LE BATTAGLIE GIOIOSE DI CAPPATO

LE BATTAGLIE GIOIOSE DI CAPPATO

 

 

Il libro di Marco Cappato Credere (dis)obbedire combattere (Rizzoli, pag. 247 euro19,00), è articolato per capitoli che sono altrettanti topos della storia dei radicali italiani. Una nobile storia di diritti civili che, come Cappato stesso sottolinea con inevitabile rammarico, è stata “riconosciuta per il passato, meno per il presente”. Sorte inevitabile in una società refrattaria e impaurita com’è quella attuale. Fregio d’onore per le avanguardie- cui Cappato rivendica di appartenere- citando come esempi la nascita, nel lontano 1993, del partito transnazionale e transpartitico, sorta di antisignana “globalizzazione” politica; oppure della creazione nel 2000 di Agorà telematica, piattaforma che permise, con i mezzi di allora, di avviare le prime votazioni on-line per la scelta dei candidati radicali (ben prima dei 5 Stelle).

Molti gli argomenti trattati, fra loro non sempre omogenei, in cui il dato autobiografico si intreccia inevitabilmente con eventi che hanno caratterizzata la vita pubblica italiana dagli ultimi 20 anni del ‘900 ai nostri giorni. “Eutanasia, droghe, sesso, internet, genetica, scienza e diritti umani non sono temi a caso”- scrive Marco Cappato per spiegare la struttura del libro- “Se una strategia di rilancio della democrazia liberale può consistere nel fare meno per fare meglio (meno leggi, meno spese inutili, meno proibizionismi, meno burocrazia, più conoscenza, più equità, più laicità), è bene iniziare proprio di settori dove la presenza dello Stato spesso è non solo inutile, ma anche controproducente”.

La ripresa dell’antico slogan fascista, con l’aggiunta di un “dis” fondamentale non è soltanto una trovata dell’editore, in quanto è la disobbedienza a fornire la chiave di lettura più utile per capire il libro. Spiega Cappato: l’atto del disobbedire, non è solamente ciò che appare, cioè violare le regole (e quante volte Cappato l’ha fatto), bensì cambiare le regole. E il metodo non può essere che la nonviolenza, che come un filo rosso collega fra loro intimamente le diverse pagine del libro.

Cappato, che è al suo primo libro, non è autore che ricostruisce affreschi d’epoca o personaggi se non legandoli a fatti concreti, non ha la vocazione dello storico, ma del semplice cronista. A volte risulta un poco reticente, come quando affronta il suo lungo sodalizio con Pannella. Il lettore cercherà invano qualche aneddoto, magari piccante, qualche giudizio ruvido su un uomo eccezionale e perciò discutibile, su un compagno e una presenza “difficili”, elementi che avrebbero resa le lettura ancora più interessante. Ma forse è troppo vicina la scomparsa del vecchio mulo abruzzese, e sarebbe stato oltremodo difficile per Cappato riuscire a sottrarsi ad una ricostruzione inevitabilmente edificante o reticente sulla figura di Pannella. Magari nel prossimo libro. Nel frattempo eccovi alcuni spunti.

Liberi di sorridere, fino alla fine.

Molto intense le pagine dedicate all’autanasia. Fra le diverse testimonianze, quella toccante di Piergiorgio Welby, di cui Cappato pubblica la lettera che Piergiorgio scrisse al presidente Napolitano. “La morte non può essere <dignitosa>; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita”.. “Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine a una sopravvivenza crudelmente <biologica> io credo che questa sua volontà debba essere rispettata e accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico” Cappato ripercorre le tappe più significative dei radicali sul tema: la proposta di legge sull’autanasia presentata 33 anni fa dal deputato socialista Loris Fortuna; il caso Welby, a 11 anni dalla sua morte; la proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’autanasia, da quattro anni ferma in Parlamento, sommersa da migliaia di emendamenti. Ma Cappato resta ottimista: “Grazie alle azioni di disobbedienza civile abbiamo portato il dibattito a un punto di non ritorno, non solo per quello che abbiamo fatto, ma per quello che faremo”.

Un maestro Manzi digitale

Interessante la posizione di Cappato sul tema dell’informazione pubblica e il suo ruolo. Già negli anni ottanta i radicali invitarono alla disobbedienza fiscale per protestare contro il carattere manipolatorio dell’informazione. Ancora oggi, nonostante il canone, la RAI continua a fornire servizi che in nulla si caratterizzano rispetto al mercato. La presenza di circa 800 canali solo sul digitale terreste, pone legittima la domanda: ma è ancora necessario un servizio pubblico? Cappato risponde sostanzialmente di sì, a patto che, come il maestro Alberto Manzi contribuì ad alfabetizzare gli italiani nel dopoguerra, oggi la RAI si dia il nuovo compito di alfabetizzare al digitale i cittadini, contro fake news e manipolazioni, fornendo loro “strumenti per verificare le informazioni che si trovano in rete e per attingere all’immenso patrimonio di dati pubblici che restano in gran parte inutilizzati..”.

Immagini tratte dal XIV Congresso Associazione Luca Coscioni

Il mulo abruzzese

Come accennavo, non poteva mancare un capitolo dedicato al rapporto di Cappato con il “vecchio mulo abruzzese”, Marco Pannella. “Non piango quasi mai, e so che è il mio limite”, scrive di sé Cappato, ma quando rievoca i suoi anni di apprendistato e poi di collaborazione piena con Pannella, l’emozione traspare, seppure contenuta all’interno dei ragionamenti rigorosi di impegno civile, di idee che “stanno attaccate alla carne e alla pelle, trasmettendo un’integrità che chiede di essere con-vissuta più che contemplata per se stessi”.

