposta che viene in mente di getto è perché Kafka cerca di dirci che l’origine della legge è un mistero non meno grande del mistero della lingua. Il linguaggio e la legge sono due concetti cari all’ebraismo (e Kafka era ebreo).
Gli eroi kafkiani non vengono mai a sapere quale è l’origine la ragione della legge, del comando, del processo che li obbliga e li coinvolge. Sono soggettività schiacciate dalla legge. Nel processo il signor K. non conoscerà mai la sua imputazione, nel Castello l’agrimensore K. non comprenderà la logica del sistema che governa la vita del luogo in cui è arrivato (o è stato gettato), nella Metamorfosi Samsa non conosce la ragione del suo cambiamento in un orribile insetto. Kafka ci parla della vita e del suo rapporto (problematico forse impossibile) con la legge, con l’ordine, con ogni forma di regolarità destinata a sfociare nel grottesco e nel mostruoso. Il testo più noto in proposito è Davanti alla Legge. Conviene riportarlo per intero:
Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi», dice il guardiano, «ma adesso no». Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me». L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sé. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea. Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile». «Tutti si sforzano di arrivare alla legge», dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?». Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo».
Il rapporto dell’uomo con la legge è destinato a rimanere misterioso. La sete di giustizia rimane inappagata, anzi c’è di più l’ansia trova una risposta che assume l’aspetto della beffa (“Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo”). Questo testo è emblematico delle relazioni tra diritto e letteratura, e lo è in virtù del fatto che esso mette in prospettiva il rapporto paradossale tra la generalità della legge e l’assoluta singolarità di colui a cui si applica. La letteratura svela la singolarità e quindi ci permette di confrontarci con il lato oscuro, inesplicabile, del diritto come oscura è l’origine dell’individualità ed inesplicabile la vita.
E’ stato detto con efficacia, sulla scorta di Derrida lettore di Kafka, che “in effetti, pochi racconti quanto quelli di Kafka hanno mostrato, della legge, a qual punto il rapporto che si ha con essa si iscriva singolarmente nel corpo di ognuno, nella voce, nei gesti e nelle posture, nella maniera di star dritti o curvi, come quei profili che disegnava l’autore de Il processo. Lungi dall’essere astratta, estranea alla sua vita, la legge fa parte della storia più intima del corpo. Nessuno sa, tuttavia, quando tutto ciò sia cominciato e come la legge si sia incorporata. Probabilmente questa incorporazione è anche, insieme alla coscienza della nostra finitezza, la parte più segreta di ciò che ci è stato imposto, a nostra insaputa. Nondimeno, nessuno può ignorare di essere obbligato a convivere con essa, per tutta la vita. Poiché se resta indeterminata l’origine del rapporto con la legge, almeno il suo termine è conosciuto. La lunga durata è il primo tema di Davanti alla legge. Non si conosce l’età dell’uomo della campagna, quando si presenta alla porta della legge per entrarvi, ma si sa quando finisce la storia: alle soglie della morte. Così, il racconto, pure brevissimo, è punteggiato di note che evocano il tempo che passa. La durata della speranza nella giustizia è lunga quanto la vita ed è destinata a accompagnarla per intero. Alla fine la legge non si lascia conoscere e l’accesso resta sbarrato. Dopo tutto, non si sa nemmeno di che tipo di legge si tratti: legge della natura, legge morale, legge giuridica, legge fondamentale. Vale a dire che la sua generalità si ritrova raddoppiata. C’è senz’altro una “legge”, reale o immaginaria, attestata dalla singolarità del rapporto che l’uomo di campagna intrattiene con essa, ma non se ne sa niente. Soprattutto, il racconto non riesce a dirci di più. Non rende la legge più accessibile. L’unica cosa che è in grado di fare è ripetere e riprodurre, raddoppiare, nella scrittura stessa, l’inacessibilità della legge.” Impossibilità duplice del racconto sulla legge e della conoscenza sull’origine della legge.
PIU’ CHE IL CANTO POTE’ IL SILENZIO-STREPITOSA INTERPRETAZIONE DI KAFKA DEL MITO OMERICO: L’EROE DI ITACA SAPEVA CHE LE SIRENE TACEVANO, MA CON ASTUZIA APPRONTO’ LO STRATAGEMMA CHE GLI FECE DIMENTICARE QUALUNQUE CANTO. E SE ULISSE FOSSE STATO SORDO?
