USCIRE DALLA GABBIA DELLA MENTE

USCIRE DALLA GABBIA DELLA MENTE

RISTORARE LA MENTE, ALLONTANARE LE SOFFERENZE- A POMAIA VICINO AL MARE SI MEDITA NELL’ISTITUTO LAMA TZONG KHAPA- PERCHE’ FARSI DOMANDE CHE NON HANNO RISPOSTA?- USCIRE DALLA GABBIA DELLA MENTE, ASSAPORARE IL PRESENTE, UNICA DIMENSIONE DELLA NOSTRA ESISTENZA

 

istituto lama tzong khapa

Un’ oasi di pace e armonia, nel cuore dell’ Italia che sembra un pezzetto di Tibet: fa questo effetto entrare all’ istituto Lama Tzong Khapa, il più grande centro di buddismo tibetano in Europa che si trova a Pomaia, in provincia di Pisa. In realtà è una villa patronale con una torre che la fa somigliare ad un castello, immersa tra le colline toscane e a pochi chilometri dal mare, che da oltre 40 anni accoglie chi si vuole intraprendere un percorso spirituale o semplicemente trovare la pace.

istituto lama tzong khapa 6

Il Dalai Lama è stato qui in cinque diverse occasioni. Aggirandoci per l’ immensa tenuta dai grandi spazi verdi, attraversiamo templi, stupa, ossia i monumenti reliquiari dove fermarsi a meditare, e ruote della preghiera su cui è impresso il mantra in sanscrito «Om Mani Padme Hum» (invocazione per alleviare le sofferenze degli esseri senzienti) e persino una statua da film: l’imponente Buddha della compassione creato dal premio Oscar Dante Ferretti per Kundun di Martin Scorsese. All’interno dell’ Istituto un suggestivo gompa, ossia la sala della meditazione e dello studio, a cui si accede rigorosamente senza scarpe e si resta seduti a terra su morbidi cuscini.

istituto lama tzong khapa 5Qui non vivono solo monaci ma anche chi ha scelto di studiare il buddismo, cambiare vita o visitare un luogo che ristori la mente. È possibile frequentare seminari, non solo su buddismo e meditazione, ma anche su etica secolare salute e benessere, e soggiornare anche per lunghi periodi.

La mensa è rigorosamente vegetariana, non ci sono alcolici ma un giardino del the in cui spiccano le statue del fondatore e di un grande maestro dell’ istituto. Ad arrivare a Pomaia sono persone da ogni parte del mondo e di varia estrazione sociale, accomunate dalla voglia di trovare la felicità con una vita semplice, nutrendosi di meditazione e cibo naturale, come ci spiega la monaca Lucia. «Appena si arriva si sente subito una grande pace. E’ un posto un po’ magico. Chiunque cerchi la tranquillità senza trovarla si avvicina e ascolta gli insegnamenti dei maestri spirituali».

LE STORIE

È accaduto a Gianna, che dopo una vita appagante, vissuta in varie città d’ Italia, dieci anni fa ha scelto di fermarsi a Pomaia, dove ora si occupa della biblioteca dell’ istituto, che vanta circa 4000 libri sul buddismo in varie lingue. «Abitavo e lavoravo a Roma, una città bellissima ma ero molto stressata perché non avevo mai tempo per me stessa ed ero continuamente distratta, stanca – ci dice – indotta a consumi eccessivi. Lo stress è svanito da quando sono a Pomaia. La mia vita è cambiata radicalmente in meglio».istituto lama tzong khapa 4

A migliorare la qualità della vita non è stato solo un ambiente totalmente diverso ma la voglia di aiutare gli altri «permettendogli di acquisire degli strumenti per migliorare le proprie vite. Il buddismo è un ateismo religioso. La divinità è dentro di noi, dobbiamo sviluppare saggezza e comprensione. Noi siamo quello che pensiamo.

Il buddismo è una scienza della mente che indaga i meccanismi con cui a volte ci infliggiamo inutili sofferenze. Alcune sofferenze non si possono evitare, altre invece sì se la mente è più calma e si concentra su ciò che c’è di bello oggi».istituto lama tzong khapa 3

Secondo Gianna è il segreto della felicità: «Noi vogliamo sempre risposte, ma certe domande non le prevedono. Solo accettandolo ci pacifichiamo. Indagando perdiamo il presente, il momento. Anche quando tutto va male c’è qualcosa di buono, se lo si scopre ci si deve concentrare su quello. È un addestramento che viene con la pratica, come quando inizi a suonare uno strumento». Renato ha lasciato la vita quotidiana per trasferirsi a Pomaia, dove oggi lavora come addetto alle registrazioni audio, benché la sua scelta sia stata frutto di una casualità: «Ci sono capitato e ho deciso di rimanere perché ho capito che la maggior parte delle mie sofferenze me le auto provocavo. Qui ho compreso che ci sono delle origini a questo tipo di atteggiamento e anche degli antidoti: disarmare la mente, cambiare visione e atteggiamento. Così puoi trovare te stesso».

istituto lama tzong khapa

Se e quando avverrà il ritorno nel «mondo circostante» sarà con un bagaglio di consapevolezza, spera Renato, ma oggi il mondo esterno da qui lo vede «con compassione perché sono tutti distratti, non si fermano un momento a riflettere e non si guardano dentro».Per ora, della sua vecchia vita non gli manca «nulla».

