CUBO DELLA SALVEZZA

CUBO DELLA SALVEZZA

Nella periferia orientale di Napoli c’è un luogo dedicato alla cura, alla bellezza e al sogno. Una scuola abbandonata fatta rivivere da chi non si arrende alla criminalità e alla miseria. I Maestri di strada, la pandemia e il nostro futuro

La struttura è stata aperta dai Maestri di strada e intitolata a Ciro Colonna, il ragazzo freddato per sbaglio nel circolo ricreativo di Ponticelli (foto Maestri di strada)

Il Cubo, acronimo un po’ sbilenco di Cura Bellezza Sogno, è a pochi chilometri da San Giorgio a Cremano, il paese di Massimo Troisi. E’ una struttura aperta dai Maestri di strada e intitolata a Ciro Colonna, il ragazzo freddato per sbaglio nel circolo ricreativo di Ponticelli dove Anna De Luca Bossa, regina di un clan di camorra condannata quest’anno all’ergastolo, aveva spedito i suoi sicari a sparare a un rivale. Siamo nella periferia est di Napoli, dove quasi tutto è fuori legge: l’edificio scolastico c’è ma non ci sono i documenti su come è stato costruito, la discarica è illegale, la cabina dell’energia elettrica ha la porta sfondata e i fili scoperti e sono abusivi parecchi inquilini.

Al Cubo si arriva in venti minuti dal centro con la famigerata ferrovia Vesuviana. A pensarci il Nulla o il Buco, come lo chiamano i ragazzi, è quasi dietro l’angolo: chi, come me, viene da Roma sa bene che in un giorno di pioggia la distanza temporale di Tor Bella Monaca diventa infinita. Nella galleria umida della stazione Bartolo Longo, a dare il benvenuto, spunta una creatura affabile e sarcastica: è il graffito di un topo gigante non so decidere se seduto su un libro o su una fetta di formaggio. Fuori, sotto un cielo bianco di foschia, ho attraversato un crocevia deserto bordato di sterpi e sacchi d’immondizia gettati dalle auto. Poco più in là, c’è un grande caseggiato recintato e sorvegliato come una fortezza.

Municipio di San Giorgio a Cremano

Il Cubo è dietro la fortezza: era una scuola abbandonata, quattromila metri quadrati fatiscenti svuotati dall’inverno demografico, ma ci sono un giardino, un anfiteatro, un portico. Il comune ha affittato l’intera struttura a basso costo ai Maestri di strada e loro hanno aperto un cantiere per ristrutturarla e rimetterla a posto ( servono lavori per quasi un milione di euro). L’andirivieni di imbianchini, fabbri, piastrellisti, muratori volontari e no, non è un gioco ma può anche sembrarlo. Fa parte del processo educativo, prima lezione: recuperare quello che c’è e, se vuoi stare in uno spazio, devi prendertene cura. Così cantiere edile e centro per l’innovazione sociale convivono, sono compagni di strada a volte affiatati e a volte litigiosi.

Il Cubo è rimasto sempre aperto. Lo è stato durante il lockdown e lo sarà anche in questa lunga estate afosa di Caporetto dell’istruzione. Con le scuole chiuse i Maestri di strada hanno seguito i ragazzi di 220 famiglie, il triplo di quello che facevano prima. Fuori ci sono i pulmini che hanno funzionato come ambulanze per “il pronto soccorso pedagogico” in zona rossa, talvolta scortati dalle forze dell’ordine. Il progetto detto i Coronauti è stato finanziato con 200 mila euro di soldi pubblici per distribuire libri, quaderni, tablet e interventi a domicilio sotto casa: una Dad fatta di incontri distanziati del primo (via cellulare), del secondo (via zoom) e del terzo tipo (per strada). Ma il problema più consistente non sono stati la mancanza di tablet e di connessione quanto le case: ragazzi in pigiama da mattina a sera, chiusi in stanze affollate a contendersi nel marasma lo strumento per la Dad.

Il cantiere del Cubo, con le sue 25 aule vuote, è servito anche come appoggio scolastico con rispetto di distanze per chi a casa non poteva proprio stare. Nell’emergenza, la Dad avrebbe potuto produrre innovazione didattica, capacità di sperimentare altri linguaggi e di comunicare con strumenti nuovi. In qualche caso lo ha anche fatto, la rete è piena di manufatti della Dad. Ma perlopiù ha distribuito alla meglio quello che c’era prima: lezioni frontali sconnesse svuotate della sostanza umana di qualsiasi apprendimento, la relazione.

“Anche una classe gonfia di conflitti è un luogo di relazione, nutre l’apprendimento”, dice Cesare Moreno, il presidente dei Maestri di strada. “Le buone relazioni a scuola sono il fondamento della buona istruzione. Le nozioni mancanti, la privazione cognitiva, si possono recuperare, il vuoto relazionale no. Ora che se ne sono accorti tutti speriamo che serva a rientrare in classe in modo consapevole”. E, mentre si litiga sull’obbligo vaccinale per tornare a scuola, viene spontaneo chiedere: ma ce la faremo a recuperare con i 30 alunni per classe di prima, ragazzi di cui a malapena l’insegnante riesce a imparare i nomi prima della fine dell’anno? Moreno rovescia provocatoriamente la domanda: “Gli insegnanti non mancano, sono utilizzati male. Conosco una scuola con 180 docenti e 240 insegnanti di sostegno: una frammentazione balcanica, praticamente ogni ragazzo ha il suo ‘ sindacalista’. Come può funzionare una classe in un contesto simile? Non sono quelle le condizioni per creare una comunità educativa dove si cresce insieme e non contro gli altri”.

Cesare Moreno, maestro di strada

La classe come configurazione sociale dell’apprendimento è il pallino di Cesare Moreno: “L’attività didattica è basata sulla relazione, se non c’è quella, con i suoi momenti di osservazione e di ascolto, nulla può funzionare. Una volta avevo in classe due ragazzini sordomuti che picchiavano tutti. Li ho inseriti in una terza elementare e con gli altri ragazzi abbiamo cominciato a inventare storie raccontate a gesti per coinvolgere anche loro. Dopo un po’ hanno smesso di essere violenti, quello era l’unico modo con cui sapevano comunicare; gli altri ragazzi l’hanno capito e hanno concluso: ora non picchiano perché parlano a gesti”.

Al Cubo sono capitata alla vigilia della parata estiva per le vie di Ponticelli e ho conosciuto una mamma sociale impegnata a fare la sarta. Cuciva l’abito della Grande Madre, costruita come altre fantasiose macchine con materiali di recupero. La figura da vestire era appoggiata a una parete: alta e snella, con la vita di vespa, i seni ben disegnati e i capelli di trucioli di legno biondo. Non la solita signora chiatta, primitiva e generosa dell’immaginario mediterraneo. “La vogliamo bellissima, una madre giovane”, stava dicendo Maria mentre tagliava striscioline di organza. Senza staccare gli occhi dal lavoro, si è messa a raccontare del suo bambino, promosso in seconda elementare con 35 giorni di scuola in presenza. In Campania anche i bambini piccoli si sono beccati la Dad e le elementari sono rimaste più a lungo chiuse. Maria si è accorta presto che suo figlio non aveva imparato a distinguere consonanti e vocali, che nessuno controllava i compiti, che non poteva farcela a imparare a leggere. Al Cubo ha trovato un metodo per aiutarlo, è venuta a imparare lei e a giugno il bambino sapeva scrivere sotto dettatura e in matematica “era diventato un genietto”.

Il Cubo non è assistenza creativa, ha un’ambizione smisurata: riparare il tessuto sociale e produrre eccellenza dove tutti vedono solo abbandono, criminalità, miseria. I ragazzi lo hanno detto componendo il e facendo così lezioni di metrica, di matematica e di musica. E poi hanno prodotto un documentario, nato da un’idea di Filomena Carrillo e con la regia di Flavio Ricci, presentato in giugno all’Ischia film festival. E’ intitolato questo è, così vanno le cose. Voi vedete tutto brutto e cattivo, noi no. Se qui sei nato qui devi trovare energia, forza e bellezza per uscire dal Buco. Come dice Woody Allen, puoi portare il ragazzo fuori dal ghetto, ma non puoi portare il ghetto fuori dal ragazzo. Loro lo sanno e imparano a utilizzare quello che c’è, a tradurre l’esperienza in linguaggio, forme, musica, immagini. E’ uno dei risultati del progetto educativo dei Coronauti, la ciurma salpata come Giasone e gli Argonauti alla ricerca di un rimedio per fronteggiare la peste.

E la peste, nelle aree di maggior disagio, ha cacciato da scuola un adolescente su tre. Anni e anni di lavoro per recuperare la dispersione scolastica nella media dell’obbligo e ora si precipita indietro. Ma qualcuno crede ancora nell’istruzione come possibilità per cambiare la propria condizione? “L’ascensore sociale è scassato da tempo. Del resto è un’ immagine obsoleta, che parla di una società rigida dove pochi possono salire da un piano all’altro, ma l’edificio resta immutabile. I bravi studenti cresciuti in ambienti deprivati, quelli a cui la scuola può ancora cambiare copione di vita, invece ci sono – risponde Cesare Moreno – e sono molto consapevoli. Quelli, in una situazione come questa, restano fregati. I ragazzi che hanno interiorizzato di non valere niente, quelli che sanno già dalle famiglie che non ce la faranno mai, odiano la scuola perché peggiora la loro vita, gliela rende più difficile. Ma per quelli che ancora ci credono, per quel tre per cento che pensa di uscire dal Buco con l’istruzione, per loro, quello che è successo è una vera tragedia”. Dove la scuola è l’ultimo argine, la crepa che si è aperta è una ferita infetta da curare subito, comporta un rischio sociale elevato.

