ECCO IL RITRATTO DI EUGENIO MONTALE COME TRASPARE DALLE INTERVISTE RACCOLTE DA FRANCESCA CASTELLANO- PIGRO, MEGLIO IPOCONDRIACO, MOSSO DA CURIOSITA’ PETTEGOLA, FALSO MODESTO DALLA BATTUTA FULMINANTE.
Se la vita, il carattere, le grandezze e le piccinerie di un autore, come vuole una certa scuola di pensiero, sono imprescindibili per comprenderne l’opera, allora per entrare nella poesia di Eugenio Montale da oggi occorre passare dalla nuova e monumentale raccolta di tutte le interviste, i colloqui, gli incontri e le inchieste di cui lo scrittore fu protagonista.
Un lavoro colossale, 272 interviste ritrovate, dai grandi quotidiani ai magazine popolari, un arco cronologico di mezzo secolo, dagli anni Trenta alla morte del poeta, due volumi per 1200 pagine complessive, un parterre de rois di intervistatori (Vergani, Cavallari, Porzio, Emanuelli, Marabini, Cancogni, Biagi, Torelli, Bocca, Cederna, Aspesi…): Interviste a Eugenio Montale (1931-1981), a cura di Francesca Castellano (Società editrice Fiorentina).
Qui dentro ci sono un pezzo di storia della letteratura e del giornalismo italiano e mille aneddoti, battute fulminanti (il suo humour è irresistibile), piccole manie, debolezze (molti articoli se li faceva scrivere…), pose (accentuava la sua misoginia, gli piaceva passare per pigro, era curiosissimo fino al pettegolezzo), falsa modestia (continuava a dire che non sopportava le interviste e che non aveva mai nulla da dire, ma raramente un poeta ne ha rilasciate così tante), complessi mai superati (l’essersi diplomato in Ragioneria invece che aver frequentato il Classico sembra essere un nodo irrisolto, ecco forse perché apprezzò così tanto le numerose lauree honoris causa), improvvise illuminazioni, giudizi tranchant… È uno dei libri più belli, finora, del 2020. Leggendo il quale si scoprono aspetti imprevisti, scabri ed essenziali, di Montale.
Esempi.
VIA BIGLI Alla fine, dagli anni ’50 in avanti, si deve passare per forza da qui. Montale a Milano abiterà sempre nella stessa via, prima all’11 (aveva un così bel terrazzo sui tetti di Milano…, ma il padrone di casa lo mandò via) e poi al 15. Sempre in affitto. Un aspetto curioso è leggere le descrizioni di ambiente, tutte uguali, dei cento giornalisti diversi che passano dal salotto di via Bigli.
Particolari immancabili: la Gina la governante tuttofare che stira camicie e adocchia la pentola. La moquette (sul colore della quale non ci sono due cronisti che concordano). L’incubo di rovinarla con la cenere delle sigarette («Sa, questa casa è in affitto, e la moquette è la cosa più importante»). Il De Chirico e i quattro De Pisis «del periodo buono» alle pareti (tolti per paura dei ladri quando si va in vacanza a Forte dei Marmi). I pochissimi libri (perlopiù, dice, regalatigli dagli editori). Le pantofole a mocassino che indossa il Poeta. Le caramelle che continua a succhiare durante le interviste. Le innumerevoli sigarette (Muratti Ambassador: per Montale «quindici al giorno», ma a leggere i pezzi sembrano molte di più).
INEDITI «Ho scritto la mia prima poesia a cinque anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era al posto noto / né pieno né vuoto» (la confessione è in un’intervista del 1975).
STUDI «Mio padre a Genova era un commerciante. Io fui l’unico della famiglia a non essere avviato agli studi classici, perché ne ero ritenuto indegno». Dopo una pausa ad occhi spalancati, soggiunge, allegramente: «E forse avevano anche ragione…» (Corriere Mercantile, 13 dicembre 1974).
BARITONO Tutti i giornalisti che incontrano Montale ne sottolineano la voce da baritono e gli ricordano come da ragazzo volesse diventare cantante, senza farcela. Risposta standard: «Forse non ero abbastanza stupido: per riuscire occorre un misto di genialità e di cretineria».
GENOVA Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. «La città evoca il poeta era meno brutta di quanto mi dicono sia oggi. Io manco da quasi cinquant’anni… Sento che la Liguria è stata uccisa dalla speculazione e così, naturalmente, Genova. Al principio del secolo contava solo trecentomila abitanti, ma era appena il malloppo centrale, le ali non c’erano, ora mi dicono che la città si espande da Nervi e oltre fino a Voltri. È diventata lunghissima. Io la paragono a un serpente che abbia divorato un coniglio» (1974).
ESORDI «Quando uscì il libricino degli Ossi di seppia nel 1925 mio padre avrebbe voluto comprarne una copia, ma rinunciò non appena seppe che costava sei lire» (1974).
MOGLIE Montale conosce Drusilla Tanzi (1885-1963), scrittrice e amica di Italo Svevo, nel ’27. Andranno a vivere insieme nel ’39 ma si sposeranno solo nel ’62. Detta «la Mosca», a lei dedicò Xenia della raccolta Satura (1971). «Lei era così felice di vivere. Aveva un grande attaccamento alla vita, più di quanto io ne abbia mai avuto, mi aiutava a esistere» (1974).
PROFEZIA «Fra qualche anno l’Italia sarà piena di disoccupati intellettuali, forniti di titoli di studio che non varranno più nulla… Nessuno si rassegna più alla propria condizione, l’autorità religiosa e del pater familias diminuisce ogni giorno, la filosofia è morta, siamo guidati da gente mediocre, la società ha bisogno di uomini di modesta levatura che sappiano fare un mestiere e basta…» (Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 30 gennaio 1973).
QUOTIDIANITÀ «Gli chiedo come passa le giornate: Prendo dei sonniferi e leggo. Qualche volta esco. Ogni tanto vado a Roma. No, non più libri gialli; gli servivano per imparare l’inglese, voleva sapere chi era l’assassino e le parole si fissavano nella memoria. Alterna sigarette leggere con piccoli confetti di liquirizia. Ogni tanto chiude gli occhi, come per raccogliersi, o forse la luce della lampada lo affatica» (Enzo Biagi La Stampa, 24 febbraio 1973).
IRONIA «Sarei contento se istituissero l’undicesimo comandamento. Non seccare il prossimo» (ribadito più volte negli anni).
INSOFFERENZE Montale detesta le riunioni mondane, le signorine che scrivono versi e pretendono giudizi, i falsi intellettuali e gli esibizionisti: «Meglio, certo meglio gli analfabeti. Da loro c’è sempre da imparare. Possiedono alcuni concetti fondamentali, quelli che contano. Purtroppo, pare ne siano rimasti pochi» (1973).
FOOTBALL Montale odia il gioco del football, inteso come oppio, come anti-cultura. «La religione è in crisi qualitativamente, ma le religioni sono tante, ci sono le sottospecie. Oggi c’è persino la religione del football. Io mi sono vergognato l’altro giorno davanti a quel famoso goal non concesso dall’onorevole Lo Bello nella partita Lazio-Milan. Ho visto intere pagine di giornali con titoli spaventosi. Sembrava che fosse scoppiata una nuova guerra. Tutto questo per me è perfettamente ridicolo. Fino a che punto i giornali devono sputtanarsi per aumentare il numero dei propri lettori?» (1973).
FASCISMO «Mi amareggia sentire dichiarazioni con le quali molti personaggi, che conosco bene per i loro precedenti, si attribuiscono meriti antifascisti che non hanno» (1973). «Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica. Tutti gli altri hanno vissuto prosperando alle ombre del regime. Solo pochi si opposero, e non parlo di gesti clamorosi, che li portarono al confino o all’esilio, ma di opposizione di coscienza, anche in silenzio. Perciò mi hanno fatto sempre ridere quelli che dopo la Liberazione si sono ammantati di meriti mai vissuti» (1975).
BILANCI «Ho vissuto il mio tempo con il minimum di vigliaccheria che era consentito alle mie deboli forze, ma c’è chi ha fatto di più, molto di più, anche se non ha pubblicato libri» (Rassegna d’Italia, gennaio 1946).
