LA FAMIGLIA MOZART IN TRASFERTA

LA FAMIGLIA MOZART IN TRASFERTA

Il Saggiatore pubblica le lettere di Leopold e Wolfgang durante il Grand Tour che li portò in Europa: dal caro vita a Parigi, alle navi sul Tamigi, alla commozione dell’imperatrice Maria Teresa per il giovane talento.

 

Leopold Mozart (Augusta, 1719 – Salisburgo, 1787), violinista, compositore e didatta, è stato il padre di Wolfgang Amadeus Mozart. Wolfgang Amadeus Mozart è nato a Salisburgo nel 1756 e morto a Vienna nel 1791.

In viaggio con papà, Nannerl e Wolfangerl ci andarono molto presto. A nemmeno undici anni lei, a sei lui. E che viaggi! Monaco, la corte di rango più vicina a Salisburgo, Vienna, e poi l’Europa: Germania, Paesi Bassi, Parigi, Londra e ancora Vienna. E naturalmente l’Italia, per tre volte. Ce li racconta la voce stessa del geniale tour operator di quella formidabile esperienza, il padre di questi miracoli della natura, Leopold Mozart, verso il quale il nostro debito di riconoscenza per la formazione eccezionale impartita a tanto figlio non sarà mai estinto. Con buona pace di Milos Forman e del ritratto poco lusinghiero che ce ne ha dato l’indimenticabile Amadeus. «Uomo di spirito, fino, e di mondo; e che credo sappia ben il fatto suo sì nella musica, come in altre cose», lo giudicò Johann Adolf Hasse, incontrandolo in uno di quei viaggi, a Venezia nel 1769. Con gli occhi di Mozart padre, attraverso le sue convinzioni su scienza e religione e l’antipatia per la cultura e la società francesi, ci si para davanti l’itinerario meraviglioso del grand tour intrapreso dalla famiglia Mozart il 9 giugno 1763, al centro di queste lettere, comprese tra l’ottobre 1762 e l’inizio del 1769, tra i sei e tredici anni di Wolfgang. Lo spirito d’osservazione del padre illumina l’infanzia del genio, la contestualizza tra viaggi scomodi, problemi economici e di salute, accompagna il prodigioso sviluppo del talento aggiornandoci sul progetto promozionale dei due ragazzi («abbiamo seminato bene, adesso speriamo in un buon raccolto»), in un confronto, spesso impietoso, tra la brulicante scena internazionale e la provinciale Salisburgo, non ancora sede cosmopolita di un Festival che ha “appena” un secolo.

Due uomini in carrozza, una mattina d’inverno. Sono padre e  figlio, hanno cinquanta e quattordici anni. Leopold Mozart, musicista colto e di talento, ha deciso che è venuto il momento di andare in Italia, di esporre il giovane Wolfgang alla musica, alla cultura, alla vita teatrale del paese che detiene il formidabile segreto della «bella melodia» e della «bella voce». Ci torneranno per tre volte, fra 1769 e il 1773, suoneranno in tutta la penisola e Wolfgang comporrà due opere e una serenata –Mitridatere di PontoLucio Silla e Ascanio in Alba–per il Regio Ducal Teatro di Milano; ogni volta rientreranno a Salisburgo con i bagagli carichi di souvenir. Soprattutto, rientreranno dopo aver incontrato papi e sovrani, visitato chiese, scavi archeologici, conventi e regge, dormito in locande malfamate e «bei palazzi», assaggiato le angurie a Napoli e partecipato ai balli in maschera a Venezia, comprato abiti di stoffe pregiate e incisioni suggestive, ascoltato opere e concerti alla ricerca del segreto della «bella maniera». Dalla presentazione del libro del Saggiatore