Il Cubo ha i suoi campioni, io ho conosciuto Arianna, una ragazza vivace, morbida e riccia, che sta concludendo il triennio all’università con la laurea in Psicologia. Arianna a scuola era bravissima già da piccola, una capacità di apprendimento e una passione per gli studi fuori dal comune. Ma affermarla, puntare caparbiamente sull’istruzione, è stato tutt’altro che facile, certo non quello che potrebbe essere: un percorso protetto. Il bravo studente che viene da un ambiente deprivato porta la corona di spine, deve combattere per mantenere l’autostima: “Mai dite a un ragazzino: sei figlio di un criminale e qui devi restare perché questo è il tuo posto. Qui nella stessa classe si trovano il figlio dello spacciatore e del carabiniere”, racconta Arianna. “La scuola dovrebbe promuovere pacificazione, non odio. A me, che avevo un fratello in carcere, dicevano che mai ce l’avrei fatta, che tutt’al più dovevo andare a studiare all’alberghiero”.

San Giovanni a Teduccio, murale di Jorit

E qui spunta il profilo dell’insegnante che ti condanna a restare nel Buco. Ma non è anche questa un’immagine obsoleta? Leggiamo di docenti aggrediti dai genitori o disprezzati dai ragazzi, spogliati di qualunque autorità… “A San Giovanni a Teduccio ho avuto alunni figli di criminali in servizio effettivo”, racconta Cesare Moreno. “La madre di uno di loro , un ragazzino di 11 anni che disertava la scuola, si mordeva il dito e faceva ancora pipì a letto, diceva in giro che io picchiavo i ragazzi. Andai dal giudice a denunciami perché si aprisse un’inchiesta e, davanti al magistrato, la signora non confermò le accuse. Quindi conosco il problema e so che docenti e genitori hanno punti di vista diversi. Ma so anche di studenti dotati che non ce la fanno a sopportare il disprezzo dei loro insegnanti perché sono brutti sporchi e cattivi. Ho in mente una ragazza che si sentiva dallo sguardo della sua prof… L’insegnante che qui infligge il suo disprezzo è lo stesso che al Vomero lo subisce da genitori più titolati di lui. O le dai o le prendi: è il modello che è sbagliato, una relazione patogena”.

La scuola è un avamposto e gli insegnanti sopportano tensioni enormi, soprattutto dove il tessuto sociale è lacerato. Sono figure di cerniera: attraverso i ragazzi entrano in contatto con mondi carichi di aggressività. Sono capaci di governarla? “In classe si gioca una partita doppia: una riguarda i contenuti, l’altra le regole”, aggiunge Cesare Moreno. “La tendenza è considerare separatamente le due partite: al docente la comunicazione dei contenuti, allo studente il compito di presentarsi preparato e rispettare le regole. Ma poi succede che i ragazzi, per segnalare le loro difficoltà, rompono le regole e mettono a nudo le emozioni del momento, lasciando il docente in seria difficoltà. Gli insegnanti non sono preparati a comprendere e a fronteggiare questo scenario: per farlo, ci vuole formazione, una formazione permanente”.

Sic est. Buon nuovo inizio, sarà durissimo far ripartire la scuola, però è il campionato da vincere. Da queste parti, per ricominciare in sicurezza e con una didattica efficace, una delle scommesse è mettere in rete tutto quello che c’è: allargare spazi e collaborazioni. I Maestri di strada offrono alle diciotto scuole della periferia orientale di Napoli venticinque nuove aule e le competenze di 50 educatori. Riusciranno a condividerle? Il paradosso, a volte, è che accettare doni è più difficile che farli.

Annamaria Guadagni, il Foglio Quotidiano

In copertina: murale di Jorit a Scampia raffigurante P.P. Pasolini

A NAPOLI, COMUNQUE, SI RIDE

A NAPOLI, COMUNQUE, SI RIDE

 È bella, è bionda, e dice: «De Magistris dovrebbe passare bendato in mezzo ai cavalli di piazza Plebiscito». È un gioco che fanno cittadini e turisti. Ma pare che percorrere i 170 metri che passano tra la porta d’ingresso del Palazzo Reale e le statue equestri e passarci in mezzo non sia riuscito a nessuno, e forse è colpa di una maledizione che risale alla Regina Margherita. Chissà De Magistris, che qui molti chiamano «Màgistris», proparossitono e senza ”de”. Lei, Ludovica è tornata a Napoli dopo sei anni di Barcellona. Ha 26 anni, è del Vomero, fa l’odontotecnica, e dice: «Pensavo di non voler tornare, e invece sto benissimo».

Piazzetta Nilo

Anch’io mi trovo benissimo. Avevo lasciato Napoli, anni fa, come una città difficile, c’era il rischio che a Piazzetta Nilo ti prendessero il cellulare, c’era da tenere un livello di attenzione alto, dal Vomero ai Quartieri. Ricordo una sparatoria dietro Piazza Dante: ci dovemmo sdraiare in mezzo alle macchine parcheggiate. La stazione. Appena sceso dal treno, sul marciapiede accanto al binario, c’era una pozza di sangue. Diametro, circa, un metro.

E ora si sorride un po’ tutti come scemi, tra Santa Chiara e Spaccanapoli. È sabato e davanti alla pizzeria Sorbillo (si parlava di una cessione ai giapponesi per una cifra enorme, ma la notizia è stata smentita) in via dei Tribunali non si cammina: si sta come sargassi, trascinati dalla corrente impercettibile. Compressi tra padri affannati, bimbi smovicoli, mamme assai tridimensionali con phard, schatoush, scialline leopardate, cellulari puntati (ma verso che?).

Spaccanapoli da via Croce a via Giudecca Vecchia. (by Tomaso Lizzul)

Meglio svoltare verso San Gregorio Armeno, che si preannuncia ancora peggio, ma poi no. Si finisce a comprare statuine del Presepe da Capuano. La crew familiare sta pranzando, gran piatti di maccheroncini al sugo in teglie d’alluminio leggere. Si esce con quattro statuine: Sacra Famiglia e Benino (il pastore addormentato che sogna il presepe, messa in scena della messa in scena) e in mano un pezzo di pane caldo cafone, con un filo d’olio gentile, omaggio della ditta.

Palazzo Reale e piazza Plebiscito

La metro è una discesa nell’Ade. Scale mobili su scale mobili, si scendono mille piani e il cellulare non prende più, e ogni stazione è diversa. Il grigio di Garibaldi, il beige di Municipio, Pistoletto, Gae Aulenti, Giulio Paolini, ecc. Tempi di attesa per i convogli: lunghi. Nessuno si lamenta, qualcuno fa conversazione, qualcuno gioca coi bimbi in culla. All’uscita Vanvitelli (Vomero) arrivano i poliziotti col metal detector. Bloccano un gruppo di adolescenti urlanti e cantanti, lasciano andare il sottoscritto che non vede l’ora di essere perquisito, e che ha un coltello nello zaino, ma se ne ricorda dopo. Sarà l’età, la triade giacca/cappotto/cappello. Non c’è giustizia al mondo. A Napoli, comunque, si ride.

Pizzeria Sorbillo

Al momento, nel carosello campanilista tra Milano l’attraente, Roma la decadente, Venezia sommersa e graffiata dalle navi, emerge l’atmosfera napoletana. Ma soprattutto il dinamismo. I numeri parlano chiaro: nello sfacelo economico, specialmente dell’agricoltura, del Sud, e con crescita zero in Campania, Napoli è un’isola felice. Secondo la Camera di commercio tra il 2017 e il 2018 il turismo è salito del 3, 2 per cento, i servizi alle imprese del 3, 7 per cento. Ma parlando di turismo colpiscono soprattutto i dati dei musei e dei siti archeologici: dal 2011 al 2017 Pompei ha fatto un milione di visitatori in più (siamo a quasi quattro milioni), il Museo archeologico è passato da 288 mila a più di 500 mila.

Complessivamente, dal 2010 al 2018 i visitatori sono aumentati del 108 per cento secondo Confesercenti. Fantasmagorico. Mettiamoci anche i voli diretti da Capodichino a New York, che uniscono le due città che hanno lo stesso nome. Per molti la faccenda si spiega con il declino di altre tradizionali mete turistiche del Mediterraneo, travolte da instabilità politica, dalla Turchia all’Egitto, fatto sta che spesso si tratta di turismo di lusso, attirato da un’offerta culturale altissima. Ma resta l’impressione che, anche qui, De Magistris, dovrebbe passare il mezzo alla piazza bendato, e forse ce la farebbe, tale la botta di fortuna che ha avuto.

Tra l’altro gli è capitato un assessore alla cultura e turismo coi controfiocchi: Nino Daniele, da poche settimane fatto fuori, dopo sei anni, a causa dell’ennesimo rimpasto della giunta. Siamo a 33 assessori cambiati. Daniele, vecchia scuola Pci, ma apprezzato a destra e a sinistra, ha inventato lui il festival Spinacorona, ha portato PIano City a Napoli, ha promosso teatro e cinema e ha fatto rinascere Napoli città libro.

Mostra Liù Rowang in piazza Municipio

Lo incontro in piazza Municipio, in mezzo all’Installazione da lui fortemente voluta di Liu Rowang. Lupi di ferro da duecento chili che si affollano minacciosi davanti a un samurai. L’inaugurazione è coincisa con il licenziamento di Daniele, che, nell’amarezza innegabile conserva l’appiombo e ordina un caffè in un bar in piazza. «Pensi che Napoli, al momento, è il set cinematografico più importante d’Italia – racconta – in cinque anni sono stati girati più di mille audiovisivi» da l’Amica Geniale, a Martin Eden, a I bastardi di Pizzofalcone all’ultimo documentario di Asif Kapadia sulla vita di Maradona, e poi spot, televisivi. Viene in mente anche quel capolavoro che è L’arte della felicità di Alessandro Rak, che se non è stato girato in città – trattandosi di un cartoon – ma è ambientato in una Napoli fradicia di pioggia e rimpianti. Per quanto riguarda Suburra, che dire se non che è la copia (venuta peggio) di Gomorra? E resta la sottile sensazione che, al momento, tutto quello che viene da Roma sia una Napoli un po’ cheap.

Quartiere Pennino

Alcuni vedono Daniele come candidato Dem in Campania alle prossime Regionali. Altri come prossimo candidato sindaco. Le elezioni comunali ci saranno nel 2021, e si nota eccome il presenzialismo napoletano di Roberto Fico, che ad ogni questione cittadina si scorda della presidenza della Camera e mette bocca sulla “sua” città. Bambini saltano sui leoni di ferro, ci vanno a cavalcioni. Daniele, politico navigato e colto, ottocentesco col baffo e col trench, non si scompone. Resta sulla cultura e fa notare semmai la «fortissima resistenza di Napoli a farsi colonizzare da altri immaginari». E siamo alla Napoli-Tribù di cui Parlava Pasolini, la “sacca storica” della città che resta “irripetibile, irriducibile, incorruttibile”.

