MARIO IL VISIONARIO

MARIO IL VISIONARIO

Da Hangzhou alle stelle. Chi era davvero Mario Tchou, l’ingegnere cinese nato in Italia che voleva rivoluzionare la Olivetti e la tecnologia.

E’ di questi giorni la notizia che la Italvolt, società italiana, con base a Milano, intende realizzare la più grande fabbrica per la produzione e lo stoccaggio di batterie a ioni di litio per veicoli elettrici di batterie d’Europa a Scarmagno, nella periferia di Ivrea, in Piemonte. In proposito scrive Linkiesta: ” il progetto è di Lars Carlstrom, imprenditore del settore automotive con oltre 30 anni di esperienza – già fondatore e azionista di Britishvolt – che ha deciso di costruire la prima gigafactory italiana con un investimento da 4 miliardi di euro: la prima fase del nuovo stabilimento dovrebbe essere completata nel 2024, con una produzione stimata di 45 Gwh l’anno (destinata a crescere fino a 70 GWh).” Si prevede da 10 a 15 mila assunzioni. Per costruire il colossale stabilimento di circa 300 mila m2 saranno anche utilizzati l’area e gli edifici che videro sorgere nel 1908 la Olivetti di Camillo Olivetti, il fondatore, e poi di Adriano, il figlio, il più avveniristico fra gli imprenditori italiani del secolo scorso. Torna così di attualità l’Olivetti e con lei la figura di Mario Tchou che “era stato capo e maestro, era stato compagno ed elemento trainante della più grande avventura tecnologica italiana. Lasciava dietro di sé un vuoto incolmabile. Aveva solo 37 anni”. Nell’articolo che pubblichiamo ne viene ricordata la figura.

Immaginate cosa potrebbe succedere oggi se il figlio di un diplomatico cinese in Italia iniziasse a lavorare per un gigante italiano della tecnologia. Se quel ragazzo si facesse strada tra i migliori talenti, sin da giovanissimo, e fosse messo a capo di un laboratorio di ricerca molto promettente. Di sicuro in America non potrebbe farlo.

Mario Tchou

Basti pensare al caso di Xiaoxing Xi, scienziato prolifico e autorevole, ex presidente del dipartimento di Fisica della Temple University di Filadelfia. Xi è nato in Cina, nel 1989 si è trasferito negli Stati Uniti, si è sposato, ha fatto due figlie, ha ottenuto una cattedra e un laboratorio di ricerca, e soprattutto è diventato un cittadino americano. “L’america mi ha dato l’opportunità di raggiungere un livello professionale che non avrei potuto immaginare quando ero un ragazzo in Cina”, ha raccontato Xi a un evento alla Camera dei rappresentanti americana e la fuga dei cervelli. “Il mio sogno americano è stato interrotto il 21 maggio 2015, poco prima delle 7 del mattino, quando qualcuno ha bussato forte alla mia porta e mi ha svegliato. Sono corso ad aprire e ho visto molte persone fuori dalla mia casa. Alcune erano armate, altre avevano un ariete pronto ad abbattere a mia porta. Un agente dell’fbi mi ha mostrato il suo distintivo, ha chiesto il mio nome e ha annunciato il mio… arresto”. Xiaoxing Xi è stato portato via dai federali con l’accusa di trasferire tecnologie e informazioni a Pechino, ma tutta l’accusa si basava su “quattro email trovate nel mio indirizzo ufficiale della Temple University”, e il tema riguardava collaborazioni accademiche nell’ambito di ricerche già note. Nel giro di quattro mesi è stato rilasciato, “Ma la nostra vita era stata distrutta, professionalmente, emotivamente, fisicamente e finanziariamente”, ha detto Xi.