Quanto descritto è proposto dal primo dei quattro volumi di Lettere della famiglia Mozart, di cui il Saggiatore ha già pubblicato nel 2019 il secondo, dedicato ai viaggi italiani. Scopo dell’operazione è restituire il peso di incontri ed esperienze in una biografia mozartiana che, ricorda l’artefice primo dell’impresa, il musicologo canadese Cliff Eisen, un’autorità della musicologia internazionale, non vive esclusivamente di musica come voleva la mitografia ottocentesca. Tradotte dal tandem collaudato Elli Stern e Patrizia Rebulla, le lettere sono magnificamente calate in un contesto che ne illumina da ogni lato i contenuti grazie al costante riferimento alle più disparate fonti coeve, rese disponibili da un apparato di note sintetiche che puntualizzano luoghi e personaggi, sciolgono abbreviazioni di ricette, correggono imprecisioni di Leopold, mettono a disposizione gli annunci originali della stampa coeva, emendano le lettere edite da Nissen nella prima biografia mozartiana. Completato da un monumentale glossario e dall’indice dei titoli mozartiani, il volume vanta un apparato iconografico ricco, bello e curioso, perfettamente consonante con quanto le lettere raccontano. Da fine marzo sarà disponibile anche un archivio multimediale.

Lettera scritta da Mozart nel 1777, sulla quale il compositore ha attaccato una sua ciocca di capelli. E’ conservata a Salisburgo nel museo Mozart
Il figlio più giovane di Mozart, Franz Xaver Wolfgang, ringrazia Doell (Carl Wilhelm Doell, ndr) per avergli inviato un medaglione con una raffigurazione di suo padre, aggiungendo: “Sulla base della mia esperienza personale non posso purtroppo giudicare quanto sia buona la somiglianza poiché non avevo ancora cinque mesi quando mio padre morì, ma le incisioni su lastra di rame esistenti mi fanno pensare che tu l’abbia catturato molto bene”. La lettera è conservata al museo di Salisburgo

«Accadono un sacco di cose che vorrei raccontarle, ma dovrei scrivere per giorni interi», chiosa il grafomane Leopold al suo principale corrispondente, il proprietario della casa di Salisburgo, Lorenz Hagenauer. Ma quanto scrive è più che sufficiente per entrare nel ménage della famiglia Mozart in trasferta. Ci passano davanti gli splendidi scrittoi viennesi, i souvenir portati da un colonnello francese dall’India, gli stivali di Mannheim, le magnifiche strade francesi e la carissima vita parigina, le difficoltà con i diversi sistemi monetari, misure e prezzi del vino, le selve di alberi delle navi sul Tamigi, il viaggio sul Reno, la poesia del mercato notturno, temporali violenti ed eclissi di sole, il vaiolo a Vienna, l’esperienza d’incontrare gli inglesi nel loro contesto, il senso di precarietà della vita e la costante meraviglia per un tale figlio. Ma soprattutto tanta vita del genio in erba: «Dovrebbe vedere il Wolfg. in abito nero con cappello francese». E vorremmo vederlo anche noi. Così come ci pare di assistere per davvero alla scena commovente in cui l’imperatrice Maria Teresa, che ha appena perso una figlia adolescente, «aveva più volte preso per mano il mio Woferl conducendolo nella sua stanza». Non stupisce che molti anni dopo, ormai nella piena gioventù, l’antico bambino prodigio esprimesse questa convinzione: «Senza viaggiare, almeno per chi si occupa di arti e scienze, si è individui ben pietosi […] una persona di talento mediocre resta sempre mediocre, che possa viaggiare o meno; ma una persona di talento superiore, qual io stesso senza voler mancar di rispetto non posso negare di essere, si guasta se resta sempre nello stesso luogo».

Articolo di Raffaele Mellace per Il Sole 24 Ore

HO FATTO GOAL CON LA MUSICA

HO FATTO GOAL CON LA MUSICA

Parlare di arie celebri come fossero calci di rigore che il pubblico aspetta, di compositori amati e detestati e di improvvisi ripensamenti può essere istruttivo per capire il modo in cui un grande direttore fa musica.

Quanto c’è di naturale o studiato in un atteggiamento che dal podio irradia verso l’orchestra e la platea?

«Nulla nasce per caso – dice Daniele Gatti – e occorrono anni di studi, di filologia accanita, di intuizioni per dare un senso a uno spartito. Prenda Verdi, lo si confina nella tradizione più vieta; pochi sanno scorgere nella sua musica un rigore e una forza che su un altro piano solo Wagner seppe esprimere».