Aggiungiamo al cinema la letteratura: oggi se in tutto il mondo si pensa a un libro italiano si pensa a Elena Ferrante. Misteriosa, o almeno venduta come misteriosa secondo La vita bugiarda degli adulti (o alla prassi bugiarda del marketing, fate voi). Ma napoletana. O a Roberto Saviano. Napoletano. O magari al vincitore dello Strega Antonio Scurati. Napoletano. E siamo sul piano del mainstream, tenendo fuori per pura contingenza Erri De Luca, altro campione di vendite. Ma si può uscire dal mainstream e entrare nell’avanguardia. E c’erano tutti al Madre, qualche giorno fa, a celebrare la mostra di Marcello Rumma, uno degli inventori dell’arte povera.

Ma sulla vivacità perenne, in grado di rileggere il popolare e le avanguardie storiche nella ripresa posthegeliana della “morte dell’arte” (Totò con le lenti asettico/trascendentali di Achille Bonito Oliva, ad esempio) è stato detto tutto.

Piazza Plebiscito

Come su Andy Warhol che, nel post terremoto, si presentò in città con un peperoncino rosso, scacciasfiga, attaccato alla montatura degli occhiali. Qui, senza andare indietro fino a Matilde Serao, è appena il caso di ricordare con un bacio sulla chioma candida il bel Luciano De Crescenzo da poco scomparso, e di precisare che la sua rilettura della filosofia greca e tutta dovuta a uno scrittore quasi dimenticato Giuseppe Marotta, ai suoi libri come Gli alunni del Sole. Di Marotta l’editore esclusivo De Piante, sta per pubblicare un racconto inedito. E tornando a oggi: se De Magistris sembra perfettamente estraneo alla deflagrazione culturale napoletana, Daniele ne sembra l’attento organizzatore, quasi l’eminenza grigia, almeno fino alla defenestrazione.

Mentre tutto attorno gli animal spirits del fare rappresentazione sono sempre all’opera. Dovremmo aver superato il pregiudizio “oleografico” per cui la tradizione diventava la noia di pizza-mandolino-mamma, e si mettevano in evidenza i geni “razionalisti” di Napoli, che pure ci sono, tanto è vero che Daniele ha organizzato una manifestazione sul concetto di felicità in Gaetano Filangieri, quasi una prefigurazione, duecento anni prima, delle più avanzate teorie della happiness economics. E aver superato anche l’idea di una Nuova Napoli, anni ’70, imbullonata di ideologia e cazzimma. Possiamo dire in tutta tranquillità che la metafora barocca è sempre attiva qui: il tribalismo napoletano passa attraverso una continua, totale, pervasiva, brulicante, cultura della rappresentazione. Vedi il caso dei Neomelodici. Anche quelli implicati con la Camorra? Certo, in una qualche misura.

Ma non troverete argomento della vita che non sia stato preso, messo in metrica, cantato e suonato da un neomelodico. E che non abbia il suo pubblico, e il suo mercato. La sorella dell’amico che provoca, l’amica della mamma che si mostra. Le tasse, i parcheggi. L’amor sacro del fratello per la sorella, della sorella per il fratello, del figlio per la mamma. L’obesità. Mi è capitato di sentire un brano in cui esplodeva un ritornello: “e finalmente si nesciut’ancinta/l’ha confermato pure l’ecografia”. Il carcere. E i messaggi più o meno subliminali con le dediche ai detenuti. Che differenza c’è tra un lamento di goduria di uno che si gratta la schiena su uno spigolo del quartiere Pendino, un canto a Fronna e’ limone, e un messaggio cifrato declamato su un beat infame? Qui siamo alla disperazione semantica di magistrati che vorrebbero abolire i messaggi “negativi” nelle rappresentazioni artistiche. L’argomento è lungo, ma, si rassegnino Gratteri e chi per lui: togliere il negativo dall’arte vuol dire togliere l’arte.

Napoli com’era

Qui, statene certi, è tutto impossibile da regolamentare: Napoli è un perenne esondare di rappresentazioni. Fin troppo facile notare, sempre a San Gregorio Armeno, le statue del presepe con Beppe Grillo giustamente imbolsito e “Higuain El Traditor”. Nulla si sottrae alla rimessa in forma. Anche tra i musicisti “in”. Funkster inarrivabili, jazzman maniacali. Tecnicamente mostruosi. Chiusi con il fuori e rissosi tra di loro. Stefano Simonetta, in arte Mujura, impeccabile bassista di Eugenio Bennato nonché cantautore in proprio ( in caso di botta di spleen ricordarsi la sua Efesto) riferisce di più di una jam session finita in rissa. Alle tre di notte, di fronte al Barcollando, al Vomero, un pianista al quinto gin tonic mi rimproverava: consideravo le tredicesime in maniera troppo enarmonica. Non si replica sull’enarmonia a un pianista rasato che ha fatto, pure, dieci anni di pugilato. Unico punto su cui tutti tengono il segreto: Liberato. Su di lui niente si può dire. Anche che abita in Francia nessuno lo dice (tranne quest’articolo). Per il resto impazzano i Nu Guinea. Sound anni 70 su parole vuote, per chi scrive insopportabili, il peggio della retromania di provincia (meglio i neomelodici senz’altro, per non parlare di Speranza). Ma è interessante l’iniziativa che ci sta sotto: il progetto Napoli Segreta, compilation rilasciata dalla Early Sounds e NG Records che raccoglie perle nascoste della discografia napoletana funk e disco. È in arrivo il secondo vinile, proprio in questi giorni. Lavoro di raccolta -saccheggio di mercatini e negozi di dischi- immenso, filologia rigorosa, risultati meravigliosi. Il corrispettivo più funk e quartaumentata dell’editore Riccardo Ricciardi di decenni fa.

Del resto questa è una città che dibatte sul fatto che Via Roma si possa o si debba chiamare via Toledo. Immaginiamo una discussione di pura toponomastica e filologia a Roma («aho ma stica»), o a Milano («Il Comune ha voluto così, eh»). E intanto, in via Sant’Eligio ho visto l’ultima sfregiata, e che sia l’ultima voglio presumerlo. Una signora alta quasi un metro e ottanta. Più di settanta anni, casco di capelli lunghi, bianchi, sciolti, che si indovinavano una volta neri come gli occhi, e un segno che partiva dal mento un po’ prominente, e chiudeva appena davanti all’orecchio, seguendo docile il profilo della mandibola. Uno sfregio che l’ha fermata, costretta al matrimonio, mi raccontavano altri vecchi, che cavalcavano seggiole di plastica. L’incrocio di sguardi è durato l’attimo che mi è servito per scappare, via, verso piazza Mercato.

Anche la situazione dal punto di vista della sicurezza sembra migliorata. Napoli è la 17 sima città in Italia per numero di reati (dati del Ministero dell’Interno) dove la prima è Milano. Resta prima per furti con strappo (subito seguita da Milano) ma con un calo significativo dei crimini in generale: negli anni 2017/2018 quattro per cento in meno di reati, e 14, 85 per cento in meno di rapine.

Complesso di san Gregorio

Restano i bassi, che si salvano dalla gentrificazione, le vaiasse, che si salvano dal bon ton: sento un litigio dall’una all’altra finestra “Tu c’he pile e cazz’ ti si fatt nu materazz’”, mi raccontano di un femminiello che, preso da parte un assessore gli ha sputato sul muso la frase: «Ie c’he bucchine m’aggio fatto ddoi casarielle. E tu manco l’addore. E s’e o voi, hai e pava’» («io coi bocchini mi sono fatta due casette, e tu nemmeno l’odore. E se lo vuoi [il cazzo n.d.r.] devi pagare».

Pura dolcezza borbonica è la vita mondana. Le feste, i salotti, i circoli. Montediddio e Pizzofalcone. I fratelli Roberto e Generoso Di Meo hanno inventato la formula del ballo itinerante: Roma, Parigi, New York, Marrakesh, Vienna. Qualche settimana fa, per gli amici napoletani il Ri-ballo a Palazzo Serra di Cassano. Al palazzo di fronte abita (ma esce spesso) donna Januaria Piromallo Capece Piscicelli di Montebello dei duchi di Capracotta.

Il suo palazzo si affaccia su una bellissima serra interna. Dalla stanza da letto vedo la Certosa Di San Martino e i suoi chiostri di luce. Un salotto “super bien“ è quello di Celeste Condorelli, con il design dell’architetto Cherubino Gambardella. Sorrentino si è ispirato a Cherubino per il protagonista de La grande bellezza. Martedì scorso gli auguri di Natale gourmet da Antonella Tuccillo: la madre, Germana Militerni Nardone, è esperta di ricette antiche rivisitate, e la specialità è lo spaghetto col tarallo. E qualche giorno prima, alla galleria PIetro Renna, il vernissage di Elena Von Essen con quattro principesse in una stanza: la stessa Elena, la sorella Mafalda, la madre Tatiana, discendente diretta della regina Vittoria. E Beatrice di Borbone. Si finì con Elena che ballava sui tavoli del ristorante “l’Europeo”, che tutti chiamano familiarmente “Mattozzi” e fa la più buona genovese (che è napoletana) del mondo. Puro cazzeggio astratto slegato dalle logiche arrampicatorie sono i circoli.

Chiesa di Sant’Egidio Maggiore

Slegato nel senso che i borghesi pagano quote alte per essere ammessi, e i nobili incassano placidi, e alcuni ci campano. Il circolo Italia a borgo Marinari, con il veliero donato da Gianni Agnelli, il Circolo La Staffa, il circolo dell’Unione attaccato al San Carlo. Vestirsi: oltre ai soliti ed eccelsi Marinella, e Amina Rubinacci (più specializzata nella maglieria), c’è Isaia, fondato nel 1920, con atelier anche a Capri, e il suo smoking bicolore: nero con il bavero in raso e in velluto: blu, verde bottiglia, bordeaux. E prima della prima del San Carlo c’era stato un concerto a porte chiuse di Claudio Baglioni (il San Carlo aveva detto “no” a Madonna), invitato dalla fondazione Scudieri, per beneficenza, con l’assessore alle politiche giovanili e alla creatività Alessandra Clemente in un vestito scuro di seta antica di San Leucio. E una scultura sul derrière. Napoli gode.