La storia inizia a Monza nell’inverno del 1992, quando Pannella è lì per un comizio, ma l’investitura avviene nel 1995, quando Giacinto gli offre di seguire la pattuglia radicale al Parlamento europeo. Si incontrano a Linate, a due passi dallo stabilimento della Romagnoli, fabbrica di prosciutti e mortadelle, dove Cappato si occupava di sicurezza e igiene del lavoro. “Iniziò così la nostra storia, che mi portò per più di vent’anni tra Roma, Bruxelles, Strasburgo, New York: decine di migliaia di ore di riunioni e di fumo.. nella stanza comune di via della Panetteria a Roma e rue Hottat a Bruxelles…pastasciutte in quantità illegale, tante sambuche con le mosche e qualche digiuno, voce che spacca i timpani, mani che sanno accarezzare, mani che picchiano sul tavolo come badili, voce che sussurra.”

Cappato pubblica uno stralcio significativo della lettera che Pannella scrisse nel 1973 a Majid Valcarenghi, primo obiettore di coscienza e fondatore della rivista di controcultura Re Nudo, in voga negli anni ’70.

Egli la considera un manifesto dei principi del radicalismo: “Tu sei rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari….. i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente col suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione…. Non credo al potere, e ripudio perfino le fantasia se minaccia di occuparlo… L’etica del sacrificio, della lotta eroica, dalla catarsi violenta mi ha semplicemente rotto le balle, come al “buon padre di famiglia”, al compagno chiedo una sola cosa prima di ogni altra: di vivere e di essere felice”.

Per completare l’esposizione del pensiero politico di Pannella, Cappato riporta il commento del leader radicale su un verso di Arthur Rimbaud: ”le raisonnable dérèglement di tuos les sens”, dove l’accento veniva posto sul “ragionevole” modo di procedere, cioè sul metodo riformista. Deregolamentazione ragionevole dello Stato, che si deve liberare delle regole inutili, per ricostruirsi, sempre credendo nella forza della legge e del diritto.

La nonviolenza è pubblica o non è.

In diverse parti del libro Cappato ribadisce e approfondisce il concetto di nonviolenza, “per i radicali scritto tutto attaccato: non un semplice atteggiamento passivo di assenza di violenza, ma una costante opera attiva per convertire la violenza nel suo opposto”. Precisa ancora:” la disubbidienza civile si distingue dal ribellismo distruttivo nello stesso modo in cui la forza si distingue dalla violenza: in ragione degli scopi e dell’attenzione alle regole…” Il pacifismo ideologico, che si traduce in strategia dell’inerzia che accetta e subisce regole ingiuste, non va confusa con la nonviolenza che è sempre disobbedienza etica, responsabile, basata su principi, ”con lo scopo di produrre vantaggi per la società”.  Interessante quanto Cappato scrive sul fatto che la nonviolenza non può che essere atto pubblico. Con ciò risponde a chi lamenta una fastidiosa attitudine “esibizionistica” e “querula” appiccicata ai radicali. Così argomenta efficacemente Cappato: “La disobbedienza civile è conoscenza. Nel senso che non funziona se non è pubblica, conosciuta. Nel senso che serve essa stessa a produrre consapevolezza. Infine, nel senso che mette in discussione idee acquisite, con un processo simile a quello della ricerca scientifica… la pubblicità è l’anima della nonviolenza” Sono parole che Carl Popper avrebbe sottoscritto. Sarà per questo che ricerca scientifica e verità fattuale sono oggi così malmesse? La scienza screditata ha la peggio sul passa parola e sulla disinformazione asinina; le panzane, le bufale e la post- verità delle fake-news sbaragliano sulle verità di fatto.

UN ETERNO RAGAZZO CONTROCORRENTE

Le ultime righe del libro, riassumono efficacemente la posizione di Cappato, venate da un idealismo che gli fa onore e un ottimismo che sembrerebbe fuori luogo, se non provenissero da un politico oramai esperto e rimasto fedele a se stesso per tanti anni. La realtà politica e sociale internazionale, e quella italiana tanto degradata, purtroppo smentiscono, con i loro quotidiani squallori, tanto ottimismo. Anche in questo Cappato continua ad essere controcorrente, un eterno irregolare, un visionario concreto che crede ancora nell’uomo, nella ragione, nel dialogo, nella politica e, da ultimo, nella possibilità di essere felici.

“Tra un sapere imposto da vecchie autorità screditate e un sapere autoreferenziale e rabbioso, va costruita con pazienza e determinazione l’alternativa: una conoscenza umile, dialogica, ancorata ai fatti. Per riuscire nell’impresa, è utile portare il metodo scientifico al cuore della politica e investire nella formazione di spirito critico. Ed è indispensabile <gente ordinaria> che, di fronte a ordini ingiusto, provi a disobbedire ed essere felice.”

Dunque: credere sempre, combattere sempre, dissobbedire sempre per cambiare il mondo.

Per approfondimenti:

sito ufficiale: www.marcocappato.it  

Associazione Luca Coscioni: www.associazionelucacoscioni.it

E su questo blog, sulla figura di Pannella:ninconanco.it/pannella-la-politica-che-divora/   e ninconanco.it/i-toscanelli-di-pannella/

 

 

 

GIACINTO, AD UN ANNO DALLA MORTE

GIACINTO, AD UN ANNO DALLA MORTE

VIVE E COMBATTE CON NOI IL PERDENTE DI SUCCESSO PIU’ INTRIGANTE DEI NOSTRI TEMPI: MARCO PANNELLA,RADICALE, SOCIALISTA, LIBERALE, FEDERALISTA EUROPEO, ANTICLERICALE,ANTIPROIBIZIONISTA, ANTIMILITARISTA, GANDHIANO, NON VIOLENTO. 

 

Chiunque abbia avuto la fortuna di trovarsi a festeggiare l’esito del referendum sul divorzio, la notte del 13 maggio 1974 a Roma, ha ancora negli occhi l’immagine di Marco Pannella arringante su un podio improvvisato a Porta Pia. Non tripudiava per la vittoria prevista da pochissimi. Instancabile, ingaggiava nuove battaglie. Fosse stato per lui si sarebbe dovuto iniziare quella notte stessa, senza neppure brindare al voto che aveva rivelato quanto l’Italia fosse cambiata. Quel comizio notturno era la consacrazione di una star della politica italiana. Forse la prima, perché se oggi appare ovvio che un partito si identifichi totalmente con il leader, e che quel leader calchi le scene come un consumato attore, nella prima Repubblica le cose stavano diversamente. Pannella era un’anomalia. Ci sono voluti decenni per scoprire che aveva aperto una strada, indicato una direzione.