Tre anni fa il governo super anticinese di Donald Trump ha lanciato un nuovo programma del dipartimento di Giustizia con l’obiettivo di reprimere lo spionaggio economico e le operazioni segrete d’influenza da parte della Cina. Del famigerato “China Initiative” si è parlato molto soprattutto per criticarlo, perché secondo analisti, studiosi e accademici non fa altro che sospendere ogni tipo di cooperazione scientifica tra America e Cina, e aumenta la discriminazione nei confronti degli asiatici-americani. I furti e lo spionaggio esistono da sempre, la competizione tra potenze nel campo tecnologico è la storia più vecchia del mondo: in America alcuni casi vengono scoperti, altre volte però l’fbi fa degli errori macroscopici. L’Amministrazione Biden non ha ancora deciso cosa fare della China Initiative, ed è un problema per quei 370 mila studenti e studiosi cinesi che sono negli Stati Uniti: non tutti sono delle spie, non tutti vogliono influenzare l’opinione pubblica e anzi, molti di loro a contatto diretto con la democrazia occidentale riconoscono i limiti del Partito unico cinese e del nuovo rinnovato autoritarismo di Xi Jinping. Spesso, per pregiudizio e ignoranza, l’ostilità si estende agli asiatici in generale.

Chissà che cosa avrebbe pensato di tutto questo Mario Tchou. Lo straordinario scienziato di origini cinesi, che nel 1955 iniziò a lavorare per la Olivetti e costruì il primo computer a transistor italiano – probabilmente il primo computer della storia – e morì in un incidente d’auto insieme con il suo autista il 9 novembre del 1961. Mario Tchou è una figura indimenticabile dell’industria italiana e internazionale, che diede un contributo fondamentale non solo alla Olivetti ma anche all’accademia americana. Di lui si parla spesso ma guardando solo agli ultimi anni della sua vita, quelli legati al nome di Adriano Olivetti e del colosso di Ivrea. Di lui si parla quando riemergono periodicamente le teorie del complotto, smentite dai fatti, riguardo alla sua morte. In realtà tutta la vita di Mario Tchou ha attraversato momenti fondamentali della storia delle relazioni internazionali, ed è un magnifico affresco della diplomazia, non solo politica ma anche scientifica, e dell’incapacità, tipica degli uomini visionari, di ragionare all’interno di confini ristretti. In un periodo come questo, in cui la polarizzazione della politica fa guardare con sospetto ai mondi lontani, Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, videomaker e autori di fumetti, hanno appena pubblicato per Solferino “La macchina zero. Mario Tchou e il primo computer Olivetti”. E’ la prima, forse l’unica vera biografia dell’ingegnere italocinese. E sì, Walter Veltroni non se ne stupisca, si tratta di un fumetto, anzi, una graphic novel: una forma narrativa perfino più efficace, in questo caso, della sola parola scritta. Perché alla capacità di Rocchi e Demonte di ricostruire una storia poco investigata – hanno studiato documenti originali in mandarino, sono risaliti alle connessioni tra l’Italia e l’Oriente – si affianca anche quella di trasformare in immagini potenti una vicenda che coinvolge uno dei periodi più importanti della storia del nostro paese e della Cina.

“La storia di Mario Tchou è simbolica”, scrive Ciaj Rocchi in uno dei contributi in postfazione, “E’ stato il primo italo- cinese in assoluto, di estrazione alto borghese, testimone e partecipe di un’epoca che si apriva al futuro senza remore. L’incontro con Olivetti è stato sì fondamentale, ma il contesto famigliare, l’ambiente diplomatico, la cultura cinese, gli studi classici, la specializzazione in campo scientifico negli States… sono tutti elementi che concorrono alla definizione di una personalità dai tratti unici, capace di metabolizzare e poi miscelare diversi ambiti, di sperimentare”. Sapeva bene chi fosse e cosa volesse, scrive Rocchi: “Parlava e si vestiva come un italiano, ma dentro di sé pensava anche in cinese”.