CANZONI Di quelle che conosco (e non sono moltissime) penso molto male (Epoca, 6 dicembre 1952).
BOTTA E RISPOSTA Tra le più belle interviste in assoluto, quella di Enrico Ronda uscita su Tempo il 17 novembre 1955 dal titolo 41 domande a Eugenio Montale. Eccone alcune: Signor Montale, secondo lei la letteratura limita o favorisce il mestiere del giornalista? «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all’amore. In qualche caso i due fatti possono coincidere».
E tra giornalismo e pettegolezzo? «Ormai c’è così poca differenza». Quale domanda la infastidisce di più? «Quella di chi vuole notizie della mia produzione poetica». Qual è in società, la situazione che la imbarazza di più? «L’impossibilità di squagliarsi». Qual è, professionalmente, l’avvenimento cui rimpiange di più di non avere assistito? «Nessuno: quando si deve fare un servizio tutti gli avvenimenti sono egualmente spiacevoli».
Qual è secondo lei il segreto del successo di un uomo? «Ce ne sono tanti: perfino quello della bravura nel proprio mestiere». Preferisce essere amato, ammirato, indifferente o addirittura antipatico? «Amato, ma molto da lontano». Quali cose nella vita la spaventano di più? «L’istruzione obbligatoria, il suffragio universale, e il voto alle donne (tutte cose, purtroppo, necessarie)». Se le fosse concesso un atto di potenza assoluta, come lo esplicherebbe? «Abolirei il cinema». Ha mai pensato di uccidere qualcuno? «No, ma ho sperato che morisse qualcuno».
GIORNALISMO/1 Numerose le varianti sull’aneddoto attorno alla sua assunzione al Corriere della sera, nel 1948 (Montale ha già 52 anni). Comunque, più o meno, andò così: «Era il 30 gennaio del ’48, ero di passaggio a Milano e andai a far visita al direttore, Emanuel, che ancora non conoscevo personalmente. Lo trovai nervoso e preoccupato. Sul suo tavolo c’era la strisciolina di carta di un flash d’agenzia con la notizia dell’assassinio di Gandhi.
Cercai quasi di nascondermi in un angolo della stanza. Capivo di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c’è tempo per i convenevoli, e me ne sentivo in colpa. Emanuel mi fissò. Poi disse: me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi? Dissi di sì, mi accompagnarono in una stanza. Dopo due ore l’articolo era pronto. Uscì senza firma né sigla. Era intitolato Missione interrotta». Emanuel, colto da folgorazione, lo fece assumere la sera stessa. «Con il minimo dello stipendio», nota sempre Montale (Corriere della Sera, 5 marzo 1976).
GIORNALISMO/2 «È cambiato tutto, in peggio. Quando entrai al Corriere debbo dire che incontrai colleghi civili. Ero orgoglioso di essere nel giornale che mio padre aveva comprato per anni. Oggi, dico il vero, soffrirei a esserci. Ci sono i soviet là dentro» (1974).
PASOLINI «Sembrava agli inizi un giovane intelligente, poi si è buttato nel cinema» (1977).
SANGUINETI «Dice che sono un borghese… L’ho incontrato, una volta, mi sono spaventato: è un po’ bruttino…» (1977).
SCIASCIA «Sta diventando famoso, vedo… ci saranno delle ragioni» (1977).
NERUDA «Sul piano umano non posso che esprimere un sentimento di pietà per l’uomo morto in così tristi circostanze. Sul piano letterario non posso dire molto. Posso solo affermare che Neruda era animato da un continuo entusiasmo e ciò, a volte, influiva negativamente sulla sua poesia» (La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 settembre 1973, in morte di Pablo Neruda).
ELIO VITTORINI «Mah! Era un uomo estremamente simpatico, aperto, cordiale, generoso, non saprei. Dico, non era il tipo dello… scholar, ecco. Parlava un po’ a caso, a vanvera. Però con genialità di intuizione» (Nicholas Patruno, Gradiva, primavera 1978).
ROMA «Comunque, non provo alcuna avversione per Roma, non mi è per nulla antipatica, anche se si mangia male, se c’è un cattivo clima e un cattivo riscaldamento, e se mi infastidisce la corruzione romanesca della lingua italiana» (Enzo Siciliano, La Stampa, 17 novembre 1973).
SENATO (Montale è nominato Senatore a vita nel 1967) «Non ci vado quasi più. Che cosa ci andrei a fare? Dovevo far parte della commissione per la scuola. Ma tutti sono d’accordo nel trasformare l’Italia in un Paese di laureati. E allora? Io non sono capace, non ho voglia di polemizzare» (1974).
RELIGIONE «Mi pare ora che tutte le religioni siano buone (e spesso cattive). Sotto sotto mi pare che anche l’attuale Papa sia d’accordo» (Giorgio Zampa, il Giornale, 27 giugno 1975). In quel momento è Papa Paolo VI.
NORD-SUD Spesso Montale se la prende con la vecchia Italia dei clan, delle ragnatele mafiose, lamenta la meridionalizzazione del Paese che dalla politica si estende alla letteratura: «Crede che se Giovanni Verga fosse nato a Cuneo sarebbe così noto?» (1974).
POESIA «È l’unica arte che si fa con un pezzo di lapis, non costa niente ma non interessa» (1974).
SCUOLA «Una volta si mandavano i bambini a scuola per farli uscire dalla famiglia. Oggi succede esattamente il contrario: è la famiglia che entra nella scuola! È una cosa oscena! Le madri nella scuola!» (…) «L’Università è malridotta. Non si insegna più niente. Conosco una ragazza laureata in Psicologia. Che significa? Farà l’assistente sociale» (1975).
NOBEL Montale vince il Nobel per la Letteratura nel 1975. Festeggia in via Bigli con confetti di liquirizia, lui con pochi e la Gina a tenere fuori i giornalisti. «Per me non cambierà nulla. Sarò più felice, perché felice non sono mai stato. Anzi, per meglio dire sarò meno infelice». L’annuncio gli viene dato al telefono (dall’ambasciatore di Svezia a Roma), nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero e la porta del bagno di servizio.
Montale si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta Merci, riattacca. La Gina lo bacia teneramente sui capelli, ha gli occhi umidi di commozione. Poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata. Più tardi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?» (Giulio Nascimbeni, Corriere della sera, 24 ottobre 1975).
NOVECENTO «L’800 ha dato di più» (1974).
CONFORMISMO «L’intolleranza che, soprattutto da qualche anno in qua, sta dilagando in Italia. Sarebbe una cosa semplicemente grottesca e ridicola se non fosse anche tragica. A volte, penso addirittura che sia una vendetta postuma del fascismo. Oggi c’è un conformismo di base che fa paura. Chi si permette di dissentire da certe opinioni correnti, ecco che viene bollato nientemeno che come fascista, magari soltanto perché non gli piace un certo film» (1976).
DONNA «Mah!», sussurra Montale accendendosi un’altra sigaretta. «Personalmente, non trovo nulla di male nel fatto che una o più donne vogliano fare una carriera che non sia quella della prostituta o della moglie» (Gioia, 13 settembre 1976).
COCCODRILLO Montale un giorno trovò nell’archivio del Corriere il suo coccodrillo. L’aveva preparato Taulero Zulberti. «Zulberti disse poi è stato molto gentile con me. Il coccodrillo me lo sono portato via. Lo rileggo qualche volta. Gli manca la corda della commozione. Ma suppongo che qualche redattore gli aggiungerà la dovuta lacrima…» (1976).
ALDILÀ «Per credere nell’aldilà bisognerebbe avere alcune basi, dei punti di partenza più sicuri. Per esempio, esiste veramente il tempo? O il mondo? Io non lo so. Ecco, non conoscendo l’aldiqua finisco per avere scarsa curiosità anche per l’aldilà» (Il Mattino, 13 ottobre 1978).