LA GIORNATA

Le giornate di chi ha deciso di stabilirsi nella dimora di pace Lama Tzong Khapa trascorrono tra le normali attività quotidiane in un contesto comunitario in cui si inserisce la meditazione. Per gli altri è un luogo di evasione a cui tornare, magari ciclicamente, per coltivare o ritrovare l’ armonia di cui si è sempre alla ricerca.

istituto lama tzong khapa

 

Il primo insegnamento ce lo indica la Venerabile Lucia: «Avere più fiducia in noi stessi, volersi bene e accettarsi. In generale ci critichiamo sempre e lo facciamo anche con gli altri. Questo crea uno stato di grande disarmonia e paura reciproca, perché non ci comprendiamo e non ci fidiamo l’ uno dell’ altro. Bisogna partire da noi stessi per stare bene con gli altri».

 

 

Articolo di Marilena Vinci per “la Stampa”

IL MESTIERE INGRATO DEL SINDACALISTA

IL MESTIERE INGRATO DEL SINDACALISTA

A DIECI ANNI DALLA MORTE ESCONO I DIARI, FINORA RIMASTI RISERVATI, DI BRUNO TRENTIN, CARISMATICO SEGRETARIO DELLA CGIL DAL 1988 AL 94- SONO GLI ANNI DELLA FINE DELLA SCALA MOBILE, DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO,DELLA SVOLTA DELLA BOLOGNINA-IL RICORDO NELLE PAROLE DI MICHELE MAGNO PER IL FOGLIO.IT 

 

I DIFFICILI ANNI FRA CRISI PUBBLICA E MALI ESISTENZIALI

Perché scrivere un diario? E per chi? Per amore di se stessi, per poter approvare l’immagine di sé che si va costruendo nella scrittura? Oppure per lamentarsi delle proprie inquietudini e dare sfogo ai propri dispiaceri? Quest’ultima sembra essere la funzione del “journal intime”, così come lo concepiva Jean-Jacques Rousseau nelle “Rêveries du promeneur solitaire”. L’idea è pascaliana: “L’anima ha le sue tempeste e i suoi giorni di bel tempo”. Il diario registra quindi le variazioni dell’umore, e questa è la sua caratteristica (e anche il suo limite). I “diari” di Bruno Trentin sono sono qualcosa di più. Infatti, rifuggono da ogni finzione letteraria poiché erano destinati a rimanere segreti. Ciò ne spiega anche il linguaggio molto schietto e, talvolta, assai crudo. Non è stata quindi una decisione facile quella di pubblicare gli appunti riservati di Trentin negli anni in cui ha guidato la Cgil. Come ricorda Marcelle Padovani, sua moglie, sono stati gli anni più tesi e più aspri della sua vita, nei quali “avvertiva acutamente la propria solitudine; una solitudine attraversata da una triplice crisi: politica (all’interno e all’esterno del sindacato), esistenziale (con depressioni ricorrenti) e crisi dei nostri rapporti (che per fortuna si risolverà positivamente)”.

LE LOTTE INTESTINE AL SINDACATO

Questa cifra introspettiva traspare chiaramente già in un clamoroso incipit: “Un mese è passato. Un mese terribile. Un vortice di riunioni stressanti, di corsa all’inseguimento del nulla, di resistenza a una guerra per bande che travolge l’intero gruppo dirigente della Cgil […]. Posso solo cercare, ostinatamente, di astrarmi, di rifiutare questo miserabile scenario […]. Non posso assistere a questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella […]. Vorrei […] non pensare più a quel maledetto e irriconoscibile sindacato” (8 ottobre 1988). La leadership traballante di Antonio Pizzinato da alcuni mesi era sul banco degli imputati, e perfino i vertici di Botteghe Oscure ne auspicavano un ricambio. Trentin, pur ritenendo la condotta del suo predecessore “debole, patetica e astiosa”, non nasconde la sua amarezza per quella che considerava una congiura di palazzo “torbida e cinica”. Alla fine, tuttavia, è costretto a cedere: dopo una rapidissima consultazione, subentra al dimissionario Pizzinato. “Sento -confessa alla vigilia della sua elezione – di non provare forti emozioni. Da un lato, certo, la sensazione fredda di un atto di giustizia rispetto alle basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso. Ma dall’altro lato molte incertezze sulla possibilità di contribuire in modo efficace a curare il malato” (27 novembre 1988).