Il 26 giugno del 1924 il signor Tchou Yin riceve una telefonata a villa Alberoni a Roma, la sede dell’ambasciata cinese. Il suo secondogenito, un maschio, è appena nato. Decide di chiamarlo Mario. Tchou Yin è un uomo molto influente a Roma: viene da Hangzhou, aveva vissuto, nel 1911, la rivoluzione che aveva portato al rovesciamento della dinastia Qing. Nel 1915 parte per la prima volta per l’europa, cerca novità sulla produzione della seta, scopre l’Italia. Nel frattempo il Kuomintang e la neonata Repubblica di Cina di Sun Yatsen ( che poi, dopo moltissime vicissitudini, diventa l’attuale Taiwan) decidono di espandere la propria influenza all’estero con sedi diplomatiche in tutto il mondo. Tchou Yin nel 1918 diventa terzo segretario incaricato d’affari dell’ambasciata cinese in Italia, che allora era in viale Pola 12. Dopo tre anni lo raggiunge la sua promessa sposa, Evelyn. Il loro era un matrimonio combinato, ed Evelyn potrebbe sembrare un personaggio secondario in questa storia, ma ebbe una enorme influenza sui suoi figli, compreso Mario: era una donna emancipata, indipendente, nei limiti dell’epoca; “si interessava di diritti delle donne, aveva proseguito gli studi a Londra dove era entrata in contatto con a Women’s Suffrage Society e con la Women’s Rights League”. Una femminista! Fu proprio lei a portare i suoi tre figli, Maria, Mario e Laura, nel loro primo viaggio in Cina, a conoscere i nonni materni. Nel 1928 raggiunsero Hangzhou, e la famiglia di Evelyn: “La nonna era una donna in forma nonostante l’avanzare dell’età. Era stata una delle prime donne cinesi a non tenere più i piedi fasciati. Suo marito apparteneva a una famiglia progressista di letterati e giornalisti molto attivi nel paese”. I bambini restano in Cina per tre anni, una Cina estremamente diversa da quella che conosciamo ora. Si respira l’aria della democrazia, della libertà: “Voi ancora non sapete che cos’è una Repubblica”, dice la nonna ai bambini nella ricostruzione di “La Macchina Zero”, “Ma sappiate che è stato anche grazie al vostro antenato Wang Kangnian che in Cina oggi siamo tutti liberi di esprimere le nostre idee… Da allora, ci sono Wang in quasi tutti i continenti e hanno tutti grandi incarichi: come vostro padre Yin, fanno scelte importanti per il nostro paese”. E allora Mario fa la domanda più semplice, e più importante: “Ma noi, nonna, siamo italiani o cinesi?”. E la nonna risponde, davanti a una bandiera della Repubblica di Cina – quella che oggi rappresenta Taiwan, rossa e blu: “Cinesi, cinesi. Siete nati in Italia, ma restate cinesi, è la Cina la vostra patria, non abbiate mai dubbi su questo, la vostra forza viene dal clan”. Quando rientrano in Italia, la famiglia Tchou vede la propria situazione cambiare rapidamente. Dopo un primo innamoramento da parte del fascismo e di Mussolini per la Cina nazionalista, tutto viene subordinato all’alleanza col Giappone. In più, nel 1938, viene pubblicato il manifesto della razza. L’Italia fascista chiude l’ambasciata cinese. Tchou Yin riesce a farsi trasferire all’ambasciata presso la Santa Sede pur di restare a Roma. Poi arriva la guerra, e finalmente il Dopoguerra, la riapertura dei rapporti diplomatici. E’ in questo passaggio drammatico che Tchou Yin diventa il punto di riferimento dell’intera comunità cinese in Italia, “per i cinesi prigionieri nei campi fascisti”, scrive il professor Daniele Brigadoi Cologna nella postfazione, e “nell’immediato Dopoguerra rappresenterà la Cina presso la Commissione profughi del Comitato alleato, contribuendo alle operazioni di riconoscimento, certificazione, indennizzo e rimpatrio dei cinesi, allora ancora in gran parte sfollati in campi profughi”.