 

Marco Pannella ritratto da Giovanni Gastel

Marco Pannella ritratto da Giovanni Gastel

Da quel palcoscenico Giacinto Pannella, detto Marco, non è più sceso. Ha campeggiato fino all’ultimo, torreggiando dai suoi 190 cm e passa di statura, con la lunga coda di cavallo bianca come la neve sempre curatissima, impegnato stavolta in una guerra contro non uno, ma due cancri: perché Marco Pannella è esagerato, straripante, in tutto. Anche nella malattia affrontata senza rinunciare a una sola boccata delle sue sessanta sigarette quotidiane. Pannella, croce e delizia di chiunque incroci la sua strada. Dei politici sempre sotto tiro, certo, ma non solo. È un incubo per i malcapitati cronisti a cui tocchi l’ingrato compito di intervistarlo: la prima risposta occupa un paio d’ore, e prima della seconda il tempo è scaduto, gli impegni incalzano, sarà per la prossima volta. È un flagello per i tassinari della Capitale, che quando lo vedono avvicinarsi fuggono. Sanno che il litigio è inevitabile. Non si contano gli autisti a cui è capitato di vederlo scendere a metà corsa, insalutato ospite, solo per avergli chiesto di spegnere l’immancabile sigaretta.

I difetti di Pannella, il narcisismo estremo, l’irruenza torrentizia, il vittimismo spesso sbandierato ad arte li conoscono tutti. Ma tutti sanno anche di dovergli molto e qualcuno tutto, persino la vita, come il magistrato Giovanni D’Urso sequestrato nel dicembre 1980 dalle Brigate rosse. Per non ammazzarlo chiedevano la pubblicazione di un loro comunicato. Molti giornali e la Rai rifiutarono, Pannella mise lo spazio destinato al suo partito su Tribuna politica a disposizione della figlia del rapito, che lesse il comunicato e salvò il padre. Quello del magistrato è un caso estremo, certo. In compenso sono milioni quelli che devono al logorroico più famoso d’Italia qualcosa d’importante.

Il divorzio per esempio, che senza la sua Lid, Lega italiana divorzio, fondata nel ’66, quando era padre e padrone di un Partito Radicale da appena tre anni, sarebbe arrivato in Italia chissà quando. E senza la sua vigilanza occhiuta la legge sul divorzio, approvata nel ’70, sarebbe stata strangolata in culla. Il Pci temeva tanto il referendum abrogativo voluto dalla Dc da essere pronto a cedere il cedibile pur di evitarlo. Poi l’aborto, anche quello un referendum abrogativo voluto dal fronte contrario alla legge sull’interruzione di gravidanza. Pannella, con una delle sue trovate migliori, rispose controproponendo un referendum alternativo che mirava ad allargare le maglie della legge. Furono sconfitti entrambi, nel 1981. Però non si trattò certo di pareggio.

Marco Pannella. Foto di Giovanni Gastel

Marco Pannella. Foto di Giovanni Gastel

Ma la lista delle guerre di Marco è interminabile: la fine del servizio di leva obbligatorio, i diritti gay, la depenalizzazione dell’uso privato degli stupefacenti, sovvertita da quella legge Fini-Giovanardi che la Corte costituzionale ha poi dichiarato incostituzionale, la campagna contro la pena di morte nel mondo e contro l’ergastolo in Italia, quella per il diritto a decidere sulla fine della propria vita e quella sulla libertà della ricerca scientifica anche quando, come nel caso della ricerca sulle cellule staminali viene osteggiata dall’etica religiosa. Molte volte Marco Pannella ha vinto, molte altre ha perso. Nonostante sia riuscito a mobilitare addirittura il Papa e il presidente della Repubblica a favore di un provvedimento di indulto e amnistia, la paura dei partiti è stata più forte. La campagna per rendere più civili le carceri italiane è per ora fallita, così come quella per l’abolizione dell’ergastolo e parecchie altre. Ma il leader radicale è puntualmente riuscito a imporre i temi delle sue crociate, a renderli urgenti per l’intera opinione pubblica, anche quando sembravano troppo astratti per coinvolgere al di fuori di ristrette cerchie.

Marco Pannella alla manifestazione contro il DDl Fini nel 2008

Ce l’ha fatta grazie agli aspetti più impervi del carattere, alla testardaggine, all’egocentrismo e all’ossessività: è uno di quelli in cui separare le doti dai difetti non è possibile. Deve ai secondi quasi quanto ai primi. Anche il metodo delle sue lotte politiche, Giacinto detto Marco se lo è fatto dettare dal naturale istrionismo. In un universo dominato dalle trattative discrete e dagli accordi sotto banco come quello della politica italiana, Pannella e i suoi Radicali hanno puntato tutto sulla platealità del gesto provocatorio. Hanno fumato e offerto spinelli spesso sotto gli occhi della forza pubblica, “regalando” alla conduttrice Rai Alda D’Eusanio, nel 1995, addirittura 200 grammi di hashish. Negli anni della mobilitazione per la legge sull’aborto, le dirigenti e i dirigenti del partito si sono autodenunciati confessando di aver agevolato clandestinamente migliaia di aborti. Pannella ha sottoposto il proprio corpo allo stress permanente di un rosario di scioperi della fame e della sete che avrebbe demolito persone dalla costituzione meno robusta. Se necessario, come quando nell’80 cercava le firme per un’ondata di ben dieci referendum, non ha esitato a presentarsi in tv mascherato da clown.

