CE N’E’ PIENO IN GIRO

CE N’E’ PIENO IN GIRO

A zonzo per la campagna con Maurizio Maggiani-3- E’ la volta dei papaveri, delle istrici e delle lucciole, ma anche dei granchietti

Sabato scorso era una giornata splendida, ancora più promettente del 25 Aprile, una primavera smagliante, un po’ ventosa, ma le primavere devono pur essere ariose; così ho preso su la bicicletta e invece che addobbarmi con i soliti quattro strati di indumenti altamente termotecnici, ne ho messi solo tre, così che in capo a tre ore ero a casa devastato da sinusite e bronchite. Sono ancora qui che respiro grazie e tre diversi presidi farmacologici e una bella pezza di lana calda imbevuta di balsamo nel petto, va già bene che oggi almeno non goccio sulla tastiera.

La verità è che sono deplorevolmente cagionevole, e ho maturato il fondato sospetto di appartenere a una specie ormai segnata da un’angosciante cagionevolezza, visto che ogni volta che confido i miei malanni al medico di famiglia, mi informa, esclamativo e sconsolato, di qualunque malanno si tratti e in qual unque stagione è contratto, ce n’è pieno in giro. A tal proposito voglio provare un giorno ad andarci dal medico e con le lacrime agli occhi confessare, dottore ho la peste, sono ragionevolmente sicuro che mi consolerà con il suo ce n’è pieno in giro. Ma nella mia afflizione della mia ultima gita in bici conservo un’immagine bellissima, struggente, i papaveri. Papaveri rigogliosi come non mai, rossi come vessilli trionfanti, e alti, svettanti, ovunque sulle ripe, ai bordi delle stradelle, ai margini dei coltivi,  chi li ha mai visti dei papaveri così.

Che sono la pianta floreale più delicata che c’è, che erano dati ormai per estinti, ci son stati anni che a vederne tre assieme era ragguardevole miracolo. Certo, in mezzo al grano, come l’antica tradizione iconografica vorrebbe, non ce n’è neanche l’ombra, i pesticidi fanno ancora il loro mestiere di sicari; ma non lo fanno più così bene, perché  adesso sono tutti lì, sul ciglio del campo, affollati e sprezzanti, eretti e pronti alla contesa. Per niente cagionevoli, niente affatto recessivi, si stanno adattando alla sorte avversa, avendo imparato a difendersi non tarderanno a predisporsi al contrattacco.

Saranno in buona compagnia, dei granchietti che dopo mezzo secolo sono tornati al fosso dove finisce non poca dell’urea che fertilizza la vigna, e dell’istrice, grosso e pasciuto come un sultano, che ha fatto tana nelle interiora della quercia sopra il fosso e i granchietti se li sbaffa. Per non dire delle lucciole, sia pace eterna per Pier Paolo Pasolini, che la loro battaglia l’hanno vinta ormai da un pezzo e già in questi giorni stanno facendo della ripa delle ginestre le mille luci di Manhattan. Tossisco, scaracchio, starnuto, e considero che sì, la specie umana arreca un gran male al pianeta, ma il più del male lo fa a sé stessa, visto che, nonostante e in virtù dei suoi potenti mezzi, non è in grado di resistere efficacemente al mondo che ha creato e sembrerebbe dominare. Razza dominatrice eppure cagionevole, votata alla tragica e ridicola fine degli alieni della Guerra dei Mondi. Dottore, mi sento una gran debolezza. Eh, cosa vuole, ce n’è pieno in giro.

Articolo apparso su Il Secolo XIX, 5 maggio 2019

LE PORTE DELL’INFERNO

LE PORTE DELL’INFERNO

In giro con Maurizio Maggiani- 2- E’ la volta dei giochi fatali dell’infanzia, quelli che fanno piangere la madonna.

Con i giochi bisogna andarci piano, c’è stato un gioco che mi è stato fatale. Avevo dieci anni e era la sera della vigilia della mia prima comunione, la Patri, che abitava dall’altra parte del cortile, è venuta con sua mamma a farsi vedere il vestito bianco di tulle perché anche lei faceva la santa comunione; insomma, c’era una gran agitazione e a forza di agitarsi, mentre le nostre mamme se ne stavano in cucina a chiacchierare, io e la Patri ci siamo messi in camera a giocare ai dottori, approfonditamente.

La cosa ci ha calmato assai, salvo poi realizzare l’indomani mattina mentre venivo allestito con vestito in principe di galle e cravattino grigio perla per degnamente recarmi a ricevere il sacramento, di trovarmi in orrendo peccato mortale; toccare lì e viceversa era il peggiore dei peccati che facevano piangere la madonna. Che fare? nessun pronto soccorso per la mia anima nera a mezz’ora dall’inizio della cerimonia, anche a trovare un confessionale aperto, come potevo dire l’indicibile senza essere scomunicato? Così ho buttato giù l’ostia consacrata e mi sono fatto sacrilego e mi si sono spalancate le porte dell’inferno, tutto per un gioco.