Nel frattempo Mario Tchou aveva finito le scuole italiane, e si era iscritto al corso di Ingegneria industriale della Sapienza, dove insegnava Edoardo Amaldi. Nel 1946 parte per gli Stati Uniti. L’istituto cinese di Washington, New York, i problemi economici, il matrimonio con Mariangiola Siracusa, poi quello con sua cugina, Elisa Montessori, e poi finalmente le grandi opportunità del mondo tecnologico in pieno fermento. Già da soli, gli anni americani raccontati nella biografia “La Macchina Zero” aiutano a capire perché Mario Tchou era destinato a grandi cose, anche prima della telefonata di Adriano Olivetti che cercava di mettere in piedi un team per la realizzazione di un calcolatore elettronico. Il primo. Quello che studiò, disegnò e inventò la squadra guidata da Mario Tchou. “Era stato capo e maestro, era stato compagno ed elemento trainante della più grande avventura tecnologica italiana. Lasciava dietro di sé un vuoto incolmabile. Aveva solo 37 anni”. L’incidente in cui morì Mario Tchou e il suo autista avvenne un anno dopo la morte di Adriano Olivetti. La divisione elettronica poco dopo venne smembrata e venduta, nel 1964, alla General Electric americana. “L’italia aveva definitivamente perso la sua occasione”. Un sogno italo- cinese.

Articolo di Giulia Pompili per il Foglio Quotidiano

NERIO RICORDA

NERIO RICORDA

 

LA STORIA DELL’OLIVETTI NEI RICORDI DI NERIO NESI, PARTIGIANO PIEMONTESE, POLITICO E BANCHIERE:un simbolo anche dell’ “approdo mancato” di tutta l’Italia, la traiettoria incompiuta della modernizzazione del nostro Paese.

 

  “Il saggio di Nesi, costruito secondo la tripartizione classica Camillo-Adriano-Roberto a cui si aggiunge la sezione su Laura (la figlia di Adriano, scomparsa due anni fa), va ad arricchire la corposa libreria della memorialistica olivettiana.

Macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, esposta al Moma di N.Y.

Ha, però, due caratteristiche che lo distaccano dalla maggioranza degli altri volumi: alla conoscenza diretta dei protagonisti di una storia anomala nel capitalismo europeo si aggiunge una capacità analitica fatta di cultura e di esperienza, che riesce a collocare le figure della famiglia Olivetti nel contesto storico, leggendone gli aspetti intimamente drammatici alla luce del loro tempo.” (dall’articolo di Paolo Bricco sul Sole 24 Ore di dicembre 2017)

 

Libro Olivetti di Nerio NesiPer comprendere la fine ingloriosa di una delle più gloriose esperienze imprenditoriali della storia d’ Italia, bisogna risalire a ragioni private e pubbliche, a contrasti familiari ma anche a responsabilità gravi della politica, incapace di partorire una visione industriale all’ altezza di quell’ azienda e del Paese. Da questa prospettiva, Le passioni degli Olivetti (Aragno, pp. 126, euro 18) di Nerio Nesi, saggio genealogico sulla dinastia Olivetti osservata, lungo tre generazioni, da un testimone di eccezione che in quell’ azienda ebbe un importante ruolo direttivo, aiuta a spiegare, senza certo giustificare, come sia stato possibile depauperare in pochi anni un patrimonio immenso di conoscenze e di innovazione, un capitale umano e aziendale, oltre che economico.

 

La famiglia. Ivrea, 1919: in piedi da sinistra Adriano, Elena e Massimo. Seduti Luisa Revel e Camillo Olivetti con il figlio più piccolo Dino. In basso da sinistra Silvia e Laura. Courtesy Fondazione Adriano Olivetti

Determinante, secondo Nesi, fu l’ azione, o meglio l’ inazione, della politica nella fase più delicata, il periodo di passaggio seguito alla morte di Adriano Olivetti, in cui la guida dell’ azienda fu assunta dal cosiddetto Gruppo di intervento composto da Fiat, Pirelli, IMI, Centrale, Mediobanca, a indiretta supervisione statale. In quella transizione, nonostante a presiedere il gruppo fosse stato mandato Bruno Visentini, vicepresidente della più importante holding dello Stato italiano, l’ IRI, il governo di allora – l’ esecutivo Moro, il primo di centrosinistra nella storia repubblicana – non fornì all’ azienda alcun aiuto.

