IL LAVORO BEN FATTO

 

 

IL MANIFESTO DEL LAVORO BEN FATTO
1. Qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha senso.
2. Nel lavoro tutto è facile e niente è facile, è questione di applicazione, dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore.
3. Ciò che va quasi bene, non va bene.

4. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, grazie al lavoro delle donne, degli uomini e delle macchine.
5. Un mondo che sa dare più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a ciò che sappiamo e sappiamo fare e meno valore a ciò che abbiamo, è un mondo migliore.
6. Il lavoro è identità, dignità, autonomia, rispetto di sé e degli altri, comunità, sviluppo, futuro.

Vincenzo Moretti

7. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’amore per quello che si fa e del piacere di farlo.
8. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei diritti, della dignità, della soddisfazione, del rispetto e del riconoscimento sociale di chi lavora, indipendentemente dal lavoro che fa.
9. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’etica, della cultura, dell’approccio, del modo di essere e di fare fondati sulla necessità di fare bene le cose a prescindere, in qualunque contesto o situazione.
10. Il lavoro ben fatto non può fare a meno dei doveri di chi lavora, del suo impegno a mettere in campo in ogni momento tutto quello che sa e che sa fare per fare bene il proprio lavoro, come persona e come componente delle strutture delle quali fa parte, con spirito collaborativo, indipendentemente dal lavoro che fa.

11.
 Fare bene le cose è bello.
12.
 Fare bene le cose è giusto.
13.
 Fare bene le cose conviene.

14.
 Il lavoro ben fatto non è soltanto un modo etico, cooperativo, sociale di pensare e di fare le cose.
15. Il lavoro ben fatto è prima di tutto un modo razionale, utile, conveniente di pensare e di fare le cose.
16. Non importa quello che fai, quanti anni hai, di che colore, sesso, lingua, religione sei. Quello che importa, quando fai una cosa, è farla come se dovessi essere il numero uno al mondo. Il numero uno, non il due o il tre. Poi puoi essere pure il penultimo, non importa, la prossima volta andrà meglio, ma questo riguarda il risultato non l’approccio, nell’approccio hai una sola possibilità, cercare di essere il migliore.


17. Lavoro ben fatto è mettere sempre una parte di te in quello che fai.
18. Lavoro ben fatto è il calore che fai quando fai bene qualcosa, qualunque cosa tu faccia, progettare un ponte, pulire una strada, lavare il pavimento del bar dopo che hai abbassato la saracinesca.
19. Lavoro ben fatto è rispetto di sé, visione, fiducia, voglia di non arrendersi.
20. Lavoro ben fatto è soddisfazione, conoscenza, creatività, potenziale, intelligenza, intraprendenza, connessione, autonomia, innovazione, dedizione, professionalità. Delle persone e delle organizzazioni.
21. Lavoro ben fatto è la qualità che fa muovere un Paese, che lo fa ripartire, che lo sostiene nei suoi percorsi di cambiamento e di sviluppo, che non si accontenta dei casi di eccellenza, che si fa norma, che traduce gli obiettivi in risultati.
22. Lavoro ben fatto è intelligenza collettiva, bellezza che diventa ricchezza, cultura che diventa sviluppo, storia che diventa futuro.

23. Cogliere e moltiplicare le opportunità è lavoro ben fatto.
24.  Connettere maestria, creatività e bellezza è lavoro ben fatto.
25. Mettere a valore il sapere e il saper fare delle persone, la conoscenza esplicita e tacita delle organizzazioni, la cultura e la storia delle città e delle comunità è lavoro ben fatto.
26. Investire nella scuola, nella formazione, nella conoscenza, nell’innovazione, nella ricerca scientifica è  lavoro ben fatto.
27. Leggere le relazioni tra le persone e le organizzazioni, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza, è lavoro ben fatto.
28. Riconoscere il valore delle donne e degli uomini che ogni giorno con il proprio lavoro danno più significato alle proprie vite e più futuro al proprio Paese è lavoro ben fatto.


29. Il cambiamento riguarda tutti.

30. Le singole persone, senza le quali il lavoro ben fatto non può diventare modo di essere e di fare, senso comune, missione condivisa.