GLI ANNI DEL MURO E DELLA SCALA MOBILE

I leader sindacali Carniti, Benvenuto e Trentin

Il diario 1989 è dedicato, in buona parte, proprio alla diagnosi dei malanni da cui era afflitto il lungodegente sindacato italiano, spiazzato dal mutamento epocale del panorama produttivo e demografico del paese. Una “grande trasformazione”, per dirla con Karl Polanyi, che stava scompaginando sistemi d’impresa, di relazioni industriali, di welfare. E’ in questo contesto che Trentin propone, in una ormai storica Convenzione della Cgil (Chianciano, aprile 1989), un “patto di solidarietà tra diversi” e il “sindacato dei diritti”. Entrambi vengono prospettati come l’unica alternativa possibile alla rottura del vecchio compromesso distributivo tra profitto e salario. Compromesso sul quale si basava, in ultima istanza, il monopolio della rappresentanza dei lavoratori dipendenti esercitato dal sindacalismo confederale. Con il declino del fordismo e la diffusione delle tecnologie informatiche, pertanto, la vecchia “solidarietà di classe” andava per lui riedificata dalle fondamenta, identificando i titolari e gli obiettivi di un nuovo compromesso sociale. Questi titolari altro non erano che le persone, con le loro domande di lavoro specifiche e con i loro individuali bisogni di protezione. E questi obiettivi altro non erano che la conquista di nuovi diritti di carattere universale: umani, del lavoratore, del cittadino. In questo senso, il ritratto di un Trentin “solo contro tutti”, invelenito contro i tristi figuri che volteggiano come uccellacci rapaci sulle spoglie del movimento operaio italiano il leitmotiv, ad esempio, della recensione di Marco Cianca sul Corriere della Sera, 8 giugno), non convince. Non convince perché porge la mano a un sensazionalimo che non nelle corde dell’autore dei diari. Alieno per carattere da ogni capriccioso “cupio dissolvi”, l’intento delle sue polemiche era quello di sollecitare la sinistra e il sindacato a fare i conti senza reticenze e senza liquidazioni sommarie con il proprio passato, in un momento di frenetico cambiamento di nomi e riferimenti ideali.

Luciano Lama, segretario CGIL

Il 1989 è anche l’anno della protesta di Piazza Tienanmen (15 aprile-4 giugno) e della caduta del Muro di Berlino (9 novembre), a cui segue la svolta della Bolognina (12 novembre). Una catena di eventi drammatici che cambia il corso della storia nel mondo e in Italia: “Giornate tristi e convulse, piene di lotte sotterranee, di meschine contese e anche di molte viltà […] Eppure bisogna reagire a questa canea ideologica e ipocritamente bigotta – scrive Trentin – che cerca di ingrassarsi sui cadaveri di Pechino e sulla tragedia, pur così nitida nelle sue componenti, che sta stritolando il comunismo confuciano di Deng Xiaoping […] Sono le due anime del marxismo a rivelarsi alla fine incompatibili […]. In questa lunga contesa, in questa eterna contrapposizione fra l’anima libertaria, autogestionaria del socialismo e l’anima statalistica sta certamente la radice delle nostre responsabilità e delle nostre sconfitte” (7 giugno 1989). Quanto alla svolta di Achille Occhetto, gli pare “goffa” e travolta da una furia iconoclasta meramente finalizzata all’ingresso nell’area di governo”. In verità, Trentin era poco interessato al processo costituente del nuovo partito. Nel diario i suoi principali bersagli polemici sono lo storicismo assoluto proprio di certa tradizione comunista, e il provincialismo culturale della sinistra italiana, rinchiusa in un angusto orizzonte nazionale mentre con il crollo dell’impero sovietico stava riemergendo “una grande questione tedesca e una grande questione europea”.

Tra il congresso straordinario di Bologna (marzo 1990), che decreta lo scioglimento del Pci, e il congresso di Rimini (febbraio 1991), in cui viene fondato il Pds, si consuma un doloroso “strappo” con Pietro Ingrao. Nonostante l’antico rapporto di amicizia, “sento una distanza-afferma il segretario della Cgil- tra le mie riflessioni e il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente”. Distanza che si acuisce dopo il suo voto contrario all’invio delle navi italiane nel Golfo Persico (agosto-settembre 1990): “La rottura in seno al gruppo parlamentare comunista è stato un atto insensato e meschino […], un regalo al governo, un triste errore in cui Ingrao si è fatto catturare da quattro avventurieri che pensano soltanto di ricavare dalla crisi del Medio Oriente […] qualche vantaggio per la loro politica di scissione casalinga e per un’operazione di potere che sembra quasi democristiana”. E aggiunge: “Anche il calcio tirato in modo sprezzante da Pietro nei confronti del tentativo, certo farraginoso […] di Antonio [Bassolino] di formulare un programma ponte che dialogasse con lui, mi pare un segno del degrado al quale siamo pervenuti […]. Le affinità elettive si degradano in fedeltà personali, le convergenze politiche si degradano in complicità di cordata” (12 settembre 1990).

OSTILITA CON BERTINOTTI E IL TRAMONTO DI GORBACEV

Al centro del diario 1991 ci sono tre questioni cruciali: l’intervento militare in Iraq, che giustifica pur non condividendo la tesi della “guerra giusta”, sostenuta da personalità a lui molto vicine quali Vittorio Foa, Norberto Bobbio e Antonio Giolitti; il tramonto dell’esperienza riformatrice di Gorbacev, che lo getta in uno stato di profondo sconforto; la costruzione di un’Europa sociale, dove sposa il Piano Delors. Tutti spunti che verranno ripresi e precisati nella sua relazione al XII congresso della Cgil (Rimini, ottobre 1991), il quale scioglie le componenti di partito. Nell’insieme, “una grossa battaglia vinta [contro] l’armata Brancaleone di Bertinotti e [contro la metamorfosi] della lotta politica in un conflitto tribale […]. Ma certamente la guerra continua e conoscerà molte altre prove”.