Aldo Moro

Aldo Moro, democratico cristiano e più volte capo del governo. Fu ucciso nel 1978 delle Brigate Rosse

Non solo: lo stesso Visentini si oppose strenuamente a tutti i piani di innovazione promossi dal figlio di Adriano, Roberto, allora vicepresidente della Olivetti, che intendeva in modo lungimirante spostare il core business dell’ azienda dalla meccanica all’ elettronica, aprendola alle nuove tecnologie informatiche. Né Aldo Moro uomo di punta delle Dc e del compomesso storico, né, tanto meno, l’ allora ministro del Tesoro Emilio Colombo seppero invertire la rotta, forse condizionati da pressioni degli Stati Uniti che vedevano in una Olivetti forte una minaccia alla competitività delle proprie imprese.

bruno visentini

Bruno Visentini, esponente politico repubblicano e ministro delle finanze. E’ morto nel 1995.

Esito estremo di una diffidenza, se non ostilità, della politica italiana nei confronti del gruppo di Ivrea, maturata già ai tempi in cui era in vita Adriano che, da impolitico qual era, si sentì sempre un estraneo in Parlamento (al punto che preferiva entrarci dalla porta di servizio anziché dall’ ingresso di piazza Montecitorio), e confermata alla morte di quello, allorché al funerale non partecipò alcun esponente dell’ esecutivo, fatta eccezione per un oscuro sottosegretario.

Ma sarebbe riduttivo e disonesto ricondurre il progressivo declino della Olivetti esclusivamente alle omissioni o alle colpe della politica. Influenti, rileva Nesi, furono anche i dissidi familiari che emersero dopo la morte di Adriano quando, come ricordava il figlio Roberto, «l’ intenzione di accontentare tutti significò la distribuzione di cariche e quindi di funzioni manageriali ai diversi membri della famiglia, creando la premessa per la ramificazione delle discordie nell’ ambito dei più alti dirigenti della società».

ADRIANO OLIVETTI A IVREA

Adriano Olivetti, riferimento mitico per tanti contadini e allevatori del Canavese diventati operai e tecnici

Certo, nella mancata formazione di una classe dirigente in grado di sostituirlo, qualche responsabilità ebbe lo stesso Adriano, decisore iper-individualista e autoritario, che non prevedeva meccanismi di divisione o di delega dei propri poteri, accentratore che fece coincidere il destino dell’ azienda con il proprio nel momento stesso (e qua è il paradosso) in cui auspicava una proprietà collettiva dell’ impresa, nonché uomo ostile al cosiddetto “capitalismo dinastico”. La sua stessa successione al padre Camillo avvenne sì nel segno della dedizione filiale, ma anche di una feconda discontinuità, segnata da contrasto di visioni e dalla consapevolezza, da parte del “discepolo” Adriano, di aver superato il “maestro”.

roberto olivetti

Roberto Olivetti

Ancor più nettamente l’ascesa ai vertici aziendali di Roberto rappresentò uno scarto rispetto alla figura paterna, sia per ragioni caratteriali (il figlio di Adriano era molto meno decisore rispetto a lui), sia per il senso della propria missione in azienda (Roberto non era animato da un’ ispirazione quasi religiosa come il padre) sia per scelte strategiche (mentre Adriano rifiutò sempre l’ adesione alla Confindustria, il figlio preferì dialogare con le rappresentanze del mondo industriale).

Nerio Nesi

Neri Nesi. Venne assunto alla Olivetti nel 1958 a 32 anni.

Più probabilmente, tuttavia, la spiegazione della sconfitta del modello olivettiano va trovata nella natura stessa delle politiche industriali del nostro Paese, basate su un capitalismo leggero, quello delle piccole e medie imprese, e non in grado di promuovere o sostenere i grandi gruppi, facenti capo alle grandi famiglie proprietarie. Destinate, loro malgrado, a restare anomalie, eccezionali, ma pur sempre anomalie di breve durata.

Articolo di Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano

 

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