Rovesciando il poema omerico Kafka immagina un Ulisse senza coraggio, non solo legato all’albero maestro, ma al pari dei compagni con le orecchie sigillate. Immagina al posto di un canto ammaliante e mortale un silenzio altrettanto inquietante. Nella reinterpretazione del mito le Sirene hanno una nuova arma: il silenzio, una finzione di morte e di debolezza. Si tratta di mancanza di eroismo, devozione verso gli dei o totale ignoranza? Kafka non dà una risposta precisa, e resta il dubbio se il silenzio delle Sirene sia un preludio all’annullamento della morte o sia Ulisse a non volerle più ascoltare, rivelando la distanza dell’uomo nei confronti del divino.
“Una dimostrazione che anche risorse insufficienti e persino puerili possono servire come mezzi di salvezza: per salvarsi dalle sirene, Ulisse si tappò le orecchie con della cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile, certo, avrebbero potuto fare da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che già da lontano erano sedotti dalle sirene; ma si sapeva in tutto il mondo che era impossibile che questi rimedi funzionassero.
Il canto delle sirene penetrava tutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato impedimenti ben più forti di catene e alberi. Ulisse, anche se forse lo sapeva, non ci pensò. Confidò pienamente nel suo pugno di cera, nel suo mazzo di catene, e con gioia innocente, contentissimo delle sue piccole astuzie, navigò incontro alle sirene.
Nel frammento che risale al III sec. a.c. alcuni versi del XIV libro dell’Odissea di recente ritrovati
Ma accade che le sirene dispongano di un’arma più terribile ancora del loro canto. Si tratta del silenzio. Forse era immaginabile- anche se, certamente, neppure questo era accaduto- che qualcuno scappasse al loro canto; ma senza alcun dubbio nessuno poteva salvarsi dal loro silenzio. Non v’è nulla di terreno che possa resistere alla sensazione di averle vinte con le proprie forze, e alla conseguente infatuazione che tutto travolge.
In effetti, all’approssimarsi di Ulisse, le formidabili cantatrici non cantarono, sia perché ritennero che un simile avversario potevaa essere affrontato solo col silenzio, sia perché quella visione di beatitudine sul volto di Ulisse, che pensava solo a cera e a catene, fece loro dimenticare qualunque canto.
Ma Ulisse, per così dire, non udì il loro silenzio; credeva che cantassero, e che egli solo fosse libero d’ascoltarle. Vide prima, fugacemente, gli occhi colmi di lacrime, la bocca semiaperta, e credette che tutto questo facesse parte delle arie che, senza essere ascoltate, risuonavano e si perdevano attorno a lui.
Gustav Klimt: Ulisse e il canto delle sirene
Ma presto tutte le cose rimbalzarono sul suo sguardo astratto; era come se le sirene scomparissero di fronte alla sua decisione, e proprio quando fu più vicino a loro, non seppe più nulla della loro presenza. Ed esse- più belle che mai-si stiravano e si contorcevano, protendevano gli artigli aperti sulla roccia, e le orrende capigliature ondeggiavano libere al vento. Ora non pretendevano più di sedurre: desideravano solo cogliere, finché fosse possibile, il riflesso dei due grandi occhi di Ulisse.
Se le sirene avessero una coscienza, sarebbero state distrutte in quell’occasione. Ma così sopravvissero, e solo Ulisse sfuggi loro. Del resto la tradizione riferisce anche un episodio al riguardo. Ulisse, così narrano, fu tanto volpe, tanto ricco di astuzia, che neppure la dea del destino riuscì a penetrare nell’intimo della sua coscienza. Forse-anche se questo la ragione umana non può concepirlo-avvertì in realtà che le sirene tacevano, e solo a mo’ di scudo, per così dire, oppose ad esse e agli dei quella commedia.”
Il brano di Fraz Kafka è tratto da Racconti brevi e straordinari di Jose Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, edizione Franco Maria Ricci, 1973.
LE PAROLE AIUTANO L’UOMO, SOVENTE LO IMBROGLIANO-UNICO CONSIGLIO E’ USARLE CON PRECAUZIONE, USARE QUELLE GIUSTE E QUELLE CHE BASTANO- LA STORIA DEL CONTADINO CHE CONOSCE PIU’ DI 100 LINGUE.
Torno sul tema che un poco mi ossessiona: quello delle parole.
Non tanto sulla loro origine ed evoluzione da un punto di vista del glottologo, interessante, stimolante, ma sostanzialmente da tavolino.