CROLLA LA PRIMA REPUBBLICA

Sarà profeta in patria. Nel 1992, sotto i colpi dei referendum di Mariotto Segni e dei giudici di Tangentopoli, cala il sipario sulla Prima Repubblica. Dopo gli assassini di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino 23 maggio e 19 luglio 1992), il sindacato organizza una grande manifestazione unitaria a Palermo, la più imponente nella storia del Mezzogiorno. Ma non basta a sanare i contrasti con la Cisl di Sergio D’Antoni. Un dissidio che esplode a luglio, quando il governo Amato chiede ai leader sindacali il loro assenso all’abolizione della scala mobile e al blocco della contrattazione aziendale. Sono giorni di trattative convulse e di incontri interminabili a Palazzo Chigi. Finché, il 31 luglio, Trentin firma l’accordo. Il perché lo chiarisce in un una specie di promemoria “Tutto si è compiuto in questo giorno e nella notte. Giovedì, per ventiquattro ore un negoziato estenuante e insidioso con il governo che fa praticamente da portavoce e da mediatore della Confindustria. Assalito a colpi di insulti da Abete [Giancarlo, presidente di Confindustria] e dai suoi tirapiedi, Amato si aggrappa disperatamente a loro per trovare una via d’uscita che salvi la sua immagine e il negoziato nel quale si è avventurato, fidandosi dell’arrendevolezza del sindacato e del corrispondente bisogno d’immagine dei burocrati della Cisl e della Uil. Il fronte sindacale si sgretola rapidamente […] Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo […] Non potevo annunciare alla segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto” (31 luglio 1993).

LE DIMISSIONI

Le sue dimissioni vengono respinte, e si moltiplicano gli appelli (anche di coloro che lo avevano accusato di “collusione col nemico”) affinché le ritiri senza indugio. Trentin accetta, e prepara la sua rivincita. Essa si compie esattamente un anno dopo, il 31 luglio 1993. Il protocollo d’intesa siglato con il governo Ciampi, infatti, riconsegnava al sindacato la sua potestà contrattuale, dentro una cornice condivisa di regole contrattuali e di misure per contenere la spirale inflazionistica. Un successo che non affievolisce il suo impegno di studioso. I suoi interlocutori ideali di questo periodo sono gli scrittori delle esperienze operaiste e della sociologia francese. E a questo periodo risale anche la prima traccia di quella che sarà la sua opera più matura, “La città del lavoro” (1997).

Infaticabile nelle letture ma sempre più stanco di una Cgil perennemente rissosa, quando Ingrao abbandona il Pds in concomitanza con il varo del governo Ciampi, Trentin ha una reazione gelida: “Mi sembra di rivivere la fuga verso l’estremismo parolaio di alcuni austro-marxisti come Adler di fronte […] alla tragedia incombente degli anni Venti”. Intanto, gli attacchi depressivi si susseguono, e assiste con un senso di impotenza all’ascesa di Berlusconi. Decide allora di lasciare anzitempo la segreteria della Cgil, da cui si accomiata nel giugno 1994. Si apre così una nuova fase della sua vita: “Sono tornato ieri [a San Candido] dopo la parentesi un po’ faticosa di un viaggio in Corsica con Marie [Padovani]. […] Ho ripreso a leggere – devo dire con molto interesse e ricavandone alcuni stimoli importanti – il libro di Corrado Malandrino ‘Socialismo e Libertà’ (Franco Angeli, 1990), sulla letteratura socialista ispirata al Federalismo dall’inizio del secolo ad oggi. Ho appena finito il capitolo su papà [Silvio ] che mi sembra acuto ed equilibrato. Per svago ho ripreso il mio Philip Dick, raccolta di novelle e un romanzo (‘Puttering about in a small land’) […]. Ma sopra ogni cosa, sono felice di essere tornato qui” (8 agosto 1994).

I diari, impreziositi da una bella prefazione di Iginio Ariemma, sono stati dati alle stampe senza correzioni e cancellature. «E’ stata una scelta di rispetto per Bruno”, sottolinea Marcelle Padovani nella nota introduttiva. E’ stata anche una scelta coraggiosa, va aggiunto. Perché ci svela anche gli aspetti più passionali e più intimi, le fragilità e perfino le ubbìe di una delle figure più carismatiche del sindacato novecentesco. Può darsi che oggi Trentin sarebbe disposto a mitigare i giudizi più ruvidi che costellano i suoi testi. Essi però, in fin dei conti, sono la croce di quella stessa delizia che le sue pagine migliori procurano al lettore, vale a dire la radicale originalità, il rigore critico, la formazione non scolastica e non improntata ad alcuna ortodossia. Doti che gli consentono di non temere mai la contaminazione con culture diverse. Del resto, considerare tra i punti di riferimento etici e teorici del suo pensiero Simone Weil o il personalismo cristiano di Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, padroneggiare Michel Foucault o non giurare sui classici del socialismo e del marxismo, erano (e restano) atteggiamenti non usuali per un sindacalista, che attestano una estrema libertà intellettuale. Infine, una domanda: i diari di Trentin sono irrimediabilmente datati, sono solo una testimonianza autorevole di un settennio ormai sepolto dalla storia?