31. Le organizzazioni, destinate ad avere tanto più futuro quanto più riescono a connettere il fare con il pensare, ad affermare idee e modelli gestionali in grado di tradurre con più efficacia le idee in azioni e gli obiettivi in risultati.

32. Le classi dirigenti a ogni livello, alle quali tocca ricostruire il nesso tra potere, inteso come possibilità di disporre di risorse e di prendere decisioni, e responsabilità, intesa come necessità di operare nell’interesse generale delle istituzioni e dei cittadini che si rappresentano.


33. Non è tempo di piccoli aggiustamenti.
34. A partire dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale va ridefinito il background, la tavola di valori, di riferimenti e di interpretazioni condivise necessari alle famiglie, alle comunità, ai paesi, al mondo, per pensare il proprio futuro in maniera più inclusiva e meno ingiusta.
35. Va ripensata la relazione esistente tra la capacità di innovare, di competere e di conquistare spazi di mercato e il riconoscimento sociale del valore del lavoro, la possibilità che chi lavora abbia una vita più ricca e consapevole.
36. Il sapere, il saper fare, l’apprendimento per tutto il corso della vita sono una componente essenziale non solo dei processi di emancipazione delle persone ma anche della capacità di attrarre e di competere delle imprese, delle PA, dei territori dei diversi Paesi.

37. Il lavoro ben fatto è il suo racconto.
38. Il racconto ha origini antiche come le montagne.
39. Ogni cosa che accade è un racconto.

40. Raccontando storie ci prendiamo cura di noi.
41. Connettiamo vite, fatti, eventi.
42. Diamo senso al trascorrere del tempo.
43. Ricostruiamo ciò che è successo a vantaggio del significato.
44. Istituiamo ambienti sensati.
45. Incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni e delle comunità con le quali in vario modo interagiamo.
46. Attiviamo processi di innovazione e di cambiamento.

Adriano Olivetti, un imprenditore antisignano del lavoro ben fatto e dell’etica sociale

47. È tempo di nuovi Omero, di nuova epica, di nuovi eroi.
48. È tempo di donne e di uomini che ogni mattina mettono i piedi giù dal letto e fanno bene quello che devono fare, a prescindere, perché è così che si fa.
49. È tempo di persone normali.
50. È tempo di fare bene le cose perché è così che si fa.

51. Siamo quelli del lavoro ben fatto e vogliamo cambiare il mondo.
52. Nessuno si senta escluso.

Il Manifesto del lavoro ben fatto è di Vincenzo Moretti, sociologo e narratore.  Moretti è stato professore a contratto di sociologia industriale e di sociologa dell’organizzazione presso l’Università di Salerno.Già presidente di SMILE (Sistemi e Metodologie Innovative per il Lavoro e l’Educazione), agenzia nazionale di formazione. Ha pubblicato articoli per varie testate giornalistiche e attualmente ha un suo blog su NOVA 24 del gruppo Sole 24 Ore. (qui).

 

ESSERE NANNI

ESSERE NANNI

LA SPASSOSA,LEGGERA  IRONIA DI CULICCHIA SMASCHERA NEL SUO ULTIMO LIBRO “ESSERE NANNI MORETTI” LE IPOCRISIE E I CLICHE’ DELLA CULTURA ITALIANA- IL PERSONAGGIO SOSIA DEL REGISTA ATTRATTO ORA DA BARICCO ORA DA SAVIANO, PURCHE’ SEMPRE IN CULO A GIUSEPPE CULICCHIA.

 

Giuseppe Culicchia

Nella tristezza delle trame narrative degli autori italiani, sempre così sociologiche perfino quando sono gialli o noir o rosa o mezzi e mezzi, bisogna ammettere una cosa: in Italia da qualche anno i libri più divertenti li scrive Giuseppe Culicchia, e senza neppure tirarsela.

Nel suo ultimo romanzo, Essere Nanni Moretti (Mondadori), il protagonista è il cinquantenne Bruno Bruni, scrittore fallito e sfigato, che ha pubblicato due romanzi per editori sconosciuti, vive di traduzioni, coltiva l’ambizione di scrivere il Grande Romanzo Italiano e nutre un odio viscerale proprio per Giuseppe Culicchia.