Ho passato la mia fanciullezza e buona parte di una tormentata adolescenza angustiato dalle evenienze delle pene eterne, mi sono dovuto fare ateo per metterci una pezza, e tuttora non sono così sicuro che tenga. Ora mi si dice che tra i bambini il gioco del dottore non è più popolare, mi riferiscono che, accedendo liberamente a copiosa documentazione, è tra loro assai più diffuso il giuoco del pornodivo e della pornodiva. Anche se non così complesso come quello del medico, la pornografia è un lavoro, non un gioco, e il lavoro rende liberi non peccatori; così, superata la terrorizzante dottrina preconciliare, sulla definizione di peccato si tratta con umana larghezza e comunque la madonna non piange di certo per gli innocenti e istruttivi trastulli corporali. L’infanzia e l’adolescenza filano via lisci senza il trauma delle pene infernali, seguendo il pensiero di J.P. Sartre, l’inferno è già qui.

Articolo apparso su Il Secolo XIX, 15 luglio 2018

LA PERDITA DEL PROSCIUTTO

LA PERDITA DEL PROSCIUTTO

In viaggio con Maurizio Maggiari 1 – La visita dei soliti ignoti e una disgraziatissima rapina.

Inizia con questo la pubblicazione di tre articoli di Maurizio Maggiani, una delle voci più curiose e originali della odierna narrativa italiana. Di lui avevo già pubblicato I cinghiali richiedenti asilo (https://www.ninconanco.it/i-cinghiali-richiedenti-asilo/). Di tendenze anarchiche e libertarie, Maggiani è un irregolare che perviene tardi alla letteratura , dopo svariati e improbabili mestieri, conservando forti radici con la sua terra contadina, e uno sguardo tollerante e autoironico. Vincitore di diversi premi, fra i quali il Campiello e lo Strega, collabora abitualmente con riviste e quotidiani. Da Il Secolo XIX sono tratti, appunto, i tre articoli che ho scelto e che propongo alla vostra lettura in questi giorni agostani.

” Sono nato il primo di ottobre del 1951 da Dino, detto Dinetto per il suo animo gentile, e da Maria, detta Adorna in memoria della mula preferita da suo padre, mio nonno Armando, detto Garibà, Garibaldi, per il suo carattere, portamento e tempra politica. Sono nato nella casa costruita da mio nonno con gli scarti della fornace di mattoni del paese a ridosso della via Aurelia, nella frazione Molicciara di Castelnuovo Magra, la piana che dai suoi abitanti è chiamata Luni, perché è lì, da qualche parte nei campi, che ancora inciampano sulle rovine dell’antica città romana. La casa aveva un’aia, un orto e al di là dell’orto i campi che i miei avevano in affitto per coltivare patate, cavoli e formentone; lì io sono cresciuto indisturbato e felice. ” Presentazione tratta dal sito: http://mauriziomaggiani.feltrinellieditore.it

Ci hanno rapinato la casa, è stato con ogni probabilità nel cuore della notte, la casa era deserta; hanno divelto la pesante porta di ingresso usando una mazza e una lunga ascia, la mazza se la sono portata loro, l’ascia c’è l’abbiamo messa noi, è l’attrezzo che usiamo per preparare la legna del forno, l’hanno trovata nella rimessa e l’hanno lasciata sul pavimento in mezzo alla cucina, quell’ascia lì sul pavimento è stata l’immagine più sinistra in cui ci siamo imbattuti nel nostro primo ingesso, aveva un che di film dell’orrore.

Per il resto è stato fatto un lavoro piuttosto pulito, da specialisti, nessun oltraggio superfluo agli arredi, nessun vandalismo gratuito, solo manomissioni funzionali allo scopo. Per questa ragione ci siamo trovati tutti i nostri libri a terra; non abbiamo una biblioteca di collezione ma solo di uso, dunque teniamo solo i libri che ci paiono essenziali, a questo punto della vita e del lavoro non più di quattromila volumi. Ma quattromila libri sparpagliati sul pavimento sono un mare, ci siamo trovati letteralmente a camminare per la casa con i libri alle ginocchia; libri e nugoli di lettere, faldoni squadernati di documenti, migliaia di raccoglitori di negativi fotografici, l’archivio di un’intensa vita personale e professionale. Un vero disastro, abbiamo impiegato cinque giorni solo per risistemare tutta quella carta, ma non se ne può fare una colpa specifica ai notturni visitatori, non è verosimile un accanimento barbarico teso a demolire le nostre fondamenta culturali; semplicemente pensavano che i libri che noi leggiamo perché ci diano luce servissero in verità a tutt’altro scopro, a nascondere ciò che andavano cercando e non trovavano, e non trovavano perché non c’è: una cassaforte. In effetti da quando mondo è mondo le cassaforti si nascondono nelle librerie. I visitatori si aspettavano di più dalla nostra bella casa, ben di più di un orologio e qualche vecchia gioia che siamo soliti lasciare in discreta evidenza sul comò per un’occasione del genere, e devo dare atto della loro pazienza nel cercare e nella loro reazione composta nel non trovare, nessun danno, ripeto, a parte il necessario; vuoi mica che tutti quei libri li abbiamo messi sull’avviso di una casa di lavoratori della mente e dunque di modesti mezzi?