IL GRANDE VECCHIOGILLO DORFLES RICORDA TRIESTENEGLI ANNI DELLA SUA ADOLESCENZA- UNA CARELLATA FRA STORIA DELL’ARTE E ANEDDOTI SUGLI ARTISTI CHE CONOBBE E CHE LO EDUCARONO AL BELLO E AL GUSTO, DI CUI E’ STATO INTERPRETE AFFASCINANTE E RIGOROSO
GILLO DORFLES Il mio Novecento all’ insegna dell’ arte
Gillo Dorfles
MILANO – Nei novantasette anni di Gillo Dorfles (l’articolo è del 2007, oggi Gillo ha 107 anni, n.d.r.) ci sono molte cose che sorprendono. La sua vita è come una scatola di preziosa radica: semplice, antica, solida. La apri e avverti l’ odore di un intero secolo. Gioie e amarezze. Come per tutti. Ma con scarsi rimpianti. E soprattutto con pochi drammi. Ecco, se penso alla vita di Dorfles e al suo modo di raccontarla (forbito senza scadere nell’ affettato) vedo uno di quei caratteri che hanno reso immortale la commedia hollywoodiana: un senso sofisticato e civile di porgere i pensieri e le argomentazioni. Il che, naturalmente, non significa impedirsi di scegliere, di preferire, di detestare. Ma tutto si svolge secondo regole non scritte. Vado a trovarlo nella sua casa milanese, un bel palazzo degli anni Trenta dove abita al penultimo piano. Pare che Dorfles prediliga le scale all’ ascensore. Un tempo amava salirle a gambero. Un modo stravagante per tenersi in forma. Mi accoglie nella sua casa borghese. Dei Fontana e Capogrossi adornano le pareti del salotto. Dalla penombra del pomeriggio affiora un pianoforte a mezzacoda sul quale il professore si esercita quotidianamente. La musica è uno dei suoi impegni. L’ altro è la pittura. Ama dipingere. Per un professore che ha lungamente insegnato estetica può sembrare una stranezza. Se ci si spingesse un po’ oltre verrebbe da dire: ecco la quadratura del cerchio: il critico che volle farsi artista. Quando può scrive. Ora sono apparsi i suoi Taccuini Lacerti della memoria (Editrice Compositori). Sono ricordi, appunti, note che attraversano il secolo. Dorfles non è un uomo emotivo. La cifra dei suoi sentimenti è neutra. Ma è un neutro che nasce non dal vuoto, ma dal troppo pieno. È come se quest’ uomo avesse visto troppo: il crollo di un impero, due guerre mondiali, i totalitarismi, la ricostruzione, la democrazia. L’ individuo e la massa. Dorfles, in un certo senso, è il Novecento visto dal lato meno oscuro. Ma non per questo meno inquietante. In fondo egli è la perfetta realizzazione di una Mitteleuropa senza nostalgia e cupezza. Dorfles è nato nel 1910 a Trieste. «Per qualche anno sono stato cittadino dell’ Impero. Poi quando è scoppiata la Guerra mi trasferii a Genova, la città di mia madre. Restammo lì alcuni anni.
Lucio Fontana davanti a una sua opera
A Trieste tornai quando ormai ero pronto per il ginnasio e il liceo». Trieste l’ ha formata. «La mia educazione vera avvenne tra gli intellettuali e gli artisti triestini: Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen». Quest’ ultimo sarebbe diventato il vero ispiratore della casa editrice Adelphi. «Quando lo conobbi, alla metà degli anni Venti, era uno stranissimo pifferaio magico». Strano perché? «Perché il suo fascino nasceva da un evidente contrasto. Era fisicamente squinternato, brutto, malvestito; ma il cervello di Bobi era pura armonia. A un sedicenne quale io ero, la cosa produsse un’ impressione enorme». Che differenza di età c’ era tra voi? «Aveva una decina di anni più di me. Da lui ho appreso l’ amore per la letteratura mitteleuropea. Passavamo le serate a discutere di Kafka e Wedekind. Decidemmo anche di prendere delle lezioni di Joyce». Di Joyce? «Nel senso che un professore della Berlitz ci istruiva sulle pagine dell’ Ulysses, un testo come si sa impervio, infestato dal gergo e pieno di concetti». Niente male per un giovane. «Ricordo che mia madre cercava di mettermi in guardia da Bobi. Temeva che la sua influenza potesse alla fine risultare deleteria per la mia formazione». E lei? «Io ero felice di avere conosciuto un simile personaggio. Mi rendevo conto che la sua forza, la sua curiosità, il suo modo di porgere la cultura potevano renderlo inviso.
Opera di Capogrossi
Così successe che quando cominciò a frequentare Linuccia Saba, il vecchio Umberto reagì malamente». Cosa accadde? «Niente di proibito. Però Linuccia era diventata una specie di passione per Bobi, e Saba non lo tollerava. Credeva che Bazlen si fosse infiltrato nella sua casa per adescare la figlia, per la quale il poeta nutriva un affetto più che paterno». Intende dire che l’ attenzione per la figlia nasceva da qualcosa di oscuro? «Dico che la sua gelosia paterna era eccessiva. Saba era diventato un uomo triste, dal cuore stanco. Infragilito dalla malattia, dai frequenti ricoveri nel sanatorio di Gorizia, si era molto appoggiato alla figlia. Sicché le riversò la sua malinconica e prepotente gelosia. La vecchiaia di Saba fu amara e tormentata dalle antiche passioni, non è un segreto che egli avesse delle tendenze omosessuali». Che lui ha raccontato sia pure indirettamente nel romanzo Ernesto. «Fu una confessione viva, spontanea e al tempo stesso crudele». Dove incontrava Saba? «Essendo molto amico di Linuccia, passavo spesso i pomeriggi nella sua casa
Un ritratto di Italo Svevo
. Era un luogo dove regnava il disordine: pieno di oggetti, di poltrone sfondate, di libri sfasciati. Era una casa sporca e fatiscente che contrastava con lo sguardo acuto di quest’ uomo, con il colore azzurro dei suoi occhi. Ma il primo incontro avvenne nella sua libreria antiquaria di via San Nicolò. Ricordo che entrai e vidi questo vecchio con la visiera che mi guardò e bruscamente mi disse: Cos’ ti vol picio?». E lei? «Mi sentivo a disagio. Poi vidi una magnifica edizione del Settecento del Fedone di Platone, cominciai a sfogliarla. E Saba, meno bruscamente: No xe roba per ti. Comunque quella libreria rappresentò per me qualcosa di straordinario. Vi incontrai il meglio della cultura triestina: da Svevo a Stuparich, da Marin a De Benedetti». Svevo non era un vero letterato. «Parlava male l’ italiano e preferiva esprimersi in dialetto. Non era insomma un uomo cerebrale, ma era dotato di un grandissimo istinto narrativo. E poi era spontaneo e spiritoso, tutto il contrario del letterato pedante. A me diciottenne ricordava una specie di vecchio zio. A quell’ epoca si andava insieme a giocare a bocce lungo il Carso. Pochi sapevano chi fosse. Il successo di Svevo arrivò solo dopo la scoperta che ne fece Montale». Cosa è stata la cultura triestina? «Qualcosa di straordinario e forse di irripetibile. Avere ospitato Joyce per dieci anni, e che anni, visto che è lì che è nato Ulisse, sta a significare che quella città nascondeva qualcosa di speciale». Lei accennava a Montale. Quando lo conobbe? «L’ ho conosciuto attraverso Bazlen e Svevo. E poi, con qualche intervallo, siamo restati amici per tutta la vita». Intervallo nel senso che vi siete a volte persi di vista? «A un certo punto accadde che le nostre mogli litigarono.
Umberto Saba
O meglio, la Mosca – che era la compagna di Montale – interruppe i rapporti con noi». Per quale ragione? «La più antica del mondo: la gelosia. Eusebio – che era il soprannome che a Montale aveva dato Bazlen – si era invaghito di una poetessa. E per un certo periodo mia moglie fu la depositaria delle lamentele della Mosca, fino al giorno in cui le disse: “ma lascia che si diverta un poco!”. Voleva placare la gelosia, ma il risultato fu che la Mosca troncò i rapporti perché convinta che anche noi facessimo parte del complotto amoroso». E Montale? «Di fronte a quella giovanottona prepotente, fisicamente esplosiva e per di più poetessa, sto parlando della Spaziani, aveva perso la testa». Non dava l’ impressione di uno che si lasciava andare facilmente. «A volte era un uomo permaloso, scontroso, dai tratti molto liguri. Ma quando si sentiva di buon umore sapeva esaltare le sue doti migliori: l’ intelligenza e la fantasia. A parte quelle incomprensioni con la Mosca, devo dire che abbiamo passato insieme a mia moglie delle serate bellissime con lui». A proposito di sua moglie, so che era legata alla famiglia di Toscanini. «Era la figlioccia. Fece da testimone di nozze quando ci sposammo. Con Toscanini ci vedemmo spesso. E l’ impressione che ebbi di lui era di un uomo testardo e autoritario. Capace però di passioni travolgenti, come la storia che ebbe con Ada Mainardi. Tra i due c’ erano trent’ anni di differenza. Nelle lettere che le spediva si firmava “Artù”!. Era dotato di una grandissima intelligenza musicale. Peccato che detestasse tutto quello che era stato scritto dopo Debussy. Ricordo che una volta ci incontrammo nella sua villa di Riverdale, a New York, e mi parlò malissimo di Busoni e di tutta la musica dodecafonica».