A tutt’oggi questa metodologia politica, a metà strada tra Gandhi e la teatralità, resta un copyright dei Radicali. Ma non è detto che il leader del PR non si riveli anche in questo un precursore, come gli è capitato spesso non solo nel metodo ma anche nel merito delle sue crociate. Quando iniziò la crociata contro il sistema dei partiti della Prima Repubblica, l’“ammucchiata della partitocrazia”, sembrava davvero un desolato don Chisciotte. Però nel 1978 il suo referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti raggiunse il 43,6%, pur essendo una sfida dei Radicali contro tutti. Quindici anni dopo, quelle parole d’ordine erano merce comune. Il nuovo referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico, nel ’93, fu trionfale. Ma sbaglierebbe di grosso chi, non avendo vissuto quegli anni, immaginasse un conflitto livoroso e pieno di rancore tra Pannella e i capi della Prima Repubblica. Tra quel sistema e il censore che non perdeva occasione per denunciarne i vizi correva un rapporto intimo. Il potere riconosceva in Marco la propria cattiva coscienza. Lo apprezzava come una sorta di monito permanente, il cui martellamento rammentava a tutti cosa la Repubblica avrebbe dovuto essere, cosa aveva promesso di essere.

Marco Pannella. Foto di Giovanni Gastel

L’esempio più eloquente è di certo l’eterno conflitto con Francesco Cossiga, che a guardarlo da lontano sembrerebbe un prolungato duello rusticano. Quando nel 1977 i Radicali decisero di violare il divieto di manifestare a Roma imposto dal ministro degli Interni Cossiga, ci rimise la vita una ragazza, Giorgiana Masi, e Pannella accusò proprio Cossiga di omicidio. Quando poi Cossiga si trasformò nel presidente picconatore della Repubblica, Pannella lo denunciò per attentato alla Costituzione. Però proprio in quei giorni, nel corso di una delle tante campagne del partito per l’autofinanziamento, l’attentatore si presentò da Marco col suo bravo milioncino in contanti. E quando il picconatore era prossimo alla fine il messaggio più commosso fu proprio quello dell’arcinemico: «Spero ardentemente che ce la faccia. Come potrebbe compiere un orrendo tradimento verso un intimo amico andandosene per togliermi ogni speranza di potergli portare un giorno le arance in carcere?».

Pioniere della politica moderna in tante cose, Pannella non lo è nella degenerazione incarognita del confronto. Può mimarla e lo fa spesso. Ma sempre di spettacolo e recitazione si tratta. Figurarsi se a uno così smagato nell’arte sottile della propaganda potevano sfuggire le enormi possibilità offerte dal portare alla ribalta personaggi che, per la loro biografia o per le vicende che li avevano visti coinvolti, rappresentavano di per sé una provocazione fragorosa. Come un principe di Madison Avenue, Marco si è sempre preoccupato di accompagnare alla campagna di turno il testimonial adatto: Domenico Modugno, colpito da ictus nell’84, per quella a favore dei disabili, Luca Coscioni, docente malato di sclerosi multipla per quella sulla libertà di ricerca, Eluana Englaro, in coma per 17 anni, e suo padre Beppino per la campagna sulla libertà di morire.

C’è stata anche la pornostar Ilona Staller. Condidata nel 1987, risultò la più votata dopo il leader, ma l’esito fu deludente. L’attività di Cicciolina non andò mai oltre la meccanica e svogliata esposizione di una tetta in pieno emiciclo.

La delusione era stata molto più cocente con Toni Negri, detenuto per il “processo 7 aprile” e candidato nel 1983. La provocazione si inseriva nel quadro della campagna contro le leggi emergenziali e avrebbe dovuto essere dirompente. Pannella sapeva che non ci sarebbe voluto molto perché il Parlamento autorizzasse un nuovo arresto per Negri, accusato di essere la testa del terrorismo rosso. A quel punto l’onorevole detenuto avrebbe dovuto chiedere, come suo diritto, di partecipare a tutte le sedute della Camera, scortato da guardie armate. L’effetto sarebbe stato un clamoroso stillicidio. Invece il professore preferì la latitanza, fuggendo proprio mentre Pannella annunciava solennemente che si sarebbe costituito.

Con Enzo Tortora andò in maniera opposta. Il popolarissimo presentatore, arrestato per la falsa accusa di un pentito di camorra, fu eletto nel 1984 al Parlamento europeo. Condannato in primo grado si dimise, rinunciando così all’immunità. Negli ultimi anni della sua vita Tortora, assolto in appello e in Cassazione, dedicò tutte le sue energie alla politica radicale, diventando il testimonial della campagna per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati dell’87. Quel referendum occupa un posto particolare nel palmarès di Pannella. È una delle sue più brillanti vittorie e delle più brucianti sconfitte. Il quesito fu approvato con oltre l’80% dei voti, ma l’esito del referendum fu ignorato come se nulla fosse.

Marco Pannella. Foto di Giovanni Gastel

Marco Pannella. Foto di Giovanni Gastel

Pannella è stato un precursore anche sotto un altro aspetto. Chi può dire, infatti, se sia stato di destra o di sinistra? Di sinistra sono state di certo le innumerevoli campagne sui diritti civili. Però in politica economica ha portato la fede liberale agli estremi, fino a sconfinare nell’apologia del liberismo. E proprio lui, il pacifista che nell’80 aveva fatto votare un preambolo in cui si definiva la non-violenza “legge storicamente assoluta senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa”, si poi è schierato a favore dell’intervento militare nel Kosovo del 1999 e contro il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan.

Lui stesso, del resto, negli anni bipolaristi della seconda Repubblica ha civettato con entrambi i poli. Un po’ per convinzione e spirito di contraddizione, un po’ perché la sua ossessione fissa è salvare la sempre pericolante Radio Radicale, fondata nel 1976. Per farcela ha trattato davvero con tutti, ma la posta vale la candela. Gli archivi di quella meritoria radio hanno e avranno per cronisti e storici un valore inestimabile. I molti che di recente hanno preso gusto a dichiararsi “né di destra né di sinistra”, però, dovrebbero esitare prima di iscrivere il radicale “larger than life” nel loro albero genealogico. Perché l’affermazione non suoni stridente come una moneta falsa bisogna avere la personalità e la biografia di Marco Pannella. Non è da tutti.