«Qualche giorno fa c’è stata una sparatoria nella Pignasecca», racconta Gennaro Ascione, scienziato sociale, che ha insegnato qui all’Orientale, a Dehli, e in Inghilterra, e si occupa in particolare di de-colonizzazione. Ha anche pubblicato un romanzo distopico: Vendi Napoli e poi muori (Magmata, 2018). «Siamo in una fase più complicata di quello che sembra. C’è una porzione piccola della città che sta facendo i soldi, e il resto, vale a dire la maggior parte della popolazione, sta peggiorando, per servizi e qualità della vita. L’azienda dei trasporti, l’Anm, è a rischio fallimento. E anche i rifiuti sono un problema.

Fino a qualche settimana fa c’era una discarica illegittima: all’ex Icm, in via delle Brecce, zona Orientale, al posto dei rifiuti inerti si sversavano gli umidi. È dovuto intervenire il ministro Costa per fermare tutto». Solo qualche giorno fa, a fronte dell’intasamento di spazzatura, il comune si è giustificato dicendo che le luminarie natalizie ingombravano. L’onda di turisti, in una città che ha 15mila posti letto, ha portato da una parte all’esplosione di B&B, di lavoro nero e grigio, e a una strana ma fisiologica gentrificazione.

I prezzi degli affitti si sono alzati del 30/40 per cento», sottolinea chirurgico Ascione dal tavolino di un bar di PIazza Dante. Anche secondo lui De Magistris dovrebbe farsi quella passeggiata bendato: «Ma con la bandana arancione. Nel 2016 si è presentato come un rivoluzionario, di popolo. C’erano i manifesti con il quarto stato. Napoli era l‘avamposto di tutti i Sud del mondo. Nel suo bacino elettorale c’erano tutti, anche i neoborbonici» e tutt’ora, in un comune che è passato da innumerevoli rimpasti, rimangono dagli esponenti dei centri sociali Insurgencia (che hanno aiutato, insieme a Nino Daniele, a recuperare molti fabbricati occupati, e a riportarli a canoni legali) ad esponenti di Forza Italia.

Ma forse è proprio il caso di dire che l’azione politica di De Magistris, per quanto fortunata, anche grazie al fratello Claudio, uomo di marketing e di relazioni, che purtroppo è finito indagato per il concerto post nozze del neomelodico Tony Colombo) sta mostrando tutti i suoi limiti. Alla notte bianca di sabato scorso, presenti tra gli altri De Magistris e la nuova assessora alla cultura Eleonora De Majo, la manifestazione è stata fermata dai vigili: il comune non aveva chiesto il permesso a sé stesso. Come notava Nino Daniele: «I partiti personali risentono della crisi della politica. La disintermediazione non può fare storia né progetto, e De Magistris non è riuscito a dare sbocco più ampio alla sue esperienza».

E intanto, secondo la metafora degli animal spirits, si muove altro. Il digitale per esempio. Pensiamo al Polo di San Giovanni Teduccio. Nel 2016, grazie a Matteo Renzi che voleva la Apple restituisse qualcosa all’Italia dopo tante controversie fiscali, è arrivata la Apple Academy, con studenti di tutto il mondo, diretta da Giorgio Ventre. Luogo di ricerca e sperimentazione in vari campi, l’Academy ha contribuito alla rinascita digitale di Napoli. A ottobre c’erano in città più di 400 startup, e 859 in Campania, che risulta terza in Italia, dopo Veneto e Emilia-Romagna, per numero di realtà innovative.

E, grazie alla Federico II e al suo rettore “visionario” Gaetano Manfredi è in costruzione il raddoppio del polo, con un finanziamento di 70 milioni. Nell’insieme si tratta di una rete di sette atenei, 40 enti pubblici di ricerca avanzata, 21 laboratori che lavorano con le filiere produttive regionali. Si va dal 3D applicato al calcestruzzo, al riutilizzo di scarti edilizi, al software, alle applicazioni spaziali. Diverse multinazionali hanno scelto il polo campano, per esempio Cisco. E Leonardo, solo in Campania, ha 4500 addetti, vedi Aerotech campus di Pomigliano d’Arco. In breve, anche dal punto di vista dell’innovazione Napoli si muove e come. Su cosa c’entri l’attuale amministrazione cittadina permangono un bel po’ di dubbi. Fino ad ora sulla politica sembrano prevalere gli animal spirits. E comunque, forse è proprio il caso che, prima di fine mandato, Màgistris, faccia davvero la passeggiatina in piazza Plebiscito. Si capirebbero molte cose.

Bruno Giurato per www.linkiesta.it

I VERMICELLI DI TOTO’

I VERMICELLI DI TOTO’

IL PANE AMARO, LA FARINA E TUTTO CIO’ CHE NON C’ERA DA MANGIARE

L’ansia della penuria alimentare, le file ai supermarket, l’accaparramento. Con la crisi del coronavirus due generazioni sono finite nel mondo del prima, quello di Totò coi vermicelli. Così la paura del digiuno ha svecchiato copioni e romanzi

Una scena di “Miseria e nobiltà”, film del 1954 diretto da Mario Mattoli, tratto dall’opera teatrale del 1888 di Eduardo Scarpetta (Wikipedia)

Cannavacciuolo sì, ma non lo chef. Qui si parla di Cannavacciuolo Salvatore, disoccupato, e dei moltissimi Cannavacciuolo che nel tempo hanno marciato sul filo teso tra fame e sazietà, in quell’ingiusto mezzo tra il mangiare e il digiunare. Fu quel Cannavacciuolo (Salvatore) il personaggio emblema del film di Nanni Loy Mi manda Picone, che uscì quattro anni dopo il terremoto del 1980, mentre la ricostruzione arricchiva la camorra e invogliava i suoi clan alla guerra nella città più splendida e più lazzara d’Italia. Per placare la tensione psichica dall’incessante domanda se alla sera mangerà o non mangerà, Cannavacciuolo si porta perennemente appresso un’intoccabile “riserva”, un pacchetto di pastina cui tiene più d’ogni altra cosa e che un cane randagio al quale ha dato troppa confidenza cercherà di sottrargli. Parabola in un ciak del proverbio pessimista ’o cane mozzeca ’o stracciato, perché l’esperienza ha assodato che avviene proprio così: morde il povero. Se n’accorsero i sociologi soltanto molto dopo, e prendendo spunto dal Vangelo intitolarono pomposamente “effetto San Matteo” quel che i napoletani conoscevano da sempre.

Chi ha fatto l’arrembaggio ai supermercati, già nelle prime fasi dei lockdown per il coronavirus, non potrà più giudicare paranoico o esagerato lo stracciato Cannavacciuolo con la busta di pastina. Rappresenta rispetto alle provviste dei quarantenati appena il simbolo di un’ancestrale inclinazione. Con provviste più vicine al quintale che ai duecentocinquanta grammi abbiamo più che pareggiato i conti e dunque la paura della fame, è ufficiale, non è retorica o reperto del passato. Puoi pensarla esagerata finché non ti attraversa: prendi Le voci di dentro, che Eduardo De Filippo scrive nel 1948. Uno dei due invidiosi vicini s’intrufola al mattino nella “luminosa e linda cucina” della famiglia Cimmaruta, scrocca un piatto di maccheroni avanzati dalla sera prima e un bicchiere di vino. Quando la padrona di casa dice che per suo nipote sbatterà due uova, non si trattiene proprio: “Due uova? Vi trattate bene”. La sera prima lui ha compartito col fratello appena cento grammi di olive e un piede di porco. Adesso un’ansia generalizzata, specialmente tra le fasce deboli, ha svecchiato di colpo quei copioni: uova del Dopoguerra, pastina del dopoterremoto, chissà che cosa del dopocoronavirus. Vale di colpo cento punti in più il realismo minimale di ‘Capannelle’ (impersonato dal caratterista napoletano Carlo Pisacane), che al fallimento del “colpo” dei Soliti ignoti si consola assaporando pasta e ceci dalla pentola. Sono, quelle cucchiaiate, un atto di clemenza con se stesso, replicato da chi dovendo rimanere chiuso in casa fra il crollo del pil, il calo delle borse, la perdita dei posti di lavoro cerca conforto dentro il frigorifero senza sapere quando – e come – ne uscirà.

C’è un riflesso bulimico all’angoscia che non assomiglia proprio alla reazione tutta gioia e quasi infantile di Totò. Per dissimulare la voracità al cospetto di un’inaspettata opulenza accenna passi di tarantella sulla tavola della miserrima casa, dove hanno appena depositato canestri di cibarie e una monumentale quantità di spaghetti al pomodoro. E’ la famosa scena di Miseria e nobiltà, il film del 1954 che fece da remake all’omonima commedia di Eduardo Scarpetta, una scena anche più nota di quella in cui – pensando d’impegnare un cappotto liso che non è “il paletot di Napoleone” – il coinquilino suggerisce a Totò di comprare un ben di dio culinario con la lussuosa aggiunta di due sigari, e si sfrena nel piacere della lista impossibile. C’è sempre un carico di sogni che fermenta nel desiderio degli affamati e che sta lì, pronto a sprizzare a fiotti per l’occasione. E’ un sentimento viscerale che se insoddisfatto vira in malinconia: quella di Cienzo per esempio, protagonista della fiaba di Giambattista Basile Il mercante. Costretto a scappare da Napoli, per avere spaccato la testa “a no figlio de no re” in una sassaiola, si volge a salutare la città che già rimpiange con una trasfigurazione decuplicata alla Hänsel e Gretel dinanzi alla casetta di marzapane: “Chissà se potrò più vedervi, mattoni di zucchero e mura di pasta reale, dove le pietre sono fatte di manna, le travi di zucchero di canna, le porte e le finestre di sfogliatelle! … Addio carote e bietole, addio zeppole e migliacci, addio broccoli e ventresche, addio trippa e frattaglie, addio spezzatini e pasticci… me ne parto per restare per sempre vedovo dei pignati maritati, vado via da questo bel casale; broccoli miei, vi lascio alle spalle”.