Eugenio Montale
Lei cosa ci faceva a New York? «Erano i primi anni Cinquanta e per me che da tempo mi occupavo di arte, quella città diventava imprescindibile. La mia formazione è stata abbastanza singolare. Sono laureato in medicina con una specializzazione in psichiatria. Mi sarebbe piaciuto analizzare la mentalità del prossimo, rilevarne le stranezze e le anomalie. Ma alla fine hanno prevalso gli interessi estetici ed artistici». Si può applicare la psicoanalisi all’ arte? «Hanno provato in tanti, con pessimi risultati. Il complesso edipico non serve nell’ arte». Però può esserci un rapporto tra arte e follia. «Diciamo che è un rapporto che può servire a comprendere meglio certe motivazioni dell’ artista. Ma non aiuta a intendere l’ opera. Per questo sono un po’ freddo davanti alla recente rivalutazione di Wolfli, un pazzo di Zurigo che ha dipinto lungamente in manicomio, ed è stato definito uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Mi pare una enfatizzazione di un artista interessante, ma sopravvalutato in quanto schizofrenico». Mi scusi, se uno non sapesse niente e guardasse un “taglio” di Fontana, potrebbe essere indotto a ritenere quella tela opera di un pazzo. «Fontana era perfettamente normale, semmai rifletteva con la sua opera una diversa inquietudine. Sono stato tra i primi ad apprezzarlo e non me ne pento». Mentre so che non ama Giorgio Morandi. «Quella frangetta, quell’ apparente modestia, quella finta riservatezza nascondevano l’ animo di un furbacchione. Era un uomo di presunzione e ambizione sconfinate.
Arturo Toscanini
Come artista indubbiamente è stato un grande, ma come fantasia, diamine, era limitato alle sue bottigliette. Era coetaneo di Fontana, ma tra loro c’ è l’ abisso di un secolo». In che senso? «Fontana ha creato un’ arte nuova che ha influenzato intere correnti: spaziali, nucleari etc. Mentre Morandi ha rivangato tra le vecchie figurazioni, con estrema raffinatezza, ma senza alcuna innovazione. Questo non vuol dire che Morandi non sia stato un grande della sua epoca. Ma il suo sguardo era rivolto al passato. Quello di Fontana si proiettava sul futuro». Che cosa è stata la critica in Italia? «Difficile dirlo. Intanto separerei il lavoro dello storico dell’ arte da quello del critico che esercita il suo gusto sul presente». Abbiamo avuto dei grandi storici dell’ arte. È d’ accordo? «Sì. Berenson, Longhi, e in parte Ragghianti, furono storici molto preparati. Ma capivano poco della contemporaneità, non avevano la sensibilità sufficiente per analizzare il presente. E poi non c’ era il mercato che c’ è oggi».
James Joyce
Che cosa ha cambiato il mercato? «Tutto. Quando un Principe o un Papa ordinavano un’ opera a Raffaello o a Simone Martini era un gusto epocale e senza sbalzi che si imponeva. Oggi gli sbalzi sono infiniti e dettati dalla collaborazione perversa che a volte si instaura tra critici inaffidabili e mercanti senza scrupoli. Non ci vuole molto a lanciare un artista mediocre». Non pensa che questo stato di cose sia dovuto anche al tramonto dell’ idea di bellezza? «Lascerei il bello fuori dalla porta. La cosa da tenere sott’ occhio è che la durata di un’ opera si è accorciata enormemente. Il barocco ha resistito per secoli. L’ arte nucleare è durata cinque anni». Perché ha scelto di fare il critico e non lo storico dell’ arte? «Ho una certa difficoltà a memorizzare le date. E poi il passato è una grande immensa nebulosa, occorre un talento particolare per saperlo attraversare. Preferisco il presente. È il motivo per cui mi sono interessato fra l’ altro al design, una esperienza contemporanea della quale ho vissuto gli albori». Che rapporto ha con gli oggetti? «Sono come i sentimenti, però più affidabili. Stanno alla base della nostra vita di relazione». Riflettono anche una civiltà, un’ epoca. «La moda, il design, l’ arredamento sono le spie di ciò che una società rappresenta e delle sue evoluzioni». L’ Italia eccelle in questi campi. Perché? «Siamo un paese dotato di talento e di fantasia. Requisiti invece assenti nella politica, dove regna lo sbraco e il cattivo gusto». Cos’ è uno snob in una società di massa? «Un uomo meno solo di quanto si creda. Da noi ci sono snobismi intellettuali, mondani e politici. Non trova che mentre si verificano dei casi di sinistrismo snob, non c’ è un destrismo altrettanto snob? Mirare a eccellere per una certa qualità mondana ed effimera non danneggia nessuno. Tutt’ al più è una perdita di tempo». E il suo tempo come lo trascorre?
Giorgio Morandi, natura morta
«Suono per me, quando nessuno mi ascolta. Ma la cosa che mi affascina di più è dipingere. Ogni tanto, con qualche fatica, scrivo. Nella scrittura non c’ è quella immediatezza creativa che si verifica nella pittura, dove a volte hai la sensazione che un Dio o un demone ti cattura». Lei crede in Dio? «È una domanda che non si fa, esula dalle mie competenze terrene». Diciamo allora qual è il suo rapporto con la fede. «Credo in qualcosa che prescinde dal crudo e duro materialismo. Ma mi fermerei qui, anche perché finiremmo col parlare di religione». La spaventa? «Non il parlarne, ma per quello che rappresentano – ossia il dogmatismo che le anima – sì, mi terrorizzano. Vorrei un mondo liberato dalle certezze assolute. Forse il Novecento ci ha lasciato una eredità ambigua». Lei che lo ha attraversato quasi interamente che giudizio ne dà? «Mi aspettavo qualcosa di più. Ma ormai quasi centenario non ho più il diritto di ritenermi deluso».
Articolo di ANTONIO GNOLI per La Repubblica
Precente articolo su Gillo lo trovate in questo sito sotto: Gillo, Angelo era troppo, del 20 aprile 2017
LE CASE DELLA VITA, PALAZZO RICCI IN VIA GIULIA E PALAZZO PRIMOLI(OGGI MUSEO) IN ROMA, DIMORE DEL CRITICO MARIO PRAZ, NELLA DESCRIZIONE CHE EGLI NE FA, TESTIMONIANZA E GUIDA ERUDITA ALLA RICERCA DEL BELLO E DEL BUONGUSTO.
IL COLLEZIONISMO E’ UN VIZIO, SODDISFA L’ISTINTO DEL POSSESSO, ESSO SI SOSTITUISCE ALL’EROTISMO- AVERE UN CERTO MOBILE CHE HA ARREDATO LE STANZE DI MARIA ANTONIETTA PUO’ DARE UN BRIVIDO ANCHE AD UN ANIMO PIU’ DELICATO. PAGINE SCELTE DI LA CASA DELLA VITA, PRECEDUTE DAI RICORDI DI ALBERTO ARBASINO, MAURIZIO CALVESI E ALVAR GONZALES PALACIOS.
Nonostante l’età (sono state scritte nel lontano 1958) non annoiano, alla lettura, le oltre 400 pagine di La casa della vita, di Mario Praz.