Gatti è un direttore relativamente giovane, una promessa realizzata. In questi giorni è impegnato nei corsi di direzione d’orchestra all’accademia chigiana. Ci incontriamo a Roma, su una terrazza dove sullo sfondo è visibile Villa Medici.

Che rapporto ha con Roma?

«La città mi piace, e mi sono trovato benissimo nel triennio della mia direzione al teatro dell’Opera di Roma. Il mio contratto scadrà alla fine di quest’anno. Dalla primavera del prossimo dirigerò il Maggio Musicale Fiorentino. Altra sfida, altra città».

Daniele Gatti, attuale direttore del Teatro dell’Opera di Roma (2019-2021)

Un direttore d’orchestra ha radici?

«Le ha per quel tanto che riesce a godere dei propri affetti privati. Il resto è nomadismo, mutazioni veloci, trasferimenti. Qualcosa che somiglia a una solitudine, anche se affollata di gente».

Dove è nato?

«A Milano, famiglia modesta, padre bancario, madre segretaria. La fortuna ha voluto che amassero visceralmente la musica. Mio padre tentò perfino l’avventura della lirica. Subito dopo la guerra aveva studiato canto con il tenore Aureliano Pèrtile ma poi prevalsero le urgenze familiari. Gli restò una passione che mi trasmise. Molte sere in cucina ascoltavamo musica alla radio e, se il brano mi piaceva, il giorno dopo comprava il disco. E lo riascoltavamo con più attenzione. È stato il primo apprendistato».

Poteva anche essere l’ultimo.

«La vita di un bambino di otto anni è un mistero. Ricca di potenzialità ma a volte povera di occasioni. Ho avuto la determinazione fin da subito di sapere che cosa volevo. Ma quello che non sapevo era se possedessi il talento per dare una forma a tutto questo».

Come lo scoprì?

«C’era un pianoforte in casa e cominciai a suonarlo a orecchio. Papà mi portò in conservatorio. Feci un esame di audizione e venni preso. Avevo ormai 11 anni».

Da quell’età sono trascorsi circa cinquant’anni. Come vede e giudica il bambino di allora?

«Con una certa indulgenza».

Perché indulgenza?

«La verità è che non sapevo cosa davvero mi piacesse. Grande amore per la musica e un’eguale passione per il calcio. Ero sempre a giocare. Correre, sudare e gridare in un campetto delle periferia milanese. Tutti i pomeriggi fino a sera inoltrata. Presi a ignorare il pianoforte. Trascuravo l’altra metà di me. Così avanti fino ai 14 anni».

E poi?

«Mi dissi: sfondare come attaccante mi pare improbabile. Potrei fare gol come direttore d’orchestra. Mi iscrissi, a insaputa dei miei, a composizione, riducendo drasticamente l’impegno per il calcio».

Un direttore d’orchestra ha dei miti?

«Tutti li hanno. Anche chi prova a rimuoverli e a dimenticarli».

I suoi?

«Quelli che passavano alla Scala e andavo ad ascoltare: Abbado, Maazel, Muti. E poi Giulini e Barenboim. Ho visto dal vivo una sola volta Karajan, ma è stato sufficiente per capire cosa fosse la grandezza».

L’Italia è verdiana?

«È il compositore di riferimento, lo dico con tutto il rispetto per Bellini, Rossini, Donizetti».

Non c’è troppa enfasi patriottica?

«C’è, ma solo perché viene costantemente frainteso».

In che modo?

«Si spinge sul pedale della tradizione e lo si fa in modo pigro. Per cui, in nome della cosiddetta “tradizione”, alcune interpretazioni diventano intoccabili. La verità è che dietro certa ovvietà stilistica bisognerebbe ricercare la complessità dell’artista. Comprendere le ragioni di certe partiture».

Cosa intende?