I soliti ignoti a tavola, Capannelle è quello in piedi

Come sarebbe facile derubricare nella categoria delle enfasi barocche la malinconia alimentare del fuggitivo; o ridurre a farsesco il Totò che trangugia ciuffi di spaghetti dalle mani. Chi lo facesse confermerebbe solo un altro vecchio detto napoletano. Dice che ’o sazio nun crede ‘o riuno: chi è sazio non crede a chi è digiuno. Nell’Italia degli chef più che dei cuochi, della qualità più che della quantità gastronomica, della compulsiva oscillazione fra la nevrosi degli ingredienti e quella delle diete, s’era defilata inavvertita la netta differenza tra chi mangia e chi è digiuno.

La paura della fame, è ufficiale, non è retorica o reperto del passato. Puoi pensarla esagerata finché non ti attraversa. Nell’Italia degli chef più che dei cuochi, della qualità più che della quantità, s’era defilata inavvertita la differenza tra chi mangia e chi è digiuno. Molti fra gli ottantenni che se ne sono andati provarono la fame alla stessa età in cui i loro nipoti si sentono assillati dai dilemmi calorici. Le epidemie al di là dei numeri, delle epoche e dei rimedi sanitari s’assomigliano tutte. La peste di Napoli riletta oggi fa venire i brividi……….

…………Così accadde per la rivolta di Masaniello dopo l’ennesimo balzello sulla frutta, in un’afosa domenica di luglio del 1647, per certe sporte di pesche e susine rovesciate dai gabellieri a due passi dalla chiesa del Carmine, dove pochi giorni e parecchio sangue dopo si sarebbe completato il dramma. Non trascorsero dieci anni che Napoli fu aggredita da una tragedia peggiore: la pestilenza del 1656, al cui cospetto il coronavirus pare – avrebbe detto Totò – quisquilia e pinzellacchera: centocinquantamila morti, qualcosa di prossimo allo sterminio della città. Comunque le epidemie al di là dei numeri, delle epoche e dei rimedi sanitari s’assomigliano tutte: in quel caso è un bastimento che approda dalla Sardegna infetta malgrado il blocco navale. Ed ecco poco dopo qualche strano decesso attribuito al mal caduco, quindi la moltiplicazione delle morti, le incertezze dei medici, l’individuazione del male, la reticenza delle autorità, i gendarmi per strada, l’immancabile caccia ai presunti untori, l’apprestamento dei lazzaretti, il rifiuto dei ricoveri per mancanza di posti, le agonie nelle case, i contagi familiari, i seppellimenti fuori le mura di cadaveri senza più nome rovesciati nelle grotte, la scarcerazione dei detenuti utilizzati come becchini coatti, gli sciacallaggi, le frodi, la scarsità di cibo, la gente chiusa in casa col terrore o svincolata per terrore dai freni inibitori che si vota a sollazzi e stravizi. Perché tanto tutti, oddio così giovani, si deve presto morire.

E’ all’osteria che si sazia la fame o se hai bevuto troppo risalgono quelli dal mondo di giù, è all’osteria che uno fra gli ultimi poeti dialettali della città, si chiamava Pasquale Ruocco, cadde nel sonno dopo pranzo e immaginò di visitare l’Inferno, sminuito nell’apparenza di un’enorme trattoria dove i dannati stramangiano e giocano, tracannano tutto il vino possibile coi cibi più piccanti perché il vero supplizio è non bere mai acqua. Quella è l’unica cosa che manca. Ruocco pubblicò All’Inferno nel settembre 1943, alla vigilia dell’insurrezione napoletana contro l’occupazione tedesca. Tra l’incubo dei bombardamenti e le penurie alimentari, s’immaginò un Inferno che chiunque, in quel momento, avrebbe preferito alla terra. E poi si dice che i poeti non servono. Il poemetto fu stampato su quella fragile “carta di guerra” che si fa subito giallastra e sbrindellata, e pare fosse immaginaria anche l’ispirazione dei versi scaturita dopo il banchetto alla taverna. Se lo sognava, in mezzo a quel dramma, il lauto pasto del ristorante – e questo fu difatti: sogno nel sogno.

Perciò per un pezzo di pane, come per un lingotto, c’è chi fu o sarà disposto alla battaglia ancorché nelle stagioni d’abbondanza abbia profuso ai cani il superfluo. Perché la mera paura della fame può mettere in moratoria la morale. Chi ha contemplato, per la prima volta, lo squallore degli scaffali svuotati d’assalto a una Esselunga, dovrebbe inorridire meno circa la fine di Giovan Vincenzo Starace, Eletto (ossia rappresentante) del Popolo per la municipalità di Napoli nel 1565, novantun anni prima di quella grande peste. Fu un rincaro del pane, provocato da un prelievo straordinario di grano chiesto dagli spagnoli, a scatenare l’ira della folla. Ma fu anche la cattiva sorte a decretare il martirio di Starace, primo perché quel giorno lui non si sentiva bene e mancò alla riunione di giunta; secondo perché era un uomo piuttosto pingue. L’assenza fu interpretata come connivenza e la corpulenza come insolente abbondanza: due indizi imperdonabili in una città che paventava la carestia. Chiamato a furor di popolo dal letto di casa alla portantina, l’Eletto cercò invano di discolparsi finché fu colpito da un mattone in testa, agguantato e sospinto a forza in una chiesa. Lo gettarono in una fossa da sepoltura, ma poi l’orda ci ripensò: non volevano finire così presto. Perciò lo denudarono, lo accoltellarono e lo trascinarono agonizzante per la strada. E chi gli amputò una mammella, chi una mano, chi gli strappò il cuore, chi lacerò dalla testa spaccata il cervello finché agli esaltati del contrappasso venne voglia di divorare, più che l’insidiato pane, lui proprio. Ci fu così, riferisce una cronaca testimoniale, “chi se magnò lo core” dell’Eletto Starace o addirittura “se pigliò un pezzo della cammisa insanguilentata et se la magnò”, mentre qualcuno “se zucò lo sangue”. Più raffinati quelli che misero a sacco il palazzetto della vittima, prosciugando le botti colme di Lacrima Christi, Greco di Tufo e Moscatello.

Perché da un pezzo di pane può scaturire l’orrore. E chissà da quale bocca proruppe il primo grido o chi scandì all’inizio la parola “fame” – come il fruttivendolo che innescò l’ira di Masaniello – attizzando la brama dei lazzari cannibaleschi. Fu magari un uomo dimesso, che incrociato il giorno prima avresti detto mansueto padre di famiglia.

Masaniello

Un pezzo di pane è genere essenziale secondo tutti i Dpcm ed è ammesso persino dai variegati De Luca (Cateno sindaco di Messina, Vincenzo governatore della Campania), i quali sanno che a sottrarlo nei momenti emergenziali si rischia la sorte di Starace e a equipararlo alle brioche il destino di Maria Antonietta. Il pane di quarantena, che oggi costa una fila in mascherina o un’uscita supplementare all’ora in cui non vorresti, ovvero il pane lievitato in casa dall’orgoglio delle proprie mani, sarà domani rievocato come più sapido di qualsiasi altro che verrà mai mangiato. (Qualche volta s’assegna ai ricordi anche l’onere d’ingannarci). Sarà un po’ come la nostalgia di quel Cienzo della fiaba, quando si volta allontanandosi dalla città e ne rigusta pure le delizie che non aveva assaggiato.

Giuseppe Marotta

Sarà un po’ come il rimpianto dello scrittore Giuseppe Marotta, che a Milano ricordava con affetto – perché dopo è più facile – anche la fame dell’infanzia napoletana. Alla quale, naturalmente, offrì rifugio il pane: con sale e olio. Per i più poveri quel cibo fu “ereditario come il colore dei capelli o la tisi”; oggi “pane, sale e olio” sarà citato al più nei post del genere “Noi che negli anni ’70”. Perché sì, fu una merenda che resistette a lungo, e forse ancora varrebbe un hashtag su Instagram nel lezioso circuito dei pretendedmeals. Si può provare: la banalità suscita indulgenza.

Scrive Marotta che “questo pane con sale e olio si determina, in una casa meridionale, quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, c’è sempre qualche goccia di olio nella bottiglia, c’è sempre qualche pezzo di pane raffermo nei cassetti in cucina, ci sono sempre un pizzico di sale nel barattolo e l’affettuosa acqua del Serino nella fontana”. Lui lo raccontava a fame prescritta e a fama raggiunta perché non di solo pane si trattava, ma di memoria gentile, e riaccendeva “la sensazione che passi leggeri ci si avvicinino e care mani ci sfiorino”, mentre “un odore di alito di bambino si diffonde nella stanza”.

Qualcosa di simile permane, per chi li frequentò, nella memoria dei refettori, così diversi dalle mense aziendali dove l’opulenza è dietetica e cronometrata. Furono enormi sale di conventi, come quella affrescata nel monastero di San Domenico Maggiore dove pregarono e cenarono il docente Tommaso d’Aquino o i terribili novizi Giordano Bruno e Tommaso Campanella. O furono i locali assai più umili delle scuole elementari, dove i “passi leggeri” erano quelli delle suore e gli aliti di bambino si mischiavano agli odori di pasta e patate, di cappotti bagnati, di matite continuamente temperate e spuntate. Era in quei refettori che insegnavano a tradurre, per buona creanza, il pensiero della “fame” con l’eufemistico vocabolo “appetito”.