Mario Praz
Praz, nato a Roma nel 1896, da padre impiegato di banca e da madre nobile, laureato in legge e in letteratura, poliglotta, fu saggista, critico d’arte e appassionato collezionista, esperto di letteratura inglese dal 1600 alla fine del ‘800, ma anche di quella spagnola, russa e francese. Morì a Roma nel 1982. Non si impegnò nel dibattito pubblico, anche se viene ricordata la sua critica alle posizioni estetiche di Benedetto Croce. Dopo la guerra finì in parte emarginato, ad opera dei crociani e per la diffidenza nei suoi confronti degli antifascisti.
La Casa della vita è uno strano libro in cui, dietro il racconto delle magnifiche stanze addobbate secondo lo stile Impero, caro a Praz, emerge continuamente, dissimulata e reticente, la biografia intellettuale, e non solo, dell’autore. Già l’assenza nel titolo del possessivo mia è inusuale, non trattandosi di una “generica” vita, ma quella, unica e irripetibile, dell’autore. Sicché, oltre all’erudizione del fervente antiquario, l’obiettivo di descrivere minuziosamente, stanza dopo stanza, le case in questione, si trasforma inevitabilmente in rievocazione fra autobiografia e storia dei luoghi e dei tempi, in un affresco ancora ricco di fascino dell’Italia fascista e della ricostruzione post-seconda guerra mondiale. Ma chi era Mario Praz? Così lo descrivono tre illustri contemporanei.
ALBERTO ARBASINO: “Il Professore, così come noi l’ avevamo conosciuto negli anni Cinquanta, era un personaggio solitario ed estremamente gentile. Viveva, circondato di bizzarre leggende, in una casa che dicevano assomigliare ad un monumento funerario – si trattava del famoso appartamento di via Giulia, pieno di bronzi e di cornici dalle dorature lucenti, di mobili lustri, di quadri e acquerelli dai colori pastello, della ricchissima biblioteca dalle meravigliose rilegature, di incantevoli porcellane di un mondo di curiosità e di testimonianze appartenute alla vita elegante del XIX secolo, epoca che l’ esuberanza di Napoleone ha reso una tra le più ‘ giovani’ ! “La sua casa e i suoi saggi smentivano i fantasmi di quello stile Impero, ciarpame polveroso e sinistro, che fa da sfondo ai racconti della seconda metà dell’ Ottocento, soprattutto inglese: le case del mistero, abitate da vecchi maligni e bisbetici… Come se gli autori dell’ età vittoriana vivessero, dal canto loro, in ambienti gai, tra una mobilia ridente! “Il collezionismo del Professore non raccoglieva opere troppo importanti, che fossero oltre la portata delle possibilità offertegli dallo stipendio universitario e dalle scoperte presso gli antiquari fuori del circuito della moda. Ma le centinaia di oggetti in stile perfetto e di gusto squisito – frutto di un’ erudizione sterminata e di una vertiginosa preveggenza – creavano attorno al Padrone di Casa una atmosfera piena di fascino, e costituivano un degno parato per l’ arte infinita della sua conversazione.
MAURIZIO CALVESI: “… Fisicamente, Mario Praz era un uomo molto brutto. Zoppicava leggermente. Era cupo, con un viso tetro e molto sinistro. In più, era contraddistinto da una celebre nomea: gli si attribuiva un potere malefico. Ancor oggi nessuno, qui a Roma, pronuncia mai il suo nome, perché tutti sono persuasi che questo nome potrebbe provocare una catastrofe. “Egli era perfettamente consapevole di questa diceria e, in un certo senso, ne era contento. Se ne serviva. Gli piaceva essere temuto e coltivava la leggenda che gli attribuiva la facoltà di gettare il malocchio e di portare sfortuna. Poiché era di natura assai lugubre ed aveva un temperamento aggressivo, aveva contribuito a rafforzare la sua immagine di uomo poco socievole e poco disposto alla comunicazione e alla convivialità.
ALVAR GONZALES PALACIOS: “… Tra gli antichi egizi, la casa della vita non era altro che la tomba. “Praz, io credo, avrebbe voluto morire come Sardanapalo, dando fuoco attorno a sé a tutte le cose care, sgozzando i più bei puledri, strangolando una dopo l’ altra le bellezze che lo circondavano, purificando tutte queste vanità in un rogo allegro e sinistro… “In un certo senso, fu quel che successe: pochi giorni dopo la sua morte, mi chiamarono per verificare, nei limiti dei miei ricordi, l’ entità del furto commesso da ignoti nel suo appartamento. Lo spettacolo era sconvolgente. Aperta la porta di mogano, si presentò ai miei occhi la vista di una stanza saccheggiata e profanata. “I ladri avevano portato via un centinaio di oggetti e lasciato uno spaventoso disordine. Dappertutto, brandelli di carta da imballaggio, mobili rovesciati, suppellettili sparpagliate in tutti gli angoli… Vidi i fiori di seta, che una volta ornavano le anfore di opalina e di bronzo dorato del camino presso il quale tante volte ci eravamo seduti a conversare, sparsi come il rito di una messa nera. Pensai che un simile spettacolo dovette offrirsi agli occhi di Carter quando fu abbattuta la pietra che sigillava la tomba di Touthankamon…”
Non essendo possibile sintetizzare la profusione di dettagli e osservazioni in tema di stili e arti minori, né della qualità di affreschi, consolle, soprammobili, busti marmorei e putti in silhouette, biblioteche Regency, armadi a losanghe e palmette, lampadari in bronzo o cristallo, vasellame, vassoi, carte da parati e tapisserie, ventagli, ecc. ecc. che Praz descrive con acribia, vi rimando volentieri alle numerose foto d’insieme dei diversi ambienti.
Leggo, infatti, nella versione accresciuta, edita da Adelphi nel 1979, arricchita da 27 tavole fuori testo, che riproducono le stanze delle case in cui Praz visse. L’indice delle persone e delle materie lungo ben 15 pagine dice della ricchezza, in poco caotica-né poteva essere diversamente,-dei fatti e dei ricordi che Praz restituisce, con uno stile per nulla pedante e un lessico corrente.
Nell’invitarvi alla lettura integrale del testo, mi limito a riportare, precedute o intercalate da un breve commento, alcune delle pagine che mi hanno particolarmente colpito, per il contenuto autobiografico e la vivacità delle descrizioni (fra parentesi il numero della pagina). Ho cercato, per quanto possibile, di dare un senso cronologico alla presentazione.
Due paia d’occhi azzurri (pagg. 121 e segg.)
Se gli occhi in questione sono quelli di una madre, è facile che il ricordo si trasformi in carezza. Qui però essa si carica di un contenuto metaforico che è la promessa di quell’erotismo che poi Praz troverà nelle donne della sua adolescenza, con quella bellissima immagine delle donne liberty che chiude il brano.
“Erano i primi anni del secolo, e la vita sembrava allora molto lieta; o forse era così lieta solo nel ricordo, perché è il ricordo che crea il tempo felice. Sua madre gli dava la buonanotte, a lui coricato, e con un bacio si faceva perdonare lo svago che si prendeva senza la compagnia del figliolo (davvero stavano troppo insieme); e nel curvarsi su di lui, la luce della lampada sul comodino le aveva colto gli occhi nel suo alone, e gli occhi avevano scintillato come le gemme della parure, erano apparsi come pietre preziose che pensassero.
Quadro stile Liberty. proveniente da Praga e ora esposto al museo di Miramare, Trieste
La straordinaria qualità di quegli occhi era d’unire due virtù in apparenza opposte, la morbidezza del velluto e o scintillio prezioso, adamantino delle gemme. Lui, di quegli occhi, sentiva solo la carezza e la luce; apprese poi che altri ne sentiva il fuoco….. Chinava la fronte su di lui già invaso del primo sopore; egli ricordava la magnifica acconciatura, le perle morbide come lo sguardo, i brillanti pieni di scintille come quello sguardo, e la veste magnifica di danza, come calice di quel fiore che emergeva con bianche spalle e candida fonte; quella veste che più tardi aveva veduto sgualcita e impallidita in un armadio, e poi era rinata improvvisamente alla sua vista nei quadri di Boldini o di Sargent, chè le donne dell’epoca liberty eran tutte come dondolanti fiori sui prati d’un mondo sereno.”
Conoscenza con Croce (pagg. 136 e segg.)