«Va compreso perché Verdi scrivesse certe cose. Spesso nelle sue opere c’è un atto di accusa verso la società in cui vive. Porta in scena la miseria umana. Non è sociologia la sua. Ma un modo di stare dentro la musica. Se ascoltiamo distrattamente la storia di Violetta nella Traviata, sappiamo già in anticipo come verrà cantata. Questa è la pigrizia di certe ricezioni. Dietro il mondo di Violetta si muovono le forze oscure dell’economia, del denaro, di chi è privilegiato e chi no. Il comportamento di Violetta, la sua maniera di amare, sono considerati un pericolo per la famiglia ottocentesca. Questo ci racconta Verdi e ce lo dice in musica, non con le parole!».

Ma quella musica ognuno la interpreta con la propria sensibilità.

«Ogni grande interprete si sforza per arrivare a una qualche forma di verità. Ricerca un assoluto che non si può afferrare totalmente, ma sfiorarlo è possibile.

Questa storia dell’“assoluto” piaceva ai romantici. Piace a tutti e sa perché? Perché l’assoluto è il solo linguaggio che dà forma alla musica. Anche Schönberg o Shostakovitch cercavano il loro bravo assoluto, mica solo Beethoven».

Non crede che la musica sia spesso ricca di fraintendimenti?

«Cosa intende con fraintendimento?».

Alla fine tutto è interpretabile. Lei legge la “Traviata” in un modo, Muti in un altro e alla fine la partitura ci offre numerose opzioni.

«Per questo esiste lo studio. Fraintendere è umano. Occorre capire se si fraintende in buona o cattiva fede. È chiaro che se l’obiettivo è solo quello di trovare o consolidare un successo, si punterà agli effetti eclatanti, fregandosene di quello che il compositore voleva. Ma c’è anche un altro modo di fraintendere».

Quale?

«Non l’errore o l’interpretazione approssimativa che pure ci può stare, ma il lasciarsi andare al flusso della musica. Sarà essa a condurci da qualche parte. Il fraintendimento è allora toccare vertici che neppure immaginavamo. La musica è grande quando rivela la forza in grado di generare se stessa».

È questo che aspetta un direttore?

«È un attendere che la grazia si compia. Ma è raro che accada».

Conta il merito?

«Conta la libera disposizione della propria anima, a ricevere qualcosa di imprevisto».

Che posto occupa il corpo?

«Intende quello fisico?».

Sì.

«Fa parte della sintassi o meglio dello spazio musicale. Certe volte, quando alcuni passaggi sono particolarmente complicati da trasmettere all’orchestra, è il corpo a guidare il flusso musicale».

Siamo abituati a vedere corpi direttoriali tarantolati e altri al limite dell’immobilità. Perché tante variazioni?

«Ognuno ha una propria postura. Ma il movimento di un corpo sul podio non è un esercizio ginnico. Quando dirigo, non posso fermare l’orchestra e dirle in quale direzione andare. Ho solo un rapporto uditivo e visivo. Il mio corpo “parla” ad essa, dice cosa fare. In quel momento si realizza una sintonia che non era prevista e che fa compiere un salto alla musica».

È la ragione per cui certe esecuzioni sono considerate memorabili?

«Direi di sì. A me è accaduto di “forzare” senza volerlo i confini di un’interpretazione. In che modo non lo so. Ma ci sono state delle improvvise illuminazioni che non avevo previsto. Quando parlavo di verità è a questo che pensavo, al fatto che un’esecuzione non è mai definitiva. Ma i dubbi, alla fine, si sciolgono sulla scena».

Claudio Abbado

A proposito di Claudio Abbado, ecco cosa dice Gatti: «La malattia degli ultimi anni ha trasfigurato il suo modo di avvicinarsi alla musica. Ha reso il suo gesto più essenziale, più astratto e insieme più libero e credo lo abbia avvicinato alla dimensione spirituale e misteriosa della musica…L’ho sempre considerato il mio maestro aggiunto. Gli sarò sempre grato”

Parlava prima del talento. Come lo definirebbe?