Ci voglio tornare dalla parte di chi sta nella parola, la usa e abusa tutti i giorni e se ne sporca, rimanendone invischiato, di chi vede un corpo vivo e pulsante e non un relitto su cui il tempo ha sedimentato echi più che suoni.
Si dice che con mille parole sei padrone della lingua, o almeno ti fai capire e capisci, comunichi anche pensieri sofisticati e complessi, che è poi lo scopo finale della comunicazione verbale.
Con poco più di 1000 vocaboli, sei in grado di scrivere un libro, così come viene, alla buona, usi il linguaggio delle gente, il loro afasico, ripetitivo, monocorde lessico familiare, magari puoi spacciarlo per romanzo neorealista.
Ma allora, perché tante lingue, ma soprattutto perché tante parole?
Forse sarà perché, come sostiene Sklovskij, la parola con l’andare del tempo si anestetizza? E quindi bisogna inventarne e usarne sempre di diverse.
O sarà, meglio ancora, perché la parola segue l’uomo e non l’uomo la parola, nel senso che la parola è sempre in cammino con le gambe dell’uomo?
La parola cui penso è geo referenziata e temporalmente localizzata. Solo così ti spieghi la massacrante stringatezza dell’inglese americano, o del perché in Russia per dire ubriacarsi si usano 40 verbi diversi, ma la stessa vodka, o perché gli esquimesi dispongano all’incirca degli stessi vocaboli per descrivere le sfumature del bianco. Pensate, le sfumature del bianco!!, mentre in altre lingue per indicare un colore non hai nessun vocabolo perché quella lingua non ne dispone.
Le parole sfuggono all’uomo quando non si adattano agli incastri della mente e sono impermeabili alle sollecitazioni ambientali. Pretendono una loro autonomia, si contrappongono alla sua realtà, che non riflettono più se non deformandola.
E’ la sorte di tutti i linguaggi esoterici, specialisti, burocratici nei quali si realizza la eterogenesi dei fini: nate per comunicare oppongono un muro fra gli uomini.
Esempi mirabili, in letteratura, sono così copiosi da imbarazzare.
Uno fra tutti, il linguaggio burocratico del Processo di Kafka (lo scrittore, di burocrazie si intendeva avendo per molto tempo lavorato a Praga in un ente pubblico che si occupava degli infortuni sul lavoro).
Romanzo sopravvissuto a se stesso: incompiuto e da bruciare, secondo il volere dello stesso autore. Eppure mirabilmente compiuto e perfettamente aderente nello stile e nelle parole a quanto di angosciante e spersonalizzante siamo soliti associare al termine burocratico.
Fin dal celebre incipit: “Qualcuno doveva avere calunniato Iosef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.
Il perenne clima di indeterminatezza cala in un sistema dove tutto pare funzionare per voleri imperscrutabili, dove tutto appare criptico e indecifrabile, dove la persona non conta ma conta l’adempimento, il rituale, la prassi.
“Il tribunale non ti chiede nulla, ti accoglie quando viene, ti lascia andare quando vai”, altra enigmatica e sfuggente frase che viene a K. da quel mondo di “procedure oniriche”, come mi sembrerebbe opportuno definire quello del Processo.
Non una fabbrica di sogni, ovviamente, ma di incubi sì.
Le parole aiutano l’uomo, sovente lo imbrogliano. Unico consiglio è usarle con precauzione, usare quelle giuste e quelle che bastano.
CAPRARA (RE) – Ribelle fino in fondo, il contadino poliglotta si prepara col sorriso ad andare “verso l’infinito”. A Caprara, piccola frazione di Reggio Emilia fra campi brinati e torpido silenzio, la porta della prima casa di via della Rimondella è sempre aperta. Fuori c’è un cartello: “Fondo librario documentario Riccardo Bertani”. Porta il nome di chi in quella cascina ha sempre vissuto, chiuso in una stanza piena di libri e agende delle banche. Lì, Bertani, in 70 anni di studi e traduzioni ha scritto e realizzato più di 1000 volumi, arrivando a conoscere da autodidatta oltre 100 lingue.
La sua storia, quella del contadino poliglotta, o del glottologo dell'”estremo mattino”, è davvero particolare. Nato nel 1930 in una famiglia contadina, con il padre ex sindaco iscritto al partito comunista, lasciò la scuola appena dopo le elementari. “Era castrante, sono fuggito. Mi interessava altro. Devo dire che solo una maestra mi capì”. Allergico alla matematica, iniziò a lavorare nei campi “ma ero e sono un contadino sbagliato, non certo un contadino modello”.