La vedova Trentin, Marcelle Padovani, giornalista

La risposta è sì se si analizzano le singole soluzioni in cui si articola il suo progetto di “liberazione del lavoro”. Ma la credibilità di un progetto non si misura soltanto sui particolari o sui dettagli, bensì sulla sua anima, sul suo significato generale. La risposta, allora, è no se si pensa alla sua idea del sapere come vero motore dell’innovazione, e del lavoro «intelligente e informato» come l’unica ricchezza sovrana delle nazioni nell’era della globalizzazione, del primato dell’eguaglianza delle opportunità sull’eguaglianza dei risultati (in termini di distribuzione del reddito). Il progetto di cui parla Trentin, al fondo, è una sorta di “utopia laica”. Non promette la felicità a tutti. Vuole dare a ciascuno i mezzi per realizzare al meglio le proprie aspirazioni personali. Questo ciascuno non è soltanto ricco o povero, ma è anche debole o forte, e lo è soprattutto se “sa” o “non sa”. Per questo i grillini a loro insaputa e i sedicenti epigoni del “sindacato dei diritti” trentiniano (che in realtà ne sono i suoi becchini), dovrebbero imparare a memoria quei passaggi dei diari in cui viene fatto a pezzi il reddito di cittadinanza (alias “liberazione dal lavoro)”, e quelli sulla necessità di governare la flessibilità del lavoro mediante tutele non imperniate su una ottusa difesa del posto fisso.

Il leader della Fiom Maurizio Landini.Genova.ANSA/LUCA ZENNARO. La vedova di Trentin Marcelle Pavovani ha diffidato Landini da fare uso del nome del marito.

Il prossimo 23 agosto cade il decennale della morte di Trentin, causata da un maledetto incidente avvenuto proprio su quelle strade dolomitiche che spesso gli restituivano la gioia di vivere. Non c’era modo migliore di celebrarlo che rendere pubblici questi inediti quanto singolari frammenti autobiografici.

 

BENVENUTO A N.Y.

BENVENUTO A N.Y.

 

 

FINALMENTE TORNA L’ARTE NOBILE DELLA POLITICA NEL PENSIERO DI GIORGIO BENVENUTO, OSPITE A NEW YORK DEL CALANDRA INSTITUTE DELLA CUNY E ALL’ONU- PARLA DELL’ATTUALITA’ POLITICA ITALIANA E DEL SOCIALISMO EUROPEO PER I LETTORI DI LA VOCE, GIORNALE ON-LINE PER GLI ITALIANI CHE VIVONO NELLA GRANDE MELA 

 

Giorgio Benvenuto nella seconda metà del XX secolo è stato uno dei leader storici del sindacalismo italiano. Parlamentare del PSDI e poi del PSI,  nel 1993 sostituì Bettino Craxi come segretario del Partito Socialista al tempo di  Mani Pulite. Oggi Benvenuto è il presidente della Fondazione Pietro Nenni. Nella foto: Giorgio Benvenuto, col curatore Luigi Troiani e Paolo Messa, Direttore del Centro Studi Americani, discute del libro di John Cappelli “Memorie di un cronista d’assalto”, durante l’evento tenuto lo scorso febbraio al Calandra Italian American Institute della CUNY

 

Lei è presidente della Fondazione Pietro Nenni. La fondazione prende il nome dal leader socialista che ebbe una parte fondamentale nella stesura e nell’accordo tra forze diverse per la costituzione repubblicana. Cosa avrebbe dovuto imparare Matteo Renzi, prima di lanciare un referendum costituzionale sul quale è stato sconfitto anche come primo ministro, dal modo di far politica di Nenni?

“Il referendum del 1946 non era una scelta tra dirigenti politici, ma tra repubblica e monarchia. Il referendum del 2016 ha avuto un significato plebiscitario, di fiducia nel capo di partito e di governo. Nenni costruì invece assieme agli altri leader dei partiti che avevano contribuito alla vittoria contro il nazifascismo, un accordo sui principi generali. L’unica pregiudiziale era nei confronti dei fascisti. Tutti i partiti, tutti i movimenti che avevano concorso alla liberazione dell’Italia, anche se avevano diverse opzioni dal punto di vista ideale ed ideologico, trovarono la forza di realizzare il cambiamento istituzionale dalla monarchia alla repubblica definendo nella nuova Costituzione principi generali nei quali tutti si riconoscevano. Sono convinto che per fare una Costituzione sia importante realizzare l’accordo tra i diversi partiti, indipendentemente dal fatto che essi siano alla maggioranza o all’opposizione. Questo è il principio che ispirò la politica di Nenni e degli altri “padri costituenti”.

Nella cosiddetta Seconda Repubblica (1994-2016) non si è mai cercato di fare riforme che avessero un consenso generale. Renzi non ha voluto capire che aveva una straordinaria opportunità: correggere gli errori fatti da Berlusconi, Amato, D’Alema e Prodi. Ha voluto imporre al Parlamento e al PD le sue idee, senza confrontarle. La Costituzione andava certo aggiornata, migliorata e modificata, ma esigeva la ricerca di un’intesa la più ampia possibile sui principi”.

Che differenza c’è nella crisi del PD di oggi che soffre la scissione e rischia il crollo e quella che attraversò il Psi? L’attuale indebolimento del maggior partito di centro sinistra potrebbe aprire spazi per la presa del potere da parte di forze pericolose per la democrazia? Avvenne già nel 1922 che la debolezza dei governi creasse le condizioni per l’avvento della destra reazionaria.