«Una predisposizione che molti hanno nella vita, ma pochi sono in grado di manifestare. Poi ci sono talenti più incompresi di altri e finti talenti di cui si capisce presto il bluff. In ogni caso il talento è una pianta che va nutrita. Bisogna guardarsi da quelle esplosioni giovanili che come fiumi in piena tutto travolgono. Alla fine resta ben poco. Per questo costruire buoni argini permetterà al fiume di scorrere bene. Il talento è il contrario del caos».

Nel suo repertorio c’è molto Verdi e poco Mozart.

«L’ho diretto, anche perché adoro il teatro di musica. Ma è vero che l’ho fatto senza costanza. Sono più incline a Wagner e Verdi».

Li si è spesso visti in opposizione.

«È vero, ma entrambi mirano allo stesso scopo. Di solito si definisce Verdi un compositore di arie; in realtà è un musicista della totalità come lo è Wagner. La loro diversità è dettata dalle differenti origini del teatro. Quello italiano è molto più frammentato di quello tedesco. Poi è chiaro che le visioni di fondo si scostano».

Come?

«Wagner racconta il dionisiaco, il sovrumano, tutto ciò che è titanico; Verdi no, lui ci parla delle miserie umane. Verdi asciuga il dramma fino a tentare di spiegare caparbiamente perché qualcosa accade. Wagner dilata il dramma per liberarlo dalle incrostazioni quotidiane».

Come sceglie un compositore?

«Ci sono molti modi per accostarsi a un autore e a una partitura. Così come ci sono degli ostacoli. Per esempio non riesco a dirigere Rachmaninov. Faccio fatica a entrare nel suo mondo, anche se so che è un gradissimo compositore»

È una rinuncia definitiva?

«Non c’è mai niente di definitivo. Ricordo che quando diressi l’Ouverture del Carnevale romano, giurai a me stesso che mai più avrei eseguito Berlioz. Poi accadde che nel 2008 mi fu proposto di eseguirlo a Parigi. Ero incerto. Alla fine, per dovere istituzionale, accettai. Venivo da alcune fresche letture di storia francese. E fu quella la chiave. La sua musica attraversa tutte le tensioni dell’epoca. Bastava coglierle nella partitura. Eseguii il Romeo e Giulietta mettendo tra parentesi tutte le altre esecuzioni. Fu come trovarmi di fronte a un territorio sconosciuto da esplorare. La sorpresa fu enorme».

Che cosa era cambiato nel suo atteggiamento?

«L’aver visto Berlioz come l’ultimo grande compositore che si misura con Beethoven e non come il musicista che apre la strada a Brahms. Quello che non avevo fini lì capito è che Berlioz non è un normalizzatore».

Ama i compositori di rottura?

«Non c’è dubbio che li preferisco. Ma ho imparato ad amare l’imprevedibile che si nasconde nel prevedibile».

Vale anche per i rapporti che ha con le orchestre che dirige?

«Tirare fuori il meglio da un’orchestra è quello che ogni buon direttore si propone. Ma perché questo accada occorre che ci sia rispetto reciproco che si ottiene non attraverso le compiacenze, ma con la competenza. Il direttore è una figura solitaria. Il suo ruolo viene messo alla prova da quello che fa, non da ciò che dice».

Fuori dal mondo musicale com’è la sua vita?

«Normalissima, vivo a Milano, ho una compagna, amo le macchine e il jazz. Il massimo della distensione è affrontare lunghi viaggi in cui guido e ascolto jazz».

Altra musica?

«Da bambino Sanremo era un obbligo. Ma quella musica non fa più parte del mio quotidiano. Mi piace Pino Daniele».

Bob Dylan?

«Preferisco i Genesis. Il mio è un ascolto armonico, non sono un melodista».

A proposito di calcio è più facile affrontare una partita o una partitura?

«Si possono sbagliare entrambe nel modo di affrontarle. Ci sono direttori che aspettano l’aria di un’opera come fosse il momento dei “calci di rigore”, con il pubblico che esplode davanti all’acuto. È il prevedibile che non diverrà mai imprevedibile».

Ha visto gli europei di calcio?

«Sì, in quel caso viva i calci di rigore!».

Intervista di Antonio Gnoli, ROBINSON Corriere sera

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