 

È una satira tragicomica del mondo culturale italiano, delle sue miserie e dei suoi falsi miti (il mito di Bruni è Alessandro Baricco), dove c’è perfino Antonio Franchini appena passato a Giunti, al quale il protagonista consegna le prime pagine del romanzo, composte dalla stessa frase ripetuta dall’ inizio alla fine: «Vai a fare in culo, Giuseppe Culicchia». Il suo hobby: scrivere su internet recensioni negative ai libri di Culicchia.

Nanni Moretti

La sua ricetta di ingredienti per avere successo: riuscire a fare un romanzo baricchiano, però con qualche camorrista «perché vorrei metterci un tocco di Saviano», e con qualche portaborse di potentissimo Onorevole «per dare alla storia quel non che di parlamentare barra giudiziario alla Carofiglio». Bruni ha anche un agente, il quale però lo tratta come un caso umano, e un giorno gli propone di spacciarsi per un ventenne affetto dalla sindrome di Werner, perché solo così può suscitare l’ interesse del pubblico.

 

«Se ti faccio diventare l’esordiente dell’ anno sotto forma di ventenne condannato all’invecchiamento precoce, Fazio ti chiama di sicuro. E come minimo vendi quanto Saviano. Pensaci. Milioni di copie. Così». Caso umano, attenzione, da proporre non a Franchini ma a Mondadori, editore in crisi di idee: «A Segrate non sapevano più che cazzo inventarsi. Prima il panettiere, poi il fisico, poi il martire, poi il montanaro scultore bevitore, poi l’ ebreo esperto di Proust che è il nuovo Proust… la ninfomane se l’era già giocata Fazi… sull’ ex sessantottino muratore però elegante e guru c’è l’esclusiva di Feltrinelli…»

Ma il bello del romanzo inizia quando Bruni, facendosi crescere la barba per ritrovare una verginità letteraria e spacciarsi per un esordiente, si ritrova a essere scambiato ovunque per Nanni Moretti. Praticamente un sosia. Al momento la cosa suscita sconcerto, ma dopo viene in mente altro: sfruttare la somiglianza per fare la bella vita. Così, spinto dalla sua ragazza Selvaggia (un’altra fallita, aspirante attrice, pole-dancer di professione), Bruni comincerà a girare l’Italia spacciandosi per il famoso regista.

Sarà ospitato da sindaci e assessori, dentro uno spaccato del provincialismo italiano che si inchina pacchianamente di fronte alla celebrità («Battiamo la provincia», suggerisce la scaltra Selvaggia). Con conseguenti crisi di identità: «Questa full immersion di Nanni Moretti mi fa un effetto ambivalente. Da un lato, è come se mi osservassi sempre da fuori, per capire se ci sto dentro e se interpreto Nanni Moretti in modo convincente. Dall’ altro… non lo so, sarà che ne imito alla perfezione la voce, sta di fatto che comincio a sentirmi proprio Nanni Moretti. Solo che Nanni Moretti una cosa come full immersion non solo non la direbbe, ma non la penserebbe mai».

 

Esilaranti le cene, con il sindaco di turno che omaggia del proprio libro autostampato (succede davvero) il sedicente Moretti, che riuscirà perfino a infiltrarsi in un hotel di lusso alla Mostra del cinema di Venezia. Culicchia, con un tono lieve, da commedia, smaschera tutti i cliché culturali, inclusi quelli dello stesso Moretti.

Perché alla fine chi è Nanni Moretti per la cultura italiana? Nient’altro che una serie di tic, di frasi passate nell’ immaginario collettivo: «Mi si nota di più se non vengo o se vengo e mi metto in disparte?», «Chi parla male pensa male!», «Ve lo meritate, Alberto Sordi!». All’antieroe Bruno Bruni basterà impararle tutte a memoria e continuare a ripetersi: io sono Nanni Moretti, io sono Nanni Moretti. Perché essere è apparire. Insomma, un bellissimo romanzo sul doppio, una tragicommedia culturale con un delitto frivolo senza il peso di un castigo, un Dostoevskij che ha incontrato Woody Allen.