San Domenico Maggiore, Napoli

Ma è la fame, non l’appetito, che fissa nel pane la gallery degli affetti da sfogliare domani, li imprime sul rovescio di una moneta che nella faccia opposta reca inciso lo strazio dell’Eletto Starace. La fossa sepolcrale in cui fu proiettato il poveretto stava nella chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, sulla stessa strada dove il piccolo Marotta avrebbe abitato senza stentare a crescere malgrado, o in virtù, di quel pane. Con sale e olio bastò. E bastò al poeta Libero Bovio mangiarselo con le ciliegie, desueto ma riscopribile companatico, per non dimenticare più la ragazza che dopo, fatta fortuna in teatro, l’avrebbe solo distrattamente ripensato. Centotré anni sono già passati, ma Reginella si canta dovunque:

Reginè, quanno stive cummi Tu nun magnave ca pane e cerase, Nuie campavamo ‘e vase! E che vase, Tu cantave e chiagnive pe ‘me…

Quattro versi per descrivere la tenue corrispondenza che connette eros e fame, il pane ai baci, quando davvero amiamo e ne scriviamo da giovani. Se si riesce persino a sottoscriverle una musica adatta, come si fissa il sapore di un cibo e d’un bacio, allora è proprio un ricordo perfetto. Può restarsene a lungo sepolto ma un giorno riemergerà, con l’opzione delle lacrime o, che sarebbe meglio, di un sorriso.

Riaffiora dalla morte Pulcinella sempre per mano di Bovio, che scrive un atto unico nello stesso periodo di Reginella, mentre divampa la Prima guerra mondiale. E’ che forse durante l’epoca delle emergenze collassa il senso del tempo, sicché “c’era una volta” può distrattamente diventare “c’è adesso”. Pulcinella torna fantasma sulla terra però senza più fame, soltanto per portare con sé nell’oltretomba la moglie Colombina che da quando lui non c’è, per sfamarsi, s’è cambiata in sciantosa un po’ puttana, una mezza Reginella smunta su cui cipria, smalti e rossetto stentano il camuffamento. Stavolta più spettrale che buffone, il morto mascherato dal camicione bianco rincontra la vedova in una trattoria sulle alture del Vomero, quando gli ultimi clienti se ne sono andati e i suonatori ci stanno ancora ma si sentono stanchi.

Libero Bovio, scrittore e poeta

Flebile resta la musica tra stomaco vuoto e stomaco pieno, tra l’adesso e il c’era una volta, che fu quella in cui Pulcinella corteggiò Colombina nella stessa trattoria, lei molto più giovane ma lui sempre lo stesso, e alla fine la conquistò versandole più vino i gemelli Raffaele e Giulio Vezza, di cui qualcuno avrà memoria come di due dolci e allampanati signori nelle trattorie della Riviera di Chiaia, mentre fu territorio di Mimì Pedullà, manella d’oro, il ristorante D’Angelo col suo sontuoso panorama. Perché una volta chi banchettava festeggiava. Più rara fu l’abbondanza di cibo, più apprezzata la musica che la rallegrò.

Preso un giorno da quella vaga forma di follia che i più chiamano sbrigativamente collezionismo, un tale Palmieri cominciò a raccogliere le voci degli ambulanti napoletani nell’Ottocento, arrivando a trascriverne sul pentagramma cinquecento circa. Nei melodici richiami dei venditori alimentari c’era il genoma della musica partenopea: il modo dorico della Grecia antica, la struttura delle cosiddette scale napoletane e certe fioriture arabe che Sergio Bruni sapeva ancora cantare. Come se fame e sazietà fossero parallele al silenzio e alla voce, musica e cibo s’intrecciarono in una relazione più intensa che altrove. E fu soltanto un caso, però curioso, che quel Palmieri venisse soprannominato

Ciccione, quasi che trascrivendo i richiami di maccaronari, mellonari, spigaiole, ovaiole, mozzarellari e acquavitari si fosse progressivamente enfiato, bevendo e mangiando pure con le orecchie. Assunse infine l’aspetto prosperoso di un Eletto Starace ovvero – tanto meglio per lui – di un Cannavacciuolo (non il disoccupato Salvatore, ovviamente, bensì Antonino lo chef). Per un pezzo di pane c’è chi fu o sarà disposto alla battaglia ancorché nelle stagioni d’abbondanza abbia profuso ai cani il superfluo. Qualcosa di simile permane nella memoria dei refettori, così diversi dalle mense aziendali dove l’opulenza è dietetica e cronometrata

Francesco Palmieri

Estratti dell’articolo di Francesco Palmieri per Il Foglio Quotidiano

NAPOLI-AMSTERDAM

NAPOLI-AMSTERDAM

Napoli-Amsterdam. Un viaggio on the road tra le mete europee più conosciute.

Estate 2017. Viaggio in macchina Napoli-Amsterdam, passando per Vienna, Berlino, Praga, Lubiana… chissà ancora dove e ritorno. Andrea ed io. La nostra auto impegnerà circa 50 ore per raggiungere tutte le città.

 

Un po’ per pigrizia, un po’ per scaramanzia, ma soprattutto per molto spirito di avventura, prenoteremo la nostra camera su Booking (Clicca QUI)  con letti separati e bagno in comune in una residenza universitaria (Clicca QUI per scoprirla) di Lubiana, la capitale della Slovenia, solo dopo aver superato Trieste e a pochi chilometri dal confine.
Prenotare all’ultimo secondo sarà una costante di questo viaggio.
Però il posto sarà carino, pulito e a pochissimi passi dal centro. (Clicca QUI per trovare un ostello)

OLL IU NID IS LOVE
AHAHAHAHAHAHAHA

Avrà ripetuto almeno sei volte, se non di più questo verso il musicista di strada che strimpella una chitarra all’ingresso dell’ostello.
Nonostante la risata stonata e la cantata ubriaca, i ragazzi che sono seduti intorno a lui si divertono. Anche noi.

Liubljana Slovenia - Neomag.

Abbiamo parcheggiato, e non è per nulla semplice (ed economico) farlo a Vienna. La città già dai finestrini ci è apparsa subito austera, elegante, raffinata e cinematografica. Una bella capitale insomma. Poi scopriremo anche che sarà tra le più care di tutto il tour (senza considerare pranzo e pedaggio svizzero).
Il grande amore e maschera d’oro sono due dei più importanti film di Hugo Thiming, il più famoso attore austriaco. A lui è dedicata la nostra stanza, la 510; se a Lubiana infatti abbiamo soggiornato in un ostello, qui a Vienna abbiamo scelto una camera con tutti i confort e le stelle disponibili. Ci siamo dati una rinfrescata e siamo scesi.
Abbiamo girato per le vie del centro e ci siamo ritrovati a piazza Municipio, luogo in cui con tanta sorpresa ed ancor più fortuna abbiamo scoperto esserci proprio il festival del cinema (Puoi dare un’occhiata QUI al Festival).

Un mega schermo che per oltre un mese, ogni sera proietta qualcosa di interessante ai turisti ed ai passanti che oltre allo spettacolo hanno a loro disposizione cibi locali e cucina etnica.
Mentre davano un concerto di una delle più famose violiniste al mondo, di cui ora non ricordo il nome, accompagnata dall’orchestra filarmonica di Berlino, abbiamo scelto di cenare con il canguro.
Non mi viene in mente nessun termine di paragone per la squisitezza di quella carne.
Solo il gamberone al forno avvolto in lardo di colonnata, provato l’ultima sera sulla spiaggia di Follonica, potrà competere (e forse battere, per gusto).

Vienna Austria - Neomag.

 

Il Ljubljanica di Lubiana, il Danubio a Vienna ed ora ed il fiume Moldava che scorre a Praga sono stati una costante di questo viaggio tra le prime tre capitali.
Attraversando il ponte Carlo, lo storico ponte in pietra sulla Moldava, che collega la Città Vecchia al quartiere di Malá Strana, sono stato molto colpito dalle antiche statue che, secondo una leggenda locale, la notte prenderebbero vita per dar un aiuto ai bambini della città.
Il tragitto che collega le due capitali però non è una vera e propria autostrada: a volte mi ricordava l’asse mediano tra Arzano e Melito, altre volte i lavori della Salerno Reggio Calabria… infondo, ogni mondo è paese ed anche qui la terza corsia sembra una chimera.
Godot non è ancora arrivato.
Nonostante il menù ceco ed il cameriere muto inglese, abbiamo mangiato molto bene; l’abbigliamento rustico ed i tir parcheggiati nell’area di sosta non sono stati smentiti.

Praga - Neomag.

 

Una colazione border line consiste nel mangiar di prima mattina un hot dog con megasaliccia, formaggio e chili piccante a cavallo del confine tra Repubblica Ceca e Germania. Ripartiamo.
Lamezia Milano? In realtà  no, ma Vienna-Amsterdam. Per il resto sembra che questa canzone cantautorale dalle tinte calde come un dipinto di Rembrabdt (la cui casa ed il suo studio visiteremo domani prima di andare al museo di Van Vogh (Per informazioni clicca QUI) e dalla sonorità  retrò come una vespa sprint, proprio come tutte le altre canzoni di Brunori che stamattina ci tiene compagnia, abbia ragione:

E SCRIVO AL MONDO SECONDO ME

CHISSA’ COM’E’ INVECE IL MONDO

VISTO DA TE

Ti penso forte. Ci rimettiamo in viaggio senza preoccuparci della velocità in autostrada. Lei noi ha limiti, io si.

Dresda - Neomag.

La colorazione rossa degli M&M’s deriva da un pigmento naturale che si trova solo nelle femmine di una particolare specie di coccinelle originarie del Messico. Quello stesso pigmento, qualche secolo fa veniva utilizzato da Rembrandt per i suoi quadri.
Dopo 2500 chilometri siamo ad Amsterdam; quasi a metà viaggio. Abbiamo visto la casa museo di uno dei più grandi pittori della storia dell’arte europea ed il più importante di quella olandese, c’era troppa fila per Van Gogh. Abbiamo passeggiato per il quartiere con le luci rosse e le vetrine gourmet.
Stiamo per visitare una mostra dedicata sia a Dalì, pittore, scultore, scrittore, cineasta e designer spagnolo che a Bansky, la cui arte, come ricorda Wikipedia, trova espressione nella dimensione stradale e pubblica dello spazio urbano, realizzando pezzi che documentano la povertà della condizione umana.
In giornata andremo verso nord e scopriremo che 10 a 1 è la proporzione con cui 10 litri di latte diventano un chilo di formaggio. Siamo andati in una fabbrica di formaggio appunto, l’edificio alla nostra destra era un laboratorio di cioccolato e tutto intorno a noi c’erano mulini e canali.
Profumo di cioccolato ovunque, ma mangerei un bel piatto di spaghetti con pomodoro fresco, calamaro arrostito e un bicchiere di vino con le percoche. Si parte

Amsterdam - Neomag.