Articolo di Andrea Colombo per http://www.rollingstone.it/
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OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

L’AUTOIRONIA DI UN PICCOLO,GRANDE VECCHIO: ROBERTO GERVASO– UN PO’ GIORNALISTA, UN PO’ STORICO, UN PO’ COSI’..-  UN’INQUIETUDINE CREATIVA CONSUMATA FRA LIBRI, AFORISMI E DONNE- L’ITALIA?: CHE PALLE!!

 

Roberto Gervaso con la moglie

Roberto Gervaso. Trecento papillon, cento cappelli («tutti Borsalino, li porto sempre. Un po’ per proteggermi, un po’ per vezzo»), duecento donne amate («tu selezioni molto? Io per niente: ho preso di tutto nella vita, duchesse e commesse, miss e bruttine, anche una teologa, anche una zoppa, anche una balbuziente che ritrovava la parola solo a letto…»), una moglie bellissima («che in un momento di distrazione si è invaghita di me»), una figlia («fa la giornalista…»), tre nipoti («è come avere l’Isis in casa»), quattro case tra Milano, Palermo, Roma e la campagna romana – dove passa l’estate e lo incontro – un domestico filippino che canta magnificamente i Platters, un formidabile elenco di malattie («ne ho avute tante, ora ne ho ancora di più»), un Himalaya di medicine sparse per la villa («vuoi qualche goccia di Lexotan?»), tre depressioni devastanti («a 23, 34 e 70 anni, in tutto mi hanno portato via dieci anni di vita»), una vita vissuta «in uno stato di inquietudine perenne», sessant’anni di carriera tra quotidiani, settimanali, radio e tv, duemila interviste entrate nella storia del giornalismo, 25mila aforismi usciti dalla sua intelligenza, 52 libri pubblicati («più uno in arrivo, a ottobre, un pamphlet sulla storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo, titolo: Che palle!») e ottant’anni compiuti oggi.

Indro Montanelli, giornalista e divulgatore storico

Auguri, Robertino. «Robertino mi chiamava Montanelli. Gli devo tutto: andai apposta a Roma per conoscerlo, il mio regalo della “maturità”, era il ’56, quando leggevo e ritagliavo tutti i suoi pezzi. Mi prese a ben volere: mi fece entrare al Corriere d’informazione, poi al Corriere della sera, mi fece scrivere con lui sei volumi della Storia d’Italia, per la quale mi associò – per i diritti d’autore – al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15…

A proposito: sai quanto abbiamo venduto? Diciotto milioni di copie… Comunque. Mi ha aiutato a diventare inviato, per anni mi ha ospitato a casa sua o al ristorante a colazione, mi ha insegnato tantissimo in questo mestiere. Mi voleva così bene…».

Che a un certo punto iniziò a girare la voce che tu fossi suo figlio.

«Aveva 28 anni più di me, ero magro come lui. Ci stava… Io l’ho sempre trovata una cosa divertente».

E lui?

«Con lui non ne abbiamo mai parlato. Però una sera mia moglie fece una cena, a Palazzo Visconti, a Milano. Una cosa sontuosa. C’erano tutti quelli che contavano, per capirci. A un certo punto si avvicina al mio tavolo Maria Gabriella, la figlia di Maria José, l’ultima regina d’Italia, con la quale Montanelli ebbe una relazione, si conobbero a Cortina… Insomma, guardando mia moglie, mi abbraccia e dice: “Ecco Roberto, mio fratello…”. Ci scherzava anche lei sul fatto di essere figlia di Indro. Nel suo caso può essere. Nel mio, una cosa su cui ridere. Come ho sempre fatto: su tutto».

La vita è una commedia?

«Che finisce in tragedia. Ma che ha momenti farseschi e altri drammatici».

Hai avuto tanto dalla vita.

«Ma ho dato tutto. Ho voluto fortissimamente il successo, per ambizione e per vanità, però ho pagato fino all’ultimo centesimo. E con la moneta più pesante: la salute. Forse è giusto così. Se dovessi scegliere una religione…».

Ma se sei ateo…

«No. Deista, agnostico, laico, scettico, un po’ cinico. Ma non ateo».

Continua. Se dovessi scegliere una religione… 

«Sceglierei il buddismo. Dalla vita riceviamo tutto ciò che le diamo. Il paradiso non lo so. Ma l’inferno lo scontiamo in terra. Lo sapevano bene il dottor Schweitzer o madre Teresa di Calcutta… Ecco. Tornando indietro, farei il missionario. Ma lo dico oggi, a ottant’anni. Quando ero giovane mi mancava la vocazione.Meglio così. Avrebbe contrastato la mia ambizione».

Se quando si è giovani non si sa cosa fare nella vita, si finisce per fare o il politico o il giornalista. L’hai detto tu.

«Sì, perché sono due dilettantismi. Il giornalismo ha il merito di farti approfondire la superficialità degli altri, la politica il demerito di corrompere la tua onestà». Tu hai scelto il giornalismo. «Io volevo arrivare. E sono arrivato».

Dove?

«All’ultima fase della vita. Nella prima devi guardare avanti. Nella seconda in alto. Poi, a un certo punto, devi guardarti dentro. Io sono arrivato qui».

Sei partito ottant’anni fa. Nato a Roma, 9 luglio 1937, sotto il segno del Cancro.

«E dell’improvvisazione».

Hai studiato in Italia e negli Stati Uniti.

«Con molta svogliatezza e poco profitto».

Ti sei laureato in Lettere moderne.

«Immeritatamente».

Hai fatto: cronista, inviato, intervistatore, editorialista, commentatore, conduttore radiofonico e televisivo… Cos’è il giornalismo?