Palazzo Primoli, casa museo Mario Praz
Il tono ironico e un poco beffardo del brano svela un aspetto del carattere di Praz, non certo propenso alla adulazione, e piuttosto scettico nel riconoscere prestigio o ascendente a chiunque. C’è da dire che, come ogni ricostruzione a posteriori, la natura del suo rapporto col filosofo napoletano va presa col beneficio di inventario. Purtuttavia, essa è degna di nota, perché, più che confermare la nota diversità di opinioni estetiche fra i due, Praz insiste per ribadire la lontananza da un mondo che non è mai stato il suo, nemmeno in gioventù, sotto l’ombra del più autorevole e riverito filosofo italiano del ‘900.
Nell’aprile del 1925 feci conoscenza personale di Croce a Napoli, nel suo palazzo di Trinità Maggiore 12: ricordo un cortile un po’ fatiscente, dove un pittore di angoli pittoreschi d’Italia, nei secoli scorsi, avrebbe trovato il fatto suo, tanto più che, se la memoria non m’inganna, c’era anche una capra. O forse la capra ce l’ha messa a mia immaginazione, ma non era certamente immaginaria la pittoresca schiera di “vaccarielli”, ossia di seguaci e ammiratori del Croce che mi presentò al lavar della mense: napoletani entusiasti e trasandati, alcuni dei quali forse erano giovani, ma l’abito filosofico o filo-filosofico conferiva a tutti un aspetto uniforme di gente grigia, occhialuta, brizzolata, scalcagnata e fervida. Tutti pendevano dalle labbra di Croce, che raccontava aneddoti spiritosi. La sera, dopo cena, seguivano Croce nella passeggiata costituzionale che gli era prescritta dal medico; s’arrivava zampa zampa (come si dice a Firenze, ossia a passi lenti e gravi) fino a San Francesco……Forse Croce mi vedeva già membro a vita di questa masnada d’ammiratori e clienti, alcuni dei quali poi apostatarono; né è da dire che il filosofo avesse per tutti qualche stima, ma molti non allontanava perché lo divertivano come (per usare un termine cinquecentesco) “nuovi pesci”, altri ne doveva tollerare per indulgenza e bontà; …..
Casa Museo Praz
Forse anch’io passai più tardi per apostata, ma Croce avrebbe avuto torto a credermi uno dei suoi; del resto allora le mie tendenze così poco crociane, non erano ancora apparenti. Forse ero stato crociano solo quando ero studente a Roma, prima del 1920…. Ma nel 1925 e per qualche anno ancora il Croce poteva immaginarsi che io fossi uno dei promettenti discepoli della sua scuola.
Parigi, oh cara! (pagg. 248-249)
L’occasionale visita a Parigi nel 1930 permette a Praz di rievocare il fascino della città, di ironizzare con mano lieve e toni amichevoli sulla coppia di amici che lo ospitano ma, soprattutto, sulla loro casa e sullo stile dell’arredamento. La casa è quella di Charles Du Bos, in rue des Duex Ponts, strada posta proprio al centro dell’Ile St. Louis, sulla Senna, fra pont de la Tournelle e pont Marie. Charles Du Bos scrittore e critico cattolico francese strinse col coetaneo Praz un forte legame di amicizia.
Casa Museo Praz
“Era un appartamento incantevole con una camera d’angolo simile alla prora di una nave in mezzo al fiume grigio-glauco; a destra si vedeva la riva dell’isola dagli alberi con le foglie verniciate di fresco verde primaverile, uno spicchio di Notre-Dame e le torri di Saint-Sulpice goffe come tubi, la cupola del Panthéon e le case del Lungosenna color zinco contro il celeste del cielo. La camera era parata di tela dorata con cineserie; i libri eran disposti in scaffali di lacca a fiorami; c’era un’aria di chiesa parata a festa ed era assai civettuola anche nelle altre stanze…… La camera da letto era colore argento si cui spiccavano le tinte vive delle grandi conchiglie collocate sui mobili; era questa la stanza aux coquillages (conchiglie, ma qui per stile roccocò, ndr), e ci si domandava se non fosse in onore d’una famosa poesia di Verlaine (poesia Conchiglie, di cui do la traduzione del frammento citato di Praz, n.d.r.):
……
un’altra imita la grazia Celui-ci contrefait la gràce
del tuo orecchio ed un’altra ancora De ton oreille,et celui-là
la nuca rosa, corta e grassa. Ta nuque rose, courte et grasse;
Ma una sola mi ha turbato. Mais un, entre autres, me troubla.
Ma sul tavolino c’era una riproduzione della castissima Madonna di Alessio Baldovinetti (pittore fiorentino del Rinascimento n.d.r.). E del resto Madame Du Bos, che si occupava di decorazioni interne e probabilmente aveva decorato così la sua casa come un campionario della sua abilità, non aveva nulla di troublant (cioè che potesse turbare, n.d.r)…. Certo un ambiente deliziosamente artificiale e calcolato come una composizione, come i discorsi di Charles Du Bos che conferiva un aspetto profondo anche alle cose più semplici, e parlava insomma come un libro stampato”
Gli incontri con Montale (pagg. 252-253)
Il poeta Eugenio Montale
Praz riflette su come il tempo cancella i ricordi, anche di coloro coi quali abbiamo avuto frequentazione abituale o cospicui scambi epistolari. “Quando incontro costoro, anche dopo lunghi intervalli- scrive Praz-: “ non scambio che poche parole indifferenti, come se non avessimo più niente da dirci”. Era il suo carattere, ma anche l’effetto dei lunghi soggiorni all’estero, e, forse, dell’epoca piena di sommovimenti, che lo allontanarono da affetti duraturi o amicizie non contingenti. La stessa sorte succede nel suo rapporto con Eugenio Montale, pure assai stimato, e la cui rievocazione è partecipata, ma mai proprio commossa.
“Eppure ci fu un tempo, tra il 1927 e il 1934, che nei miei soggiorni fiorentini non passava giorno che non incontrassi Eugenio Montale, ci trovavamo al caffè o in trattoria, e, a giudicare dalle lettere di lui che mi rimangono, avevamo da dirci moltissime cose. Ammiravo totalmente la poesia di Montale che m’era riuscito di tradurre Arsenio (poesia contenuta nella raccolta del 1928 di Ossi di Seppia, n.d.r.) in versi inglesi, che avevano incontrato l’approvazion3 di T.S. Eliot da farglieli pubblicare nel “Criterion-vol. VII n. 4)…..
Casa Museo Praz
Il tono del nostro epistolario era piuttosto faceto, ci scambiavamo poesie in inglese maccheronico parodiato da quello dei versi di Pound e di Eliot.”
Il tono faceto, Montale lo estendeva (forse scaramanticamente) anche alla narrazione di propri casi, non molto allegri, in verità. Il poeta soffriva infatti di esaurimento nervoso, aggravato dalle ristrettezze finanziarie, perché lo stipendio che gli passava l’editore Bemporad era assai misero. Su questo, ecco ciò che riporta Praz, prendendolo dalle lettere rimastegli di Montale:
“ In cure svariate ho perso anni e speso migliaia di lire. Ho consumato centinaia di ricostituenti, preso molti inefficaci Fellow,s , ho fatto almeno tremila iniezioni di glicerofosfati, cacodilato, forgenina, formiati vari, valerofosfer, ecc.ecc., senza nessun risultato. Dunque? Dunque non c’è che da aspettare un miracolo e da rassegnarsi a quest’inferno. Mi diceva Sbarbaro che varcati i 30 anni si guarisce di questi mali: ne ho 31 e due mesi e sto peggio….”