 

Sarà  che è il primo pomeriggio del primo venerdì di Agosto ma gli edifici istituzionali sono deserti ed i cartelli che segnalano un livello di sicurezza giallo sono poco rassicuranti. Attraversiamo la strada ed ordiniamo da Pizza Hut. Due birre e due pizze.
La barbecue chicken con pollo grigliato, funghi, cipolla, peperoni verdi, mozzarella e salsa barbecue e la hot ‘n spicy, ovviamente piccante. Entrambe le pizze ci vengono servite in due ‘rutielli’ di ghisa ancora caldi. Justin, la cameriera, mi ha sorriso più volte, ma saprete meglio di me che i sorrisi di cameriere, prostitute e venditrici in generale non sono sorrisi ma deformazione professionale.

38 euro, paghiamo e torniamo in albergo per prenotare la camera di domani.

Bruxelles - Neomag.

 

Pranzo in Lussemburgo. L’ultimo granducato ancora esistente è tra le più importanti piazze finanziarie al mondo.

Ora siamo per salire sulla ruota panoramica: city sky liner (per saperne di più clicca QUI) , 360 gradi di rotazione e 81 metri di altezza.

Lussemburgo - Neomag.

Alla porte del Relais de l’Orangerie (Per prenotare clicca QUI) di Strasburgo troveremo un digicode, composto il prefisso ‘1266’ e per entrare spingeremo la porta sulla destra. Digiterò anche dodicizerotre, il codice del mio cellulare che mi ricorda del dodici marzo, per recuperare queste informazioni.

Saliremo su per le scale e alla terza porta, un’altro codice: il prefisso “2266”.
Ci saranno anche informazioni su Strasburgo e l’elenco dei supermercati della zona.

Per recuperare la chiave, sarà necessario comporre il prefisso ‘1313’ nella piccola cassaforte adiacente alla porta di studio.
Finalmente ecco la chiave .Quando faremo il check-out domenica, dovremo lasciare la chiave nella cassetta postale al piano terra.
Non incontreremo mai Serge l’albergatore che ci ha dato queste informazioni su WhatsApp confessando di utilizzare google translate.
Dalla nostra finestra però si vedono sventolare le bandiere di tutti gli stati e tra gli alberi si intravede la sagoma del parlamento europeo.

L’Europa bella ed il bello dell’Europa è che ti permette di girarla tutta in macchina senza file interminabili alla dogana, senza calcoli noiosi all’ufficio del cambia valute e senza nessuna barriera culturale.

Strasburgo - Neomag.

Dopo una cena tipica dell’Alsazia, in un locale tipico dell’Alsazia, con birra dell’abbazia dell’Alsazia, passeggiamo per le vie di questo paesino più germanico che gallico mentre una chitarra, un sax ed un contrabbasso suonavano:

“WHAT A WONDERFUL WORLD.
 YES I THINK TO MYSELF
 WHAT A WONDERFUL WORLD”

Con la coda dell’occhio scambio due islamiche per due suore a causa della similitudine cromatica e stilistica del loro abbigliamento. Però poi mi concentro su una di loro: la guardo, mi guarda, mi sorride (questa volta non c’è nulla in vendita ma solo una fantasia in regalo), le sorrido e mi accorgo che è bellissima, il modo con cui è vestita mi segnala che è musulmana. Il suo profilo, i suoi lineamenti ed il suo sguardo mi rimarranno impressi. Mi sorride e si volta.

 

15 gradi, pioggia e traffico.

L’inverno arrivato a Casa Stark e pure in Svizzera.

Dopo più di una settimana ho mangiato pasta: tortellini in autogrill all’ingresso del traforo, 70 franchi svizzeri che sono più di 70 euro francesi.

E’ tornato il sole e con due coltellini svizzeri in tasca ci siamo rimessi in viaggio ed abbiamo attraversato la dogana.

Se Massimo Rarieri, Enzo Avitavile, Spacca Neapolis 55, Avion Travel e Pietra Montecorvino ascoltati di primo mattina ci hanno ricordato che come afferma John Turturro nella sua introduzione al film passione:

“CI SONO POSTI IN CUI VAI UNA VOLTA SOLA E TI BASTA… E POI C’È NAPOLI…”

Made in Europe, il rock degli anni 80 e le sigle dei cartoni animati di quegli stessi anni ci hanno dato carica ed euforia già dai primi chilometri percorsi in Italia.
Ora mancano 50 minuti all’ultima stanza prenotata su booking per questa estate.

La pensione Miranapoli ha un numero dispari di stelle, un arredamento retrò, infissi e tapparelle come quelli di casa di una nonna e sembra ferma agli anni 80 appunto, c’è l’aria condizionata però. Bello.
 Prima di cena, un’artista di strada intrattiene bimbi curiosi e senza telefonini tra le mani con uno spettacolo di marionette.
 Prima di dormire, una cameriera ci spiega una particolare tecnica con cui preparare cocktail separando le molecole dalla pianta per unirle a quelle dell’acqua. Una sorta di liquefazione che non ho capito bene, però sorridiamo entrambi e prendo un drink a base di rum e fumiamo un sigaro toscano.
 Stasera niente Booking, domani spiaggia e ritorno a casa.

Follonica - Neomag.

 

Mi vengono in mente un sacco di storie ma io sono ancora in ferie: zaino Invicta in spalla, costume e t-shirt, attraverso, vado in spiaggia e tuffo a cufaniello.
Italia, Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Svizzera e di nuovo Italia, 10 stati e 4610 chilometri.

Tra qualche giorno si ritorna a Roma ed alla solita routine lavorativa, ma in questo caldo pomeriggio d’estate, ancora con la mente a tutte le città visitate, le notizie prima da internet e poi alla TV approfondiscono con sempre maggior dettaglio, novizia di particolari ma anche un po’ di qualunquismo e voyeurismo, la strage di Barcellona. Dopo il testo dei Beatles ascoltato a Lubiana, quello di Louis Armstrong ascoltato a Strasburgo, cerco di recuperare un po’ di fiducia con le parole di John Lennon

IMAGINE ALL THE PEOPLE SHARING ALL THE WORLD

YOU MAY SAY I’M A DREAMER

BUT I’M NOT THE ONLY ONE.

Viaggio - Neomag.

Articolo a cura di Cosimo Abbate, apparso sul sito Neomag (qui

PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

UN CESSO DI CANE CHE BEVE CHAMPAGNE- COME DIFENDERSI DALLE IETTATURE- CAVALIER SPIZZICO E VECCHIE PUTTANE AL TETRO  SAN CARLO- I RICORDI DI PAOLINO ISOTTA FRA ERUDIZIONE E NOSTALGIE

“La città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.”

 

Il diavolo veste Isotta, verrebbe da dire, dopo aver incontrato il più sulfureo e talentuoso tra i critici musicali italiani. Il “diavolo” vive in un dettaglio di Napoli, un edificio di foggia razionalista con vista sul Golfo. ” Paolino”, così lo chiamano gli amici, mi riceve affiancato dal suo cane Ochs ( il nome è un omaggio al barone protagonista del Rosenkavalier di Strauss): un bassotto esuberante.

Più che a un maschio alfa Ochs somiglia a un maschio alfetta: «A chisto cessu piace vino e champagne », dice ridendo Isotta che di animali se ne intende. Ha da poco pubblicato un libro strepitoso ( Il canto degli animali, edito da Marsilio) bello per armonia, pathos, erudizione e conoscenze del mondo classico.

Ama più gli animali degli uomini?

il canto degli animali paolo isotta-208x300«Sono più attendibili e anche più esposti alla violenza gratuita dell’ uomo. Provano sentimenti e li esprimono con il loro linguaggio che, in origine, è comune all’ uomo. Lucrezio comprese perfettamente questa loro natura. Cartesio l’ ha condannata riducendo l’ animale a una macchina non senziente. Fu il primo errore ripugnante della modernità».

Sempre in ambito bestiario si è paragonato a un elefante.

«Animale fantastico, per noi napoletani tra l’ altro è considerato potentissimo apportatore di buon augurio».

Ne avverte il bisogno?

«Il mondo è pieno di jettatori«.

Comincia l’ anno con questo tono?

«Mi difendo da forze che la scienza non è in grado di spiegare. Bisogna cominciare l’ anno con determinazione».

PAOLO ISOTTAE come lo ha chiuso?

«In teoria sarei un “piromane”, ma non ho sparato, quel bassotto lì ha otto mesi e si spaventa dei botti».

Lei è nato a Napoli?

«Come è vero che ora le parlo. Ma le origini della mia famiglia sono in parte piemontesi. Gli Isotta provengono da un paese sopra Omegna chiamato Agrano. Sul lago d’ Orta. Ma scelsero di migrare al Sud nella convinzione che Napoli fosse il più bel posto del mondo. Mai decisione fu più azzeccata».

PAOLO ISOTTA LIBRO ALTRI CANTI DI MARTEChe famiglia era?

«Benestante. A Napoli comprarono un palazzo a via Medina, affittarono ville godendo di tutti i privilegi della ricchezza. C’erano proprietari terrieri e professionisti. Personaggi stravaganti, minorati mentali (a volte accadeva di avere dei cugini o delle zie mentalmente incerte, persone verso le quali più forte era l’ affetto), o autorevoli, come lo zio Mario che era stato in Congo Belga a studiare le malattie tropicali. Visitò Proust a Parigi e curò Stravinskij a Napoli, guarendolo da una grave polmonite. Mio padre era avvocato civilista. Piaceva a tutti quella vita scandita da vacanze a Capri, di racconti avventurosi e di viaggi fantastici».

In questo ambiente lei che faceva?

«Avevo con Napoli lo stesso rapporto incantato che ricreavo con la lettura delle favole.

paolo isotta 1412525261 isottaLa città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.