«Quello di ieri era una forte inclinazione, forse addirittura una vocazione. Con un suo codice morale, un’etica civile, un rispetto per il lettore ma anche per il fattorino. Ed eleganza: io andavo in redazione in blazer grigio, dando del lei ai superiori e accettando le critiche. Una missione. Una vita da certosino, come mi aveva detto Indro all’inizio. Scrivere e leggere, leggere e scrivere. Mai fatto parte di un sindacato, mai votato, mai lanciato proclami, mai firmato appelli. Solo i miei pezzi».

E il giornalismo di oggi?

«È diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura. I giornalisti di oggi, a parte quelli culturali, non leggono nulla. Un mestiere che ti fa sentire molto più importante di quello che sei in realtà, che tifa guardare continuamente l’orologio, che ti fa cercare ciecamente quel colossale imbroglio che è lo scoop… È un giornalismo che è stato soggiogato alle ideologie. Non nel senso che i giornalisti abbiano delle ideologie, ma nel senso che le hanno sdoganate per fare carriera, perdendo il bene più prezioso: l’indipendenza. Da qui, l’omologazione dei giornali e dei giornalisti. Tutti uguali».

Tu, per distinguerti, hai inventato un genere. Domande fulminati, risposte rapidissime. Hai intervistato mezzo mondo. E nei ritagli di tempo, non senza irriverente indulgenza, anche te stesso.

«Tutti dicono che la cifra delle mie interviste sia la brevità, che è figlia della chiarezza. Vero. Ma l’essenza è la volontà di non annoiare. L’intervistatore non deve mai annoiare l’intervistato, e l’intervistato deve divertire l’intervistatore. Se le due cose accadono, escono delle belle interviste».

La tua più bella? 

«A Georges Simenon. Andai a trovarlo a Losanna, dopo che gli era morta la figlia, la quale aveva per lui una devozione passionale che rasentava l’erotismo. Aveva abbandonato un borgo tutto suo – dove viveva con uno stuolo di cameriere, segretarie, governanti, tutte donne, tutte che avevano sottoscritto un contratto in cui accettavano di avere rapporti sessuali con lui in qualsiasi momento della giornata – per trasferirsi, con la terza moglie, in una casetta a schiera. Non faceva più nulla, se non dettare le sue memorie. Mi fece vedere il passaporto. C’era scritto: “Georges Simenon. Pensionato”.

Gli chiesi perché questa scelta. Mi rispose: “Perché nella vita, con gli anni e i dolori, ti accorgi che le cose importanti sono poche. E le superflue ti distraggono da quelle essenziali”. Detto da uno che ebbe novemila donne in vita sua… Comunque, bella intervista».

La più brutta? 

«A Coretta King, vedova di Martin Luther King. Maleducata, insolente, razzista. Essendo io bianco, mi trattò come un negro. Mi girò le spalle per tutto il tempo del nostro incontro, sbocconcellando arance. La minoranza che si era emancipata, ora doveva dimostrare la propria superiorità. Patetico».

La più inutile?

«Ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua. Fui l’ultimo a intervistarlo prima che fosse cacciato, e poi ucciso. Mi offrì l’ananasso più buono che abbia mai mangiato. Ma mi raccontò solo bugie. Propaganda e nient’altro. Mi diceva che il Nicaragua era felice sotto di lui…»

L’intervista che avresti voluto fare e non hai fatto? 

«A Nixon, il migliore presidente che l’America abbia mai avuto, e a Deng Xiaoping, senza il quale la Cina moderna non sarebbe mai nata. Due statisti giganteschi. Ma che non mi hanno dato l’intervista»

Un’altra a che faceva grandi interviste era Oriana Fallaci.

«Giornalista più passionale che appassionata. Più spericolata che coraggiosa. Più ambiziosa che imparziale. E comunque aveva il difetto di intervistare prima se stessa, poi il suo interlocutore. Le sue domande era lunghissime, anche più della risposta. Molto furba. Una volta incontrai William Colby, già direttore della Cia negli anni Settanta. Era furente con la Fallaci: diceva che lei gli aveva mandato delle domande, lui aveva risposto, e poi lei aveva pubblicato l’intervista con delle domande diverse, cambiate all’ultimo. Lui ne usciva massacrato».

Litigaste, tu e la Fallaci.

«La intervistai per un libro. Ma il Corriere della sera, per cui lavoravo, prima che uscisse in volume fece un’anticipazione dell’intervista sulla Terza pagina. Lei fece la matta. Telefonò a Tassan Din, il direttore generale di Rcs, urlò, sbraitò, minacciò di querelarmi…».

E perché?

«Che ne so? Forse una paginata non le bastava. Voleva un’edizione speciale».

Oriana Fallaci, giornalista e reporter

L’unica giornalista più egocentrica di te.

«Sì, ma lei non aveva il sense of humour».

 Il sense of humour è la tua più grande virtù?

«Insieme al senso del dovere. Almeno credo. Ah: e il rispetto per il lettore. Mai farlo sentire ignorante. Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia. Me l’ha insegnato Montanelli. Prima lezione, e anche l’ultima che mi ha dato, e non era neanche sua perché la rubò a un formidabile premio Pulitzer, Webb Miller: “Robertino, ricordati: scrivere facile è difficilissimo. Scrivere difficile, quello sì è molto facile. Stai attento”».

Montanelli è stato il più grande giornalista italiano?

«No. Il più grande giornalista del secolo è stato Longanesi. Lo diceva Indro stesso. Leo Longanesi è stato colui che ha influenzato maggiormente il nostro giornalismo nel Novecento, così come Prezzolini colui che ha segnato maggiormente la cultura, anche più di Benedetto Croce».

E il giornalista più insopportabile? 

Eugenio Scalfari, giornalista fondatore di La Repubblica

«Eugenio Scalfari. Il principe dei moralisti, cioè coloro che condannano negli altri, per meglio nasconderli, i propri vizi. E poi ha fatto la cosa peggiore che può fare un giornalista. Ideologizzare il proprio mestiere».

Il giornalista più simpatico?