Perché più che le biolche da coltivare o gli animali da allevare “io avevo sempre in testa i libri – racconta – quelli che cominciavo a capire”. Nell’abitazione dei genitori, in quegli anni dell’Italia fascista, c’erano per lo più solo tomi russi. Bertani inizia giovanissimo a sfogliare Tolstoj, a leggerli in italiano, poi compra una grammatica russa e approfondisce: “Ho iniziato a tradurre. Intorno ai 18 anni non facevo altro. Ero attratto dall’Oriente, la Russia, l’Ucraina”. Era attratto dall’alba. “Da anni, mi sveglio alle due del mattino e mi preparo all’arrivo del sole. A quell’ora il mio cervello non sta fermo, ho la mente limpidissima, così comincio a studiare”. È l’amore per l’estremo mattino.
Torno sul tema che un poco mi ossessiona: quello delle parole.
Non tanto sulla loro origine ed evoluzione da un punto di vista del glottologo, interessante, stimolante, ma sostanzialmente da tavolino.
Ci voglio tornare dalla parte di chi sta nella parola, la usa e abusa tutti i giorni e se ne sporca, rimanendone invischiato, di chi vede un corpo vivo e pulsante e non un relitto su cui il tempo ha sedimentato echi più che suoni.
Si dice che con mille parole sei padrone della lingua, o almeno ti fai capire e capisci, comunichi anche pensieri sofisticati e complessi, che è poi lo scopo finale della comunicazione verbale.
Con poco più di vocaboli, sei in grado di scrivere un libro, così come viene, alla buona, usi il linguaggio delle gente, il loro afasico, ripetitivo, monocorde lessico familiare, magari puoi spacciarlo per romanzo neorealista.
Ma allora, perché tante lingue, ma soprattutto perché tante parole?
Forse sarà perché, come sostiene Sklovskij, la parola con l’andare del tempo si anestetizza? E quindi bisogna inventarne e usarne sempre di diverse.
O sarà, meglio ancora, perché la parola segue l’uomo e non l’uomo la parola, nel senso che la parola è sempre in cammino con le gambe dell’uomo?
La parola cui penso è geo referenziata e temporalmente localizzata. Solo così ti spieghi la massacrante stringatezza dell’inglese americano, o del perché in Russia per dire ubriacarsi si usano 40 verbi diversi, ma la stessa vodka, o perché gli esquimesi dispongano all’incirca degli stessi vocaboli per descrivere le sfumature del bianco. Pensate, le sfumature del bianco!!, mentre in altre lingue per indicare un colore non hai nessun vocabolo perché quella lingua non ne dispone.
Le parole sfuggono all’uomo quando non si adattano agli incastri della mente e sono impermeabili alle sollecitazioni ambientali. Pretendono una loro autonomia, si contrappongono alla sua realtà, che non riflettono più se non deformandola.
E’ la sorte di tutti i linguaggi esoterici, specialisti, burocratici nei quali si realizza la eterogenesi dei fini: nate per comunicare oppongono un muro fra gli uomini.
Esempi mirabili, in letteratura, sono così copiosi da imbarazzare.
Uno fra tutti, il linguaggio burocratico del Processo di Kafka (lo scrittore, di burocrazie si intendeva avendo per molto tempo lavorato a Praga in un ente pubblico che si occupava degli infortuni sul lavoro).
Romanzo sopravvissuto a se stesso: incompiuto e da bruciare, secondo il volere dello stesso autore. Eppure mirabilmente compiuto e perfettamente aderente nello stile e nelle parole a quanto di angosciante e spersonalizzante siamo soliti associare al termine burocratico.
Fin dal celebre incipit: “Qualcuno doveva avere calunniato Iosef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.
Il perenne clima di indeterminatezza cala in un sistema dove tutto pare funzionare per voleri imperscrutabili, dove tutto appare criptico e indecifrabile, dove la persona non conta ma conta l’adempimento, il rituale, la prassi.
“Il tribunale non ti chiede nulla, ti accoglie quando viene, ti lascia andare quando vai”, altra enigmatica e sfuggente frase che viene a K. da quel mondo di “procedure oniriche”, come mi sembrerebbe opportuno definire quello del Processo.
Non una fabbrica di sogni, ovviamente, ma di incubi sì.
Le parole aiutano l’uomo, sovente lo imbrogliano. Unico consiglio è usarle con precauzione, usare quelle giuste e quelle che bastano.
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