“Quando in un partito non si riesce a discutere, a convivere, ad avere rapporti costruttivi tra maggioranza e opposizione (purtroppo questo capita spesso a sinistra) ci si divide prima, ci si scinde poi. La scissione avvenuta nel PD penso però che non sia ancora definitiva. E’ un incidente di percorso. Spero anzi che si ritrovino le condizioni di una convivenza. La situazione politica, economica e sociale richiede l’unità. Lo stesso Partito Democratico, nato dall’incontro tra diverse culture riformiste, deve tornare ad essere unito. Deve essere capace di fare alleanze. Deve riuscire a sviluppare il dialogo. Se ci si divide si finisce per essere sconfitti. Abbiamo tanti esempi nella storia recente. Perché vinse il fascismo? Nel 1919 il partito fascista ottenne meno di 5000 voti nelle prime elezioni a suffragio generale; il Partito Socialista sfiorò quasi il 50% dei voti nell’Italia del Nord: era il primo partito italiano; aveva decine di migliaia di cooperative socialiste; il sindacato socialista, la CGIL, aveva 2.500.000 iscritti; il 40% dei comuni aveva un sindaco socialista. Tre anni dopo nel 1922 il fascismo conquistò il potere. Perché? Il Partito Socialista si divise nel 1921, si ridivise ancora nel 1922. Nacque prima il Partito Comunista, poi i restanti socialisti si scissero in due partiti: uno massimalista e l’altro riformista. Il risultato? Vinse una dittatura, quella fascista, durata vent’anni. Nel 1946, subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, il Partito Socialista si è subito diviso tra i seguaci di Saragat e quelli di Nenni. E così l’Italia non avrebbe mai avuto, nell’Europa occidentale, un forte partito socialdemocratico, come avvenuto in Germania e in altri paesi europei. E un’altra scissione si è ripetuta nel 1969 quando si ridivisero i socialisti e i socialdemocratici. Ogni scissione ha fatto fare molti passi indietro all’Italia sulla strada della crescita economica, dello sviluppo, delle conquiste sociali”.

Lei è stato per pochi mesi segretario del Partito Socialista Italiano, dopo Bettino Craxi, durante la tempesta Tangentopoli. Quei tempi politici secondo lei, erano più pericolosi per la democrazia italiana rispetto ad oggi, oppure la Repubblica rischia di più nel 2017?

“E’ stata una fase drammatica nella storia del nostro paese. Purtroppo è una storia che non passa. Continua. Nella prima repubblica c’erano sette partiti. Oggi sono un’ottantina. Si voleva cambiare tutto. Si è cambiato poco o nulla. E’ stata cavalcata la spinta giustizialista che non ha trasformato la protesta in proposta. E’ caduta l’autorevolezza delle istituzioni. Non c’è più fiducia nello Stato. Trionfa spesso il qualunquismo. Siamo, dopo vent’anni, sempre sulla strada della provvisorietà. Non si fanno vere riforme, non si adegua e modernizza la Costituzione; si conta sempre meno nello scenario internazionale. Si vive alla giornata, si sopravvive sperando che possa venire un uomo della provvidenza. Occorre voltare pagina. Va archiviata questa lunga fase di transizione e va realizzato il cambiamento del paese. L’Italia può e deve contare in Europa e nel mondo”.

Passiamo alla parte più sindacale. Lei è stato per anni leader della UIL, quando con CGIL e CISL i sindacati italiani contavano tantissimo in Italia. Quel tridente d’attacco: Lama, Carniti, Benvenuto per i diritti dei lavoratori, va ritenuto una formula di altri tempi o in Italia il ruolo forte dei sindacati dovrebbe o potrebbe ritornare?

I leader sindacali Pierre Carniti (CISL), Luciano Lama (CGIL) e Giorgio Benvenuto (UIL)

“Il sindacato ha vissuto allora una fase straordinaria di conquista e di successi. Il segreto della sua forza era l’unità e la capacità di indirizzare le proteste verso grandi riforme per il cambiamento e la modernizzazione del paese. E’ stata migliorata la scuola. E’ stato valorizzato il lavoro. Sono stati conquistati importanti diritti civili. E’ stato sconfitto il terrorismo. Il sindacato unito è stato decisivo nella crescita sociale e politica. L’Italia ha avuto un vero e proprio miracolo economico. Negli anni Ottanta l’Italia era la quarta potenza industriale nel mondo. Oggi è tutto più complesso. C’è la globalizzazione. Domina la logica del mercato. La sinistra, a cui sempre il sindacato si è richiamato, vive una fase di difficoltà, non riesce ad immaginare un nuovo ruolo in un mondo che è cambiato. E’ difficile fare oggi attività sindacale, rappresentare il mondo del lavoro. Ma le occasioni per esserci non sono scomparse. Il ruolo del sindacato è oggi più necessario di ieri; del sindacato come di tutti i soggetti intermedi perché raggruppano le persone e cercano di rappresentarle. Il sindacato ha il compito di fare in modo che la globalizzazione, la finanza e il mercato abbiano regole e che soprattutto ce ne sia una che deve valere: l’economia e la finanza devono essere al servizio della dignità della persona umana e non viceversa. Il sindacato, i partiti, la sinistra tradizionale, il mondo delle associazioni non devono accantonare i propri ideali. Oggi la sinistra teme che le antiche ideologie e i vecchi principi siano superati. C’è l’ansia di legittimarsi imitando i movimenti populisti. E così le proteste, il disincanto, il malumore del mondo del lavoro e dei giovani finiscono per indirizzarsi a nuovi movimenti che sanno solo promettere senza assumersi la responsabilità della proposta. Movimenti che delegittimano le istituzioni e cavalcano ogni dissenso ricorrendo solo alla protesta verbale che diviene sempre più violenta….