Nel libro, osserva Praz, che c’era dell’esagerazione in quelle parole, ma non troppo:
Casa Museo Mario Praz
“ Quando Montale passò da casa mia in piazza Dei Nerli prima di recarsi al Gabinetto Vieusseux dove dovevano intervistarlo per assumerlo al posto di Tecchi (il direttore uscente), egli era così prostrato e tremante dall’agitazione che poteva a malapena reggersi in piedi, e dovette prendere una carrozza. Mi pareva quasi incredibile che potesse agitarsi tanto per una circostanza così poco solenne, e non riflettevo che per lui quell’impiego, sia pure modesto, voleva dire una certa indipendenza finanziaria”
Nel rievocare il suo rapporto con Montale, Praz si abbandona poi al pettegolezzo sentimentale, ricordando l’insistente corte cui il poeta fu oggetto da parte di Giulia Celenza, traduttrice di valore dei capolavori della letteratura inglese, da Rudyard Kipling a W. Shakespeare. Il poeta di Ossi di Seppia non ne voleva sapere, nonostante la Giulia, donna dal senso pratico, gli vantasse un suo “gruzzoletto”. Ciò che pone fine alle avances della traduttrice, secondo quanto scrive Praz, fu quando: “salendo lei dinanzi a lui per una scala, egli vide spuntare sotto la sua sottana una sottoveste di flanella rossa”. A pensare che, sempre attorno ad una scala, anche se in discesa, Montale scriverà poi una delle sue più commoventi poesie, dedicata alla moglie:
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,/le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede./Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue. ”
Tornato Praz dall’Inghilterra nel 1934, riflette amaramente sul tempo che passa e le amicizie che si dissipano, il tono è autocritico, anche se fatalistico. Quando scrive questi ricordi Praz ha 62 anni, quindi relativamente giovane, ma il tono è di chi oramai accetta le cose e se stesso così come sono.
Casa Museo Praz
“quel alone leggendario in cui mi vedeva Montale, di amico di T.S. Eliot e di apostolo della cultura italiana all’estero che pure se ne infischiava del fascismo, si dissipò alquanto…. I nostri incontri e i nostri rapporti epistolari si diradarono… Eppure tra noi non c’era stato nessun screzio, nessuno di quei dissapori comuni tra letterati. Ci eravamo passati accanto, per un momento avevamo creduto di camminare insieme, poi ciascuno aveva voltato le spalle all’altro e proseguito per la sua strada. E’ quello che mi è capitato con tante, con troppe persone nella vita. Forse è colpa mia, forse è dalla natura stessa della cose….”
Preraffaelliti, i fantasmi di un tempo che fu. (pag. 273)
Praz capita a Londra nel 1923 in tempo per assistere alle scene di vita degli ultimi circoli che spingevano per il rifiorire dell’epoca del Preraffaellismo. Vi arriva indirizzato dalla vecchia amica Vernon Lee e durante un thè entra in contatto con un cenacolo morrisiano (William Morris era stato un pittore aderente al movimento). Questa è la descrizione che fa Praz di un mondo oramai concluso, estetizzante e vuoto.
Dante Gabrielli Rossetti
“Vecchi dall’aria di artisti, uno con la barba e candida chioma, alla Mazzini, occhi celesti sognanti e camicia azzurra. Tipi di ratés (falliti, perdenti, n.d.r.) allampanati, con vestiti sciatti e facce pallide di sognatori dispeptici. Vecchie zitelle. Una signora australiana molto provinciale a cui pare d’essere in paradiso per trovarsi in un ambiente preraffaellita. Nel salottino all’ingresso un magnifico ritratto rossettiano di Mrs Morris, blu e rosso cupo dominano nelle pesanti pieghe delle vesti e dei cortinaggi. Al piano di sopra una vecchia damigella ossuta e vestita in modo grottesco canta Lieder con voce sfiatata.
William Morris
La stanza ha una magnifica vista sul fiume che passa sotto le finestre, l’altra riva è quasi pastorale, prati e poche case, bellissimo pomeriggio fresco e dorato…. E’ una stanza piena di quadri disegni… Ci sono pure oggetti curiosi, estetizzanti, cuscini dai colori vivaci, ninnoli dall’aria medioevale; un piccolo virginale che a un ceto punto Miss Morris si mette a suonare, accompagnandovi un canto incredibilmente stonato… a tutta quella buona, ingenua gente, questi ninnoli falsi e antiquati, questi canti stonati, quell’ambiente artiste paiono un sogno. Credono di rivivere i bei tempi della Brotherhood la fratellanza preraffaellita, n.d.r.). E forse queste donne brutte e ridicole, e Miss Morris baffuta, raggiante, vestita d’impossibili merletti e bigiotterie (ma sul petto ha un medaglione colla testa della madre dipinta da Rossetti) sembrano un’accolita di giovani muse a questi uomini mancati, e disillusi, o rimasti fanciulli, ma tutti certo logorati da lavori ingrati e meschini? Come sembra lontano, frusto e buffo il preraffaellismo stasera! Sul pianerottolo una serie di fotografie, in varie pose, di Mrs Morris: in esse ella sembra un’ebrea o una romana del popolo, mora, ricciuta, olivastra, sgraziata. In una sembra una selvaggia della Papuasia”
W.Morris: The orchard
Chi era il vero Praz nelle parole di Vernon Lee (pagg. 274 e segg.)
Per capire un po’ più a fondo la personalità di Praz durante gli anni della sua formazione, il documento più convincente è la lettera che nel gennaio del 1924 da Firenze gli invia Vernon Lee, e che lo stesso Praz riporta nel libro. Vernon Lee è lo pseudonimo di Violet Paget, scrittrice inglese da molti anni residente a Firenze, in una dimora storica, il Palmarino, fra Fiesole e Maiano, dove i due si erano conosciuti. All’inizio del 1924 Praz, lasciata Londra, è ora a Liverpool, come senior lecturer in italian; sono per lui giornate tristi e la lettera di Vernon Lee vorrebbe essere consolatoria. Riporto alcuni passi dai quali emergono alcune acute considerazione della scrittrice su Praz, che lei tratta un po’ come un nipote da esortare e indirizzare nella vita.
“Avrei da lavorare, ma la Sua lettera sembra richiedere una risposta senza troppo indugio. Sebbene io non sappia se potrà esserle di alcuna validità, e creda e speri che a quest’ora Lei abbia dimenticato… il Suo momento di spleen….
Vernonn Lee, 1870 circa
Lei soffre…. degli anni di incertezza, di compressione, quasi di irreparabilità attraverso i quali è passato, e passato a questa buona fortuna assolutamente inattesa. Lei era così assolutamente senza speranza, e pareva che ne avesse tanta ragione obiettiva, che il solo pensiero di Lei soleva deprimermi negli intervalli dei nostri incontri…..penso che Lei possa soffrire di quello attraverso cui passano molti giovani: la depressione del “mezzo del cammin”…. Nei tre anni durante i quali L’ho conosciuto prima che si recasse in Inghilterra mi capitava spesso di provare noia al pensiero che il Suo vero io non c’era ancora, che Lei era fatto tutto di letteratura. Forse mi sbaglio, ma le Sue allusioni a Madame Bovary, alle etère e alla fanciulle-fiori da Parsifal nella Sua ultima lettera sono un residuo di questo. Ciò che mi ha fatto piacere nelle nostre ultime conversazioni era il fatto che mi sembrava che la prosperità L’avesse fatto crescere, che una reale personalità, una personalità interessante e spontanea stava emergendo da quel patetico fascio d’impressioni libresche che fin allora era stato ai miei occhi Mario Praz…. [credo che] Lei sta sviluppandosi in un essere umano maturo e che il suo speen.. sia in parte causato da questa penosa e lenta trasformazione dell’io irreale della prima giovinezza nella realtà, prosaica e confortevole e, speriamo, utile dell’età matura… sospetto che Lei abbia bisogno di innamorarsi…. Purché non conduca ad un dongiovannismo che sarebbe estremamente grottesco e probabilmente ignobile nel Suo caso… Naturalmente prima o poi dovrà sposarsi, e dovrà vivere e lavorare e avere coraggio con questa prospettiva… .. sono sempre stata colpita del fatto che Lei soffre della esilitàdi interessi delle persone che sono puramente dei letterati a meno che non siano geni creatori….
Vernon Lee ritratta da Johnn Singer Sargent
Sia pieno di curiosità distinte dalla letteratura; le quali faran sì che la letteratura apparirà quale dovrebbe essere, non un compito, ma una gioia. E anche, per l’amor del cielo, balli, vada ai ritrovi anche se la annoiano… si rassegni ad esserlo per un paio d’anni .. e si proponga di mettere qualcosa di piacevole e d’interessante in ciascuno di essi, se Le riesce. Lei è un giovane molto fortunato; si proponga di non demeritare della Sua fortuna. Cresca, caro Praz. E col crescere uscirà dal Suo spleen ! “
L’ubriaco sotto la finestra (pagg. 117 e segg.)