C’era di tutto in quel mondo: indimenticabili ricchioni, come il cavalier Spizzico capoclaque del San Carlo, vecchie puttane che rattristavano i miei pensieri, abili commercianti e mitici posteggiatori, incalliti frequentatori della riffa e devoti, come me, di San Gennaro.

Sono uno degli ultimi testimoni di una Napoli che non c’ è più».

In questa rievocazione di una Napoli sparita accennava a sua nonna che le ha trasmesso le prime nozioni di musica.

«Nonna Laura mi cantava meravigliose canzoni francesi e tedesche trasmettendomene il valore e il significato. Ma non vengo da una famiglia di musicisti. Studiai di nascosto un po’ di musica e solo dopo confessai a mio padre di questa passione e del fatto che nella vita avrei voluto diventare direttore d’ orchestra. Lui mi stette ad ascoltare e poi disse che avrebbe voluto che proseguissi nella sua professione. Gli risposi che non era quella la mia strada. Dammi retta aggiunse: un mediocre musicista sarà un fallito per tutta la vita, un mediocre avvocato troverà sempre di che campare dignitosamente».

E lei che fece?

« Pensai che mi disprezzasse e che non credeva minimamente nelle mie attitudini. Cominciai a prendere lezioni da Vincenzo Vitale che fu maestro mio e di Riccardo Muti. Ero determinato a proseguire, solo che non avevo capito che mi mancava il talento. Il maestro mi incoraggiava a insistere sottovalutando i miei limiti».

Da cosa se ne accorse?

LA VIRTu? DELL'ELEFANTE ISOTTA«Dal fatto che un direttore deve possedere un’ autorità innata. Muti, ad esempio, l’ aveva. E poi la qualità del gesto, la lettura del tempo e infine l’ orecchio. No, purtroppo, la natura non mi ha dotato dell’ orecchio assoluto. Sarei stato un mediocre direttore d’ orchestra e improvvisamente mi tornarono alla mente le frasi di mio padre».

Fu quel monito ad aiutarla a rinunciare?

«No, fu San Gennaro a illuminarmi e a farmi capire un momento prima che fallissi che avrei dovuto lasciar perdere. In fondo, mi dissi, potevo scegliere di occuparmi di musica in tutt’ altro modo».

Che cos’ è per lei San Gennaro?

«Quello che rappresenta per tutti i napoletani: più che una fonte miracolistica un’ assicurazione sulla vita. Non credo in Dio ma mi affido volentieri ai santi. Sono convinto che il cristianesimo abbia distrutto la potenza e la ricchezza della cultura classica. Il merito della Chiesa cattolica è stato di rovesciare questo cristianesimo delle origini e di aver introiettato nel proprio corpo aspetti fondamentali del paganesimo, di cui i santi sono una delle espressioni più belle e riuscite«.

paolo isotta giuliano ferrara pietrangelo buttafuoco

Isotta con Giuliano Ferrara e Pietrangelo Buttafuoco

Lei è uno strano tipo.

«Cioè?».

Diciamo fornito di una stravaganza raffinata e pittoresca.

«Non voglio essere pittoresco, ed è la ragione per cui ho smesso di fare il critico musicale. E la mia stravaganza è nel non aver mai coltivato il potere, né chiesto niente a nessuno. Se uno va all’ etimologia della parola sa che essere stravaganti significa uscire dai sentirei battuti. Non è un caso che io abbia sempre adorato la cultura classica, soprattutto il latino».

opere del bernini (8)Sindrome da vecchio professore?

«Ma no; senza il latino, mi dia retta, non si va da nessuna parte. È il sistema linguistico sovrano per avere un giusto rapporto con la vita».

Un altro omaggio alla controriforma.

«Non me ne vergogno. Ci hanno insegnato che la controriforma è stata in Italia una delle peggiori catastrofi perché ha lasciato che trionfasse l’ oscurantismo. Beh non la penso così. Nonostante le raffinate analisi di Max Weber sull’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, giudico il protestantesimo una religione angusta e tormentatrice. Mentre la controriforma è stata una delle epoche più dedite al culto del Bello e alla glorificazione della natura. Tra Lutero e Bernini non avrei dubbi da che parte stare».

E Bach?

«Bach è un caso quasi unico. Sebbene provenisse dall’ ambiente del pietismo luterano, le sue Cantate e Passioni sono intrise di una tale teatralità e di una forza figurale estranee allo spirito della Riforma. Più vicino a Bernini che non a Lutero».

Perché ha smesso di fare il critico musicale?

celine lucette

Ferdinand Cèline

«Glielo ripeto: per non essere confuso con il pittoresco e poi se mi guardo intorno noto che la vita musicale è scaduta a livelli impensabili qualche anno fa. Mi sono detto: che me ne fotte di stare all’opposizione. L’ho fatto per quarantuno anni, dando molto di più di quello che mi si chiedeva. La nausea era diventata più forte del disprezzo per l’ambiente. Un paio di anni fa mi sono fermato. Basta, cambio vita. Oggi viaggio molto meno. Ho tagliato l’ottanta per cento delle mie frequentazioni. Vedo chi mi piace, scrivo libri e leggo molto di più».

Che genere di lettore ritiene di essere?

«Totale, del resto non farei distinzione tra ascolto, lettura e visione. Amo il cinema come la letteratura. Per quest’ ultima sono in debito con mia madre che è stata una grande lettrice di romanzi».

Quali quelli che l’ hanno formata?

«Ovviamente i classici e poi da Manzoni a Flaubert non c’ è pista narrativa ottocentesca che non abbia percorso. I più grandi del Novecento sono stati Céline e Gadda. Il più sopravvalutato, da noi, Calvino. Ho amato lo stile di Croce e quello di Sciascia che ho cercato in qualche modo di imitare».

Cosa le manca dei suoi genitori?

preghiere san gennaro«Di mio padre l’ intelligenza, di mia madre l’ intelligenza e la capacità di comprendere e amare».

Si è sentito poco amato da suo padre?

«Nonostante i suoi lati buoni non credo che sia stato un padre affettuoso. Dall’ ingresso nell’ adolescenza fino alla maturità mi ha sempre ispirato un certo terrore».

Provocato da cosa?

«Quelli della sua generazione pensavano che la severità fosse un dovere educativo. Vede, io non è che brillassi a scuola. Me ne disinteressavo fino all’ ultimo mese, quando recuperavo tutto il programma non fatto. Ma intanto arrivavano le pagelle, spesso pessime e mio padre mi guardava con disprezzo. La sua presenza mi ha reso la vita infelice. Però era anche un gioco delle parti. Tra un padre e un figlio».

Le dispiace non avere avuto figli?

«Non lo so, non c’ ho mai pensato. Ho una specie di figlio adottivo che adoro, un nipote. Il solo difetto che è troppo serio».

Lo vorrebbe come?

«Se dovessi pensare a un figlio mio lo avrei incoraggiato a essere giocatore e puttaniere. Non sarei mai stato capace di essere severo. Avrei goduto della sua dissipazione».

Contro l’educazione repressiva?

«Contro ogni forma di repressione».

Come interpreta la parola “eros”?

«Della parola me ne frego, l’ eros deve essere piacere, anche solo fisico. Vengo da un’ educazione in cui la strada ha contato molto ».

TOTO'Le piace la canzone napoletana?

«Adorabile, anzi “adorabile” non è l’ espressione giusta. Intensa, profonda, effusa. Ho amato i cesellatori della mezza voce come Gennaro Pasquariello, il cui erede ai giorni nostri fu Robertino Murolo, quasi un parente per la nostra famiglia. Ho amato la sceneggiata e il varietà. Mio padre soffriva di insonnia. Erano gli anni in cui dilagavano le televisioni commerciali e private. E lui si metteva in poltrona davanti al piccolo schermo e passava le nottate a guardare certe commedie e sceneggiate napoletane. Ho appreso in quel contesto cose talmente mirabili da immaginarle come pura avanguardia culturale».

Gode a essere una specie di bastian contrario?

ovidio

Ovidio, poeta latino

«Non è che ci soffra. Lo riconosco. Sono stato la bestia nera dei salotti culturali e musicali di sinistra, soprattutto quelli milanesi».

E oggi?

«C’ è ben poco con cui valga la pena polemizzare».

Su che cosa sta lavorando?

«Ho finito di scrivere un breve saggio su Totò e uno molto lungo su Ovidio».

Totò e Ovidio sembra il titolo di una commedia.

« Non c’ avevo pensato. In fondo pochi come Totò conoscono l’ arte della metamorfosi».

Lo ha conosciuto?

«No, ma andai al suo funerale. Seppi della sua morte quando per i vicoli di Napoli le donne disperate gridavano “È muorto Totò”. Avevo sedici anni. Con un amico ci recammo nella piazza gremita di gente. C’ era una ressa soffocante. Poi il feretro uscì dalla chiesa. Ci fu la commemorazione toccante di Nino Taranto. Sulla bara era stata posta l’ immancabile bombetta. Tutti volevano sfiorarla, toccarla, abbracciarla. Fu la prima adunata di massa spontanea attorno a una morte che divenne rappresentazione teatrale».

Come vive il rapporto con la morte?

«Sono nato sotto un vulcano. E so che tutto è provvisorio ma al tempo stesso sento che la terra mi dà energia. Non ne ho paura. Semmai temo le circostanze del morire: la sofferenza innanzi tutto. Ben venga la legge sul biotestamento. La considero un fatto di civiltà. Anche se purtroppo ci sarà ancora a lungo una torbida alleanza tra quei medici che vogliono accanirsi e i preti che intendono gestire la vita e la morte delle persone. Quanto a me, mi auguro di campare ancora a lungo. C’ è un detto napoletano: “ogni juorno è truvato in terra”, ossia è regalato. Vorrei che il tempo che mi resta fosse dedicato alle cose meno effimere. È il mio proposito per l’ anno nuovo».

Cosa si aspetta o cosa vorrebbe che accadesse nel 2018?

«Dall’ anno nuovo vorrei: in politica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori (possibile forse, ma solo per breve tempo); nella cultura, e quindi anche nella musica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori, impossibile per definizione».

Intervista di Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

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Nel video potrete assaporare lo schietto carattere partenopeo di Paolino Isotta:

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