Cosa pensa di Donald Trump? Crede che sia una versione americana di potenziale fascismo pericoloso per la democrazia americana e la libertà nel mondo, oppure si tratta di un movimento social-conservatore ma che i check and balance della costituzione americana possono tranquillamente controllare e contenere?

“Ho un’opinione diversa. La vittoria di Trump è il risultato dei meccanismi della legge elettorale in USA. Trump ha vinto nel voto degli Stati; ha perso invece nel conteggio dei voti popolari (tre milioni di voti in più sono andati alla Clinton). Ha preso i voti delle persone anziane; ha vinto nell’America profonda; ha avuto molti voti tra i lavoratori; ha vinto per un soffio negli Stati che erano da decenni roccaforti dei democratici. Penso che sia azardato dire che Trump ha una visione fscista. I voti a Trump sono il sintomo largamente presente in USA, soprattutto nel ceto medio, della paura. La paura del diverso, la paura di perdere quello che si è conquistato, la paura del futuro.

Il fascismo e il nazismo volevano sopprimere la libertà, erano razzisti. Il populismo è invece originato dalla paura, dal disinganno, dalla sfiducia nei partiti tradizionali. Trump ha vinto due volte: contro la nomenclatura del Partito Repubblicano e contro Clinton. Il populismo non si combatte chiedendo di votare il meno peggio; non si vince demonizzando e ridicolizzando l’avversario; si vince con le idee”.

Passiamo in Europa. Secondo lei, l’Europa ce la farà a passare questi momenti di profonda crisi e divisioni, pensiamo alla Brexit e ai rifugiati, e riprendere il cammino per gli Stati Uniti d’Europa? Oppure quello è stato solo il sogno di qualche generazione e bisogna prepararsi al peggio?

“Ci sono tre scenari possibili. Il primo è catastrofico. Se prevalgono i populismi l’Europa si dissolve. Risorgeranno forme di nazionalismo. E, inevitabilmente, direi inesorabilmente, il nazionalismo porterà allo scontro, alla incomprensione, alla contrapposizione, alla guerra.

Il secondo scenario possibile è quello dell’immobilismo. Si continua a non decidere. Si ha il timore di creare problemi ai partiti europei impegnati nelle prossime elezioni in Francia e in Germania. Si aspetta che passi, come diceva Eduardo De Filippo, la “nottata”. E’ quello che suggerisce Juncker, il Presidente dell’Unione Europea, che ha presentato un libro bianco per il rilancio dell’Europa. Un piano inutile che rinvia le soluzioni e lascia l’Europa in mezzo al guado.

Il terzo scenario è quello della speranza. L’Europa deve riprendere il cammino verso l’integrazione politica e sociale. L’euro non può essere il punto di arrivo. E’ la tappa del lungo cammino che va completato. Non può l’euro essere un “marco” travestito che sta spaccando e frammentando l’Europa. Il voto in Olanda ha fatto tirare un respiro di sollievo alle forze europeiste. Bisogna reagire alle spinte per la dissoluzione dell’Europa ed agire.

L’Italia ha in questo scenario un’occasione straordinaria, gli scienziati la chiamerebbero una sorta di “congiunzione astrale”. L’Italia presiede a Roma la riunione dei 27 paesi facenti parte dell’Unione Europea per celebrare i 60 anni della firma degli atti costitutivi. A maggio l’Italia presiederà il vertice dei sette paesi maggiormente industrializzati del mondo (è il primo al quale partecipa Trump e all’ordine del giorno c’è il problema della Russia e di Putin). Il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani è italiano. Il capogruppo del Partito Socialista Europeo nel Parlamento Europeo, Gianni Pittella, è italiano. La rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Federica Mogherini è italiana. E’ italiano infine Luca Visentini, Segretario Generale della Confederazione Europea dei Sindacati. L’Italia è quest’anno nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, presiede il gruppo Mediterraneo di Osce, e il prossimo anno sarà presidente di Osce, dove ha già il Segretario Generale.

Giorgio Benvenuto durante la sua visita all’ONU

L’Italia deve operare per raccogliere i consensi necessari per andare avanti nella costruzione dell’edificio europeo. Occorre progettare, con i tempi e le gradualità necessari, l’attuazione dell’integrazione economica, sociale e politica. Occorre dare la precedenza alla definizione di una politica fiscale comune che elimini la “fiscalità nociva” tra gli stati europei; occorre favorire una politica di sviluppo che rafforzi la coesione; occorre una politica comune sull’immigrazione; occorrono dei passi in avanti sull’integrazione politica; va ripristinato in Europa il ruolo della Commissione e vanno rafforzati i poteri del Parlamento, oggi troppo subordinati alle decisioni prese nelle riunioni dei capi di Stato.