«Giancarlo Fusco. Una sera eravamo a cena. Anni ’60. Un ristorante in via Doria, a Roma. Iniziò a discutere con la sua compagna, della quale era gelosissimo, su Rodolfo Valentino. Lei diceva fosse un grande amatore, lui un frocio. Litigarono così violentemente che si dovette chiamare la polizia. Era matto, ma irresistibile. Andava sempre in giro con la pistola. Una notte credette di vedere la sua donna baciare un altro di nascosto. Sparò in aria. Poi si scoprì che l’altro era il direttore della Fao, a Roma, e la donna la sua amante, probabilmente… Raccontava un sacco di balle, ma le raccontava così bene che se ti avesse raccontato la verità non sarebbe stato così divertente».

E i politici? Il più divertente che hai incontrato? 

«Almirante. Ma il più simpatico Andreotti».

E il più antipatico? 

«Marco Pannella, ma non perché insopportabile. Perché logorroico. Era un amico, ma quando dovevo intervistarlo tremavo. Era incontenibile, un divagatore continuo, parlava parlava e io non concludevo niente…».

Differenze fra la politica di ieri e quella di oggi?          

“Ieri era una professione, oggi una carriera. Fanfani quando era presidente del Senato aveva sempre a portata di mano 5 o 6 cravatte da prestare ai colleghi prima di entrare in aula, quando vedeva degli abbinamenti che non riteneva abbastanza eleganti. Oggi, tu la vedi la gente che va in Parlamento? È una classe politica sbracata, volgare, ignorante, impresentabile. La politica è sempre stata un affare da puttane. Ma ieri almeno era una casa di appuntamenti di lusso, oggi un bordello da suburra».

E gli italiani che stanno in mezzo? 

«Hanno le stesse colpe dei politici. Sono loro a sceglierli. E sono uguali a loro. Trovami un italiano in mezzo a centomila che, se non fosse al loro posto, non si comporterebbe allo stesso modo, tra privilegi, ruberie, impunità. La politica italiana è questa, perché questi sono gli italiani. È un Paese che sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere».

A destra o a sinistra? 

«La sinistra è finita con Mussolini, e la destra anche. Quando diresse l’Avanti! era la vera sinistra, e quando fondò i fasci di combattimento la vera destra».

Dopo?

«Togliatti e De Gasperi, per breve tempo, hanno illuminato la sinistra e la destra. Dopo di loro ci sono stati solo professionisti della politica, alcuni abilissimi, come Andreotti, Craxi e Almirante. E per il resto arruffoni e arraffoni. I politici della prima Repubblica non erano santi, ma avevano decoro. Questi di oggi neanche la decenza».

E Silvio Berlusconi?

Silvio Berlusconi, ai tempi in cui era primo ministro italiano

«Cosa c’entra Berlusconi. Lui è un imprenditore, e anche diverso dagli altri: ogni imprenditore vende l’arrosto. Ma lui lo vende anche ai vegetariani. Però non è un politico. Semmai un uomo di potere, che è diverso. Ha sempre rifiutato i tatticismi, le astuzie, le meschinerie della politica. Lui non esclude nessuno per principio. Perché i suoi prodotti, come le sue idee, li vuole vendere a tutti. In questo è un liberale modello».

E tu, cosa sei?

«Un conservatore anarchico. Conservatore perché voglio conservare quello che c’è di buono. Anarchico perché non accetto imposizioni. Ma rispetto le leggi e le istituzioni. Sono un ribelle, ma preciso».

Il leader radicale Marco Pannella, in una immagine scattata pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 19 maggio del 2016

Ribelle, preciso, pignolo, libertino, sarcastico, primadonna anche a riflettori spenti – sulla scena come in camerino -, Roberto Gervaso tiene in esercizio la propria intelligenza pensando il contrario di quello che dice. E a volte, viceversa. L’anticonformismo è il suo habitus, l’aforisma la sua complessità, il paradosso la sua logica, la battuta il suo asso nella manica. Rigorosamente di camicie Brooks Brothers. Ha passato una vita a parlare della sua paura della morte.

E ora i discorsi sulla morte sono la sua ragione di vita. Intervistatore princeps che adora farsi intervistare – interviste modello confluite editorialmente in una trilogia otorino-laringo-oftalmica:Il dito nell’occhio (1977), La pulce nell’orecchio (1979), La mosca al naso (1980) – Gervaso offre risposte che con il punto interrogativo sarebbero meravigliose domande. Botta e ripensa: a domanda, risponde.

Lo sventurato, domanda: e la P2?

«Nessuno mi chiese niente e io non ho chiesto niente a nessuno. Presentai io Berlusconi a Licio Gelli: non accadde niente. Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede».

Per anni, al Corriere della sera, ancora sotto la direzione De Bortoli…

«Un coniglio azzimato. No: scrivi “volpe azzimata”, non vorrei querelasse».

… ancora sotto la direzione De Bortoli al Corriere non si potevano recensire i tuoi libri…

«Ipocriti. Proprio loro, che avevano un direttore iscritto alla loggia».

L’occhiuto Raffaele Fiengo, membro del comitato di redazione, proibì che fosse anche solo citato il tuo nome sulle pagine del Corriere. Me l’ha detto un vecchio redattore.

«Fiengo. Il mastino della Lubjanka di via Solferino».

Perché il Corriere precipitò così a sinistra?

«Chiedilo all’editore di allora, Giulia Maria Crespi. Fu lei la regista di quella operazione suicida. Magari ti risponde. O forse no. Non ha abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manca».

I tuoi aforismi. Tutti copiati dai peggiori luoghi comuni degli italiani. Quanti nei hai scritti?

Ferruccio De Bartoli, già direttore del Corriere della Sera

«Venticinquemila».

Il più bello?

«L’amore senile comincia col matrimonio».

Hai amato molto?

«Amato-amato, poco. Desiderato tanto».

Cosa desideri, adesso?

«Leggere le uniche cose che vale la pena leggere: Seneca, Ovidio e Voltaire. E scrivere le uniche cose che vale la pena scrivere: i miei articoli di giornale».

Montanelli sognava di morire avvolto nell’edizione straordinaria del giornale. Tu?