Credo proprio che sia andata così, e che abbiano avuto in qualche modo rispetto per le ragioni dei modesti frutti. Che poi proprio modesti non lo sono stati, visto che a una approfondita ispezione ho scoperto che mi è stato sottratto il grande, grasso e ben invecchiato prosciutto che conservavo nella dispensa in previsione di un autunno di bagordi; non era un prosciutto qualunque, veniva da un maturo suino allevato felicemente con nutrimenti naturali in un’ampia e linda porcilaia munita di acqua corrente e pesino di un copertone di autotreno appeso a mo’ di altalena per un po’ di sano svago, ho fatto una coda di tre lunghi anni per averlo, e pagarlo a peso d’oro, il mio unico, inestimabile gioiello. Tra i non pochi incomodi quella del prosciuttone è stata una perdita che ha dell’irreparabile e che almeno al momento non credo di riuscire a perdonare, ma nonostante il dispetto e l’afflizione, come non posso ripensare al colpo dei soliti ignoti, alla consolazione della pasta e fagioli dopo una disgraziatissima notte di rapina?

Articolo apparso su Il Secolo XIX, 12 agosto 2018.

I CINGHIALI RICHIEDENTI ASILO

I CINGHIALI RICHIEDENTI ASILO

VIVERE IN CAMPAGNA: VI PRESENTO IL PRINCIPE DEGLI ORTI E BARONE DELL’UVA FRAGOLA, RE DEI FOSSI E GRANDUCA DEI PESCIOLINI CHE CI NUOTANO DENTRO, OVVERO MAURIZIO MAGGIANI– IRONIA DIVERTITA E SGUARDO ADDOLCITO DALLA VECCHIA SAGGEZZA. 

 

Quando l’autunno incomincia. Quando incomincia l’autunno non si può uscire di casa dopo le sei di sera per le zanzare che ti mangiano vivo come se non ne avessero avuto abbastanza per tutta l’estate e in teoria a quest’ora dovrebbero essere già tutte spacciate. Quando comincia l’autunno non puoi andare in pieno giorno nell’orto perchè è tutta una nebulosa di moscerini pazzi suicidi, ebbri della vendemmia appena finita, e nel tempo di cogliere l’ultimo ravanello te ne devi inalare un par di litri, e non è che siamo certi che non continuino a sfarfallare nei polmoni.

Quando comincia l’autunno non è consigliabile nemmeno uscir di casa la mattina presto per via dei cinghiali richiedenti asilo che con l’apertura della caccia hanno preso a bivaccare intorno alla recensione del giardino, per l’amordiddio sono tutte brave persone ma hanno di quei ghigni e a quell’ora non hanno ancora fatto colazione, non è che in casa siano gente senza cuore, ma bisognerà deciderci, o si abolisce la caccia o quelli la devono fare sul serio.

Quando comincia l’autunno l’alzavola (piccola anatra n.d.r.) non ne può più di starsene lì a girarsi i pollici nel laghetto e prende a berciare da squarciare i sette cieli, come se non partire fosse peggio che morire, e allora che si prenda il suo volo ma intanto stia calmina.

Quando comincia l’autunno la domenica mattina la casa si fa un po’ più pigra, si fa due volte il caffe e gli sposi trovano mezz’ora per starsene lì a considerare con calma il tempo nuovo, le migliorie per la casa, le intenzioni di voto, e l’amore, com’è che è venuto, com’è che ce n’è.

 

Il brano è di Maurizio Maggiani (1951) ed è apparso l’8 ottobre 2017 col titolo L’autunno del cinghiale, nella rubrica Vivario, che lo scrittore cura sul Domenicale del “Sole 24 Ore. (www.ilsole24ore.com)

Nel suo libro La zecca e la rosa ha scritto:

“Niente era mio, ma sono stato principe degli orti e barone dell’uva fragola, re dei fossi e granduca dei pesciolini che ci nuotavano dentro. Sono tornato a vivere nella campagna, i miei vicini sono tutti quanti contadini e continuano a parlare più volentieri con le creature che con i cristiani, a parte la miseria è tutto quanto rimasto più o meno allo stesso modo. E allo stesso modo prendo e vado per fossi e orti a toccare, ascoltare, guardare e odorare, considerare l’infinito universo di ciò che vive, evitando di disturbare.”  Su  Maurizio Maggiani varrà la pena ritornare.

 

 

 

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