L’Italia deve recuperare il tempo perduto. Il dibattito e il confronto tra i partiti deve riguardare l’Europa. E’ lì che si gioca il futuro. Troppe volte le cosiddette primarie che nei partiti hanno sostituito i congressi, si riducono ad uno scontro tra aspiranti leader: si contano ma, ahimè, non contano poi nella gestione della politica economica e sociale. Non contano nello scenario internazionale. Il più delle volte si adattano a sfornare opinioni su quello che accade; sono, invece, incapaci di avere idee, proposte, progetti. Chiedono ai propri elettori di “credere”, non domandano di pensare”.

Guardiamo alla politica internazionale contemporanea. Trump sta impostando la sua politica estera tra diverse contraddizioni e annunci che preoccupano. Ci si chiede se la NATO serve ancora. C’è la Cina rampante e la Russia di Putin che guarda indietro. Secondo lei politici di sinistra, insieme realisti come Nenni e Craxi, che tipo di rapporto cercherebbero di avere con il mondo contemporaneo?

“Nenni e Craxi erano degli statisti moderni. Non hanno mai sottovalutato la politica internazionale. Hanno avuto sempre l’ambizione di svolgere un ruolo determinante. In alcuni momenti sono stati dei veri protagonisti.

Pietro Nenni e Bettino Craxi

Oggi, come ieri, occorre fare i conti con la realtà. Senza demonizzarla, cercando di approfondire le novità ed i cambiamenti. L’Europa non è condannata al declino. Si può e si deve reagire. L’Europa deve essere un’entità politica coesa. L’Europa (Silvio Trentin diceva durante la battaglia della resistenza al nazifascismo “liberare et foederare”) ha una grande importanza strategica e politica.

La Nato va ammodernata, equilibrata e ristrutturata. Ha svolto una funzione importante nel secondo dopoguerra. Gli scenari sono cambiati. La Russia di Putin risente il richiamo della foresta dell’imperialismo zarista e sovietico; l’America non può rinchiudersi nell’isolazionismo. Alle guerre tradizionali si sostituiscono oggi gli scontri religiosi, il dramma delle emigrazioni, i conflitti economico sociali derivanti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione”.

Presidente, un’ultima domanda. La sua generazione politica che nell’infanzia aveva conosciuto gli orrori della guerra, e che poi ha vissuto il successo dell’Italia e del boom economico, cosa può ancora insegnare alle nuove generazioni che cercano di governare l’Italia? E nella galassia democratica e progressista italiana ora frantumata in schieramenti politici diversi, chi pensa avrebbe più bisogno e sarebbe più ricettivo ai suoi consigli frutto di una tanto lunga esperienza politica e sindacale.

“Penso che l’Italia sia un paese particolare, di molte culture, di molte conoscenze; è un paese che storicamente ha avuto anche cicli storici straordinari. Penso all’uscita dal Medioevo, al Rinascimento. L’Italia è un paese fatto da migliaia di comuni, ha un florido pluralismo, un incredibile folklore, tanti dialetti, millenarie tradizioni. E’ un paese che dà il meglio di se stesso se è governato. Cosa vuol dire governato? Significa che sono importanti le forze intermedie. E’ necessario sempre, con pazienza cercare di puntare al consenso. E’ il metodo che oggi, in termini tecnici, è chiamato concertazione.

Negli ultimi tempi, ogni tanto, è riaffiorata in Italia, nei momenti peggiori, la scorciatoia di invocare l’uomo che comanda. Tra comandare e governare c’è profonda differenza. Chi governa dà l’impressione che ci sia bisogno di più tempo e fatica, ma alla fine i risultati ci sono. Chi comanda non riesce a fare le riforme, non riesce a governare, determina nel paese solo contrapposizioni. Oggi l’Italia è un paese diviso tra partiti e sindacati; tra nord e sud; tra donne e uomini; tra giovani e anziani; tra lavoratori del pubblico e del privato … Potrei continuare con un elenco che non finirebbe mai. E’ la politica degli uni contro gli altri, politica che poi si spezzetta, che cade nell’individualismo e nella ricerca di soluzioni semplici a problemi che sono complessi. Immagino che l’esperienza che possiamo portare, noi che abbiamo vissuto nel passato momenti tragici e felici, sia quella di suggerire il metodo migliore per governare l’Italia. Non si deve parlare solo dei problemi della gente e basta. Si deve parlare con la gente.

Nenni in comizio a Milano nel 1966

L’Italia ha bisogno di avere coesione, questo ancora di più oggi in una fase nella quale si ha paura del futuro. E quando si ha paura ci si affida all’uomo forte. E’ un errore. Quell’uomo è forte nel tono della voce e negli insulti che dà, ma è povero e debolissimo nelle proposte. Non si deve rinunciare alle idee. Un partito, un sindacato, non deve ammutolirsi, non deve adottare la furbizia di chi, per avere un applauso, si appiattisce sulle posizioni altrui, non deve avere l’ansia della legittimazione inseguendo la moda del populismo. Non bisogna temere le sconfitte e gli insuccessi. La società civile è viva e reattiva. Non c’è solo protesta e qualunquismo. Ci sono molte potenzialità. I partiti dovrebbero parlare di più con la gente. L’Italia ha bisogno di persone come Nenni e la sua generazione. Persone che sono state capaci di lottare, che non si sono mai rassegnate, che non si sono mai crogiolate nella sconfitta, per reagire e alla fine vincere”.

 

Intervista di Stefano Vaccara per www.lavocedinewyork.com/ 22 marzo 2017

 

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