Roma, tempi di Trilussa, anche se oramai malato, anche se in libreria oramai non “Te portavi via n’ libbro c’un baijocco.” Ma l’aria strapaesana è la stessa decritta del poeta romanesco, anche se illuminata dalle fosche tinte dalla guerra. La piazza di cui parla Praz è quella de’ Ricci.
Ora nella piazzetta l’oste dispone in fila i tavolini e la sera, soprattutto la sera del sabato, i popolani s’attardano a bere e a conversare sotto la viva luce d’una forte lampada elettrica, e sovente c’è chi canta accompagnandosi sulla chitarra, e certe sere, come presi da frenesia, gruppi di giovani si siedono sui banchi di pietra del vecchio palazzo nell’angolo morto della piazzetta, e seguitano a cantare a scquarciagola…… Ma per anni la piazza è rimasta, a sera, silenziosa, deserta e buia, se non quando l’illuminava la luna che qui si specchiava come in un pozzo cupo, e non si sentiva che il lontano passo cadenzato di qualche rara pattuglia…
Mario Praz, Bellezza e bizzarria
Fu appunto una notte di luna del maggio 1943 che venni svegliato da una voce che declamava rauca e ineguale: “ Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai”: spiccava le sillabe, tuonava la sentenza come a un’adunata; ma subito dopo la voce proseguiva con un commento rotto, disordinato, calava di tono, si perdeva in un farsetto, in un pigolio. Era un ubriaco sotto la finestra…. Ecco la guerra, tuonava ogni tanto; poi tutto d’un fiato: Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai; e subito dopo, scandendo le sillabe: Centomila, duecentomila prigionieri, contadini, operai, un tozzo di pane.. ora non sarai nemmeno questo. Abbracciare tutto. Tutto il mondo contro.. Dio solo può piegare…. “Ecco la guerra”, come un urlo di spavento, s’inalberava come un fantasma di Goya. “I discorsi sono immensi, grandiose sono le promesse. Abbiamo combattuto, abbiamo amato la patria. Ci hanno fregato con una medaglia d’oro (sì, diceva fregato non fregiato). Quarantaquattro medaglie d’oro, duecentootto d’argento. Solo Dio…. Gli uomini e le cose mai. Il tono scendeva bruscamente poi risaliva: “L’immenso condottiero”- e dopo una breve pausa, quasi sottovoce: “Quel porco”…….
Null’altro accadde nella piazza fino alla mattina del 26 luglio, quando dalle finestre della sede dell’Istituto di Cultura Fascista invasa dal popolo piovvero sul selciato miriade di fogli di carta, suppellettili, mobili, ritratti, e macchine da scrivere.
Roma sotto le cannonate ( pagg. 138 e segg.)
Praz, nei “tristissimi mesi” dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e dei bombardamenti Alleati tenne un diario di guerra.
“Come angusta e meschina, irrespirabile s’era ridotta la vita! Le mie note, a rileggerle, mi sembrano quelle d’un’altra persona, … mi sembra d’essermi adeguati allora alla folla anonima, che freme, paventa, guarda verso terra come un animale in cerca di cibo, e qualche volta si ricorda della sua umanità.. e guarda vrso il cielo come a una lontana speranza”…
Distruzione e lutti dopo un bombardamento, Praz gira inquieto in bicicletta in compagnia della moglie. Mentre il disordine pare infastidirlo e la vista dei cadaveri lo lascia inerte, l’emozione sgorga irrefrenabile solo davanti ai ruderi di San Lorenzo. Seguendolo nel suo pensiero verrebbe da pensare: di San Lorenzo c’è n’è una sola, di uomini invece…….
Ricordo come un sogno una sera, la sera dell’invasione della Sicilia (10 luglio 1943 ndr)…eravamo stati invitati a casa di un giornalista tedesco.. Languiva la conversazione… venivano riferiti particolari raccapriccianti dei bombardamenti di Colonia: il fosforo liquido ardeva per le strade; si parlava di gente carbonizzata nei rifugi, di uomini grossi che si mummificavano e rattrappivano come macabri trofei dei cacciatori di teste; c’era che lodava il discorso del Duce per il suo equilibrio, e quello di Giovanni Gentile per la sua sincerità….. Pochi giorni dopo, il 19 luglio, mentre correggevo le bozze di Fiori freschi, vidi alla finestra della camera di pranzo le fusoliere oro e argento d’una formazione di bombardieri, alta sui tetti, e i pennacchi di fumo dell’antiaerea. Si udivano esplosioni, seguite da pause tra ondata e ondata di aerei. Nel pomeriggio io e mia moglie ci recammo in bicicletta al quartiere Prenestino che era stato colpito. Abitava da quelle parti un antiquario, Borelli, di cui avevo spesso visitato le collezioni; la casa che sorgeva nel suo giardino, il “rustico”, era stata centrata da una bomba. Borelli in gabardina e berretto, tutto coperto di polvere e come inebetito, andava attorno raccogliendo con gesti incerti e meccanici quel che si poteva estrarre di sotto le macerie. Rientrando a casa aveva trovato sotto l’arco del suo portone un operaio morto, col basso ventre squarciato. Per tutto il quartiere s’aggiravano come sonnambuli gli abitanti delle case sventrate; povere famiglie che trascinavano via quel che avevan potuto salvare, materassi, valigie e involti trasportati su biciclette; e guardavano in su verso le stanze che fino a ieri erano state il loro nido appartato, ora esposte agli occhi di tutti, spesso rese grottesche dal capriccio del bombardamento: così ricordo una fila di cravatte che pendeva del vuoto. Dietro Porta Maggiore, in uno spiazzo, una tela copriva i morti, vigilati dai carabinieri. Ma fu soltanto alla vista della basilica di San Lorenzo che mi vennero le lacrime agli occhi; quella facciata distrutta, quell’opera d’arte scomparsa che era durata secoli da identificarsi per me quasi con l’eternità, mi commuoveva più della morte degli uomini.
Ecco la pagina conclusiva del diario di guerra “quella lunga agonia d’umiliazione” che Praz intese inserire in La casa della Vita (pagg. 142-143):
“4 giugno 1944- La mattina cannonate a regolari intervalli, come quando ci fu il combattimento dell’otto settembre. Pare che sparino da dietro il Gianicolo. La mattina e il pomeriggio seguitano a sfilare soldati tedeschi, stanchi, sudati, ma armati fino ai denti, pel Corso Vittorio, pel Lungotevere, tra la gente seduta sulle spallette, allineata lungo le strade, gente scamiciata, sporca, silenziosa. Non ridono, non disprezzano, non commiserano. Vecchia civiltà. L’antica folla romana , tra gli antichi monumenti, vede ancora una volta un esercito in rotta, se e tace. Aeroplani in picchiata fanno un gran chiasso verso le due. Mitragliamenti. Vibrano le finestre semichiuse. Buffi autoveicoli di tutti i generi: alcuni paiono ciabatte su ruote, come in un quadro di Bosch. Uno enorme, come un carro carnevalesco a gradinate, con soldati scamiciati e scomposti: un cannone è nascosto sotto le frasche. Un’aria di carnevale macabro. Con Giuliano [Briganti ndr] vedo sul lungotevere una circolare interna carica di soldati tedeschi abbattuti, cionchi. Passiamo pel Corso Vittorio. Proprio qui, quattro anni fa, la folla tornava da Piazza Venezia, atterrita dal discorso del Duce che voleva la guerra, volti disfatti contro il sole che calava. Quando passarono le Giovani Fasciste, qualcuno aveva osservato: “Non troverete marito”. Oggi ci si avvicina un vecchio dall’aspetto piuttosto degno e chiede l’elemosina: “ Sono uno sfollato”. La sera tra le otto e mezzo e le nove si sa da quelli che hanno la luce della Tiburtina (noi della Società Romana siamo al buio) che gli americani sono a San Paolo. La gente alle finestre e sui poggioli si agita ed è contenta. Poi nel crepuscolo-ancora si odono colpi di cannone- il pianista che abita di faccia in Via Monserrato, suona le battute della vecchia Marsigliese, il vecchio inno dell’uomo libero, che sempre dà un tuffo al cuore.”