Massimiliano Parente per “il Giornale” 22.3.2017

 

 

 

 

Nonno Nanni

Nonno Nanni

Moretti Buy

Manifesto del film Mia madre con Moretti e Buy

Lo confesso: prima di oggi non avevo mai visto un film di Nanni Moretti. Forse qualche spezzone in tv, con colombelle rosse e caimani, lambrette come in Vacanze romane, battute su “esserci o non esserci” come mi si nota di più…. ecc. Perché l’uomo di film ne ha fatti, è prima o dopo, come in una malattia esantematica, doveva capitare pure a me di sorbirmene uno.  Ma la colpa è mia, me lo sono cercato l’abbiocco. Dell’ultimo film, in questi giorni in concorso al Festival di Cannes, dal titolo Mia madre, Tati Sanguineti, amico e collaboratore di Nonno Nanni, ci aveva dato il suo imbarazzato ma lapidario giudizio: è una schifezza, il peggiore di Nanni. Potevo tenermene alla larga. Poi leggo che, ohibò, il regista è testimone di tutti noi, “nel suo sofferto mettersi in discussione… nell’urgenza di testimonianza di autenticità… lui sempre sulle barricate (sia un altare o una macchina di presa) sferzante, irritato, irritante ed egocentrico”.( La Stampa).  Da Cannes giungevano, intanto,  notizie esaltanti di platee commosse e piangenti, di critici conquistati dal genio: un film profondo e sincero, un film sul cinema e sul rapporto tra realtà e finzione, un film che s’appresta ad essere un manifesto del nostro tempo complesso e problematico. La gauche au caviar fa il suo diuturno lavoro, come tarli nel legno. Loro, di manifesti se ne intendono e sanno come muovere la grancassa pubblicitaria. Non restava che andare.

Tatti Sanguineti

Tatti Sanguineti

La sceneggiatura non è il punto di forza del film: le due storie, quella della regista (Margherita Buy) sul set di un film operaistico, e della stessa  in quanto figlia al capezzale delle madre morente, non trovano punti di contatto, restano estranee e  scorrono parallele una all’altra; alle fine il set  sembra un pretesto per riempire una storia fragile che per reggere avrebbe avuto bisogno di una tempra drammatica che Nonno Nanni non ha. Anche i dialoghi non entusiasmano, specie sulla bocca di Giovanni- Moretti col suo periodare sentenzioso, anche quando si piega alle banalità quotidiane. Qualche timido tentativo di unire realtà e finzione ( evocare come ha fatto qualche critico lo spirito di Fellini è del tutto gratuito, non basta una carrellata davanti al Capranichetta) non riesce a dare maggiore ritmo e incisività all’azione che è troppo rarefatta e minimalista, anche quando dovrebbe non esserla. Né ci riesce la musica di Britten. Alla fine si rimane freddi e cortesemente annoiati. Quanto ai protagonisti: la prova di attore di Moretti è sobria, ma sottotono, anche se devo dire che, invecchiando, il suo sorriso si è fatto simpatico. La Margherita Buy, a disagio nei panni di regista, meglio come figlia, non riesce ad esprimere molto di più di quanto dicono i suoi occhioni mansueti. John Turturro, nel ruolo di un improbabile imprenditore italo-americano, è una macchietta napoletana con le sue intemperanze e amnesie assai improbabili: non conosce la parte, dimentica le battute e non fa che scompisciarsi sul set. Per la proverbiale professionalità attoriale americana è più di un insulto. Sarà per il solido mestiere che la sua prova rimane buona.

L'attore italo-americano John Turturro

L’attore italo-americano John Turturro

Alla fine l’impressione è che in Nonno Nanni le emozioni attraversano gli occhi, ma non vanno al cuore. Questo per un regista è un affare serio.  Esse di annidano nel cervello di Nonno Nanni, dove sbiadiscono e si appesantiscono di significati allegorici, didascalici e pedagogici. Questo è Mia madre: la storia comune di un lutto cui segue una crisi solo annunciata, ma che rimane anch’essa sulla piatta banalità esistenziale.

Contact Us