«Mi basta quella quotidiana».

Ho fatto una ricerca d’archivio. La domanda che hai posto più volte ai tuoi intervistati è stata: «Cos’è per lei la morte?». Risposta?

«O un ponte o un abisso. Cioè: un passaggio verso qualcosa d’altro oppure un precipizio nel nulla. Spero la prima. Ma temo la seconda».

Articolo di Luigi Mascheroni per ”Il Giornale

 

PANNELLA E’ GRAVE

PANNELLA E’ GRAVE

CI GIUNGE NOTIZIA CHE LE CONDIZIONI DI MARCO PANNELLA SI SONO MOLTO AGGRAVATE.

PREGHIAMO PER LUI NELLA SPERANZA CHE POSSA RIPRENDERSI.

RIMARRA’ COMUNQUE SEMPRE NEL RICORDO DI CHI HA CONDIVISO LE TANTE BATTAGLIE CIVILI E DI LIBERTA’ DI CUI PER DECENNI E’ STATO ASSOLUTO E GENEROSISSIMO PROTAGONISTA E ISPIRATORE.

 

 

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Pannella, la Politica che divora

Pannella, la Politica che divora

 

Pannella, la Politica che divora per vincere- Ritratto di un leader in exit per morte annunciata- Per lui un coccodrillo che è un invito alla vita.  

 

 

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Marco Pannella 2013, foto di Paolo tre, A3/Contrasto

 

 

 

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Storica foto: raccolta firme per il referendum sul divorzio

C’è qualche italiano in buona fede che non nutra per Marco Pannella stima e ammirazione? Magari avversandone le idee, ed essendosi trovando nelle annose battaglie sui diritti e la legalità dalla parte opposta della barricata, caparbiamente difesa dal leader radicale? Non credo. Perché se mai c’è stato in Italia un politico sui generis, che andava su mentre la partitocrazia affondava nel discredito, questo è stato proprio Marco Pannella. Battaglie discutibili, a volte, come la liberalizzazione delle droghe o per il diritto di aborto, una vita privata e un agire pubblico sempre spinti all’eccesso, al paradosso spiazzante, alla provocazione programmata. Sì, tutto ciò è stato Pannella. Ma mai una ruberia, mai la corsa alla poltrona, mai un tentennamento nel difendere la coerenza delle sue idee, costasse impopolarità ed emarginazione. Sguardo sempre limpido e puntato lontano, sui veri problemi, come conviene alla Politica, mai alla contingenza, alla convenienza spicciola, meno che meno al tornaconto personale. Onesto,  appassionato, sempre!, anche negli errori, anche nella gestione del partito radicale come fosse una setta di iniziati, una combriccola di devoti affezionati adepti, perché tali dovevano essere coloro che al suo fianco ne hanno carpito le idee, sopportato i capricci, rette le sfuriate, a volte emancipandosi con mutuo accordo, come avviene alla fine, da un padre-padrone ieratico, di una grandezza quasi biblica, e com’è giusto che sia.

Nell’approssimarsi della morte di un personaggio illustre i quotidiani preparano l’articolo di commiato, spesso laudatorio oltre misura. Nel gergo si chiama coccodrillo, il che la dice lunga sui toni che abitualmente si usano nella sua stesura. Anche gli avversari depongono le armi, mitigano i toni, la sospensione delle ostilità è imposta dalle circostanze, se non delle intime convinzioni.

Nel caso di Pannella, siamo di fronte alla cronaca di una morte annunciata, sia per l’avanzata età, 86 anni, sia per i due tumori che stanno consumando la sua forte fibra.

In più, di suo, Pannella mette nell’annuncio dell’inevitabile e imminente exit,  toni di sfida e accostamenti paradossali propri di un temperamento indomito, che suonano a taluno scandalizzanti. (cfr. in questo sito: https://www.ninconanco.it/i-toscanelli-di-pannella/)

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Pannella con gli amici radicali nella sua abitazione romana

Per non rimanere spiazzati, quasi alla ricerca di una preventiva, estrema conciliazione (per alcuni sarebbe più appropriato parlare di assoluzione) da quando il leader radicale non esce più di casa, politici e uomini più o meno illustri, alcuni amici sinceri, tanti militanti radicali, hanno iniziato un pellegrinaggio, fra il devoto e l’imbarazzato, che è un inedito per l’Italia. Perché?

Che sia l’ennesima, geniale trovata di Marco, ancora una volta deus ex machina delle sue ”ultime volontà”, che poi sarebbe a dire dell’ultima battaglia?

Non so dare una risposta, ma i tanti articoli apparsi a commento del fenomeno, in Italia e dai corrispondenti esteri, sottolineano la mai smentita originalità del personaggio e dànno la misura del crescente affetto, dell’ammirazione e stima che il suo indefettibile amore per la Politica sta suscitando in molti.

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Pannella e l’inseparabile Emma Bonino

Ho trovato l’articolo scritto da Minum per il Corriere  dai toni giusti. Lo trovate qui di seguito. Intanto, auguri! Marco, lunga vita. Non mollare! Lo scrivo adesso, perché so che delle lacrime di poi poco ti importa.

 

«Hic et nunc,qui e ora. Tutti insieme, finalmente, ce la stiamo facendo. Dai e dai il regime partitocratico sta crollando. È tempo di Stato di diritto, giustizia e legalità. Un popolo di sudditi si trasforma in una moltitudine di cittadini consapevoli e determinati. Una svolta epocale, che si realizza naturalmente, senza violenza, col sorriso, grazie all’impegno di tutti noi. Vince la Politica “per”, la Politica “con”. Ora in alto i calici, brindiamo alla gioia, alle meraviglie della natura, alla bellezza del cielo, a quest’aria fresca che respiriamo». Marco Pannella alza al cielo la sua lattina di Coca Cola. È in piedi, doppiopetto blu, camicia bianca, golf celestino, cravatta di un giallognolo improbabile griffata Versace e pantaloni del pigiama total blu. Non si rivolge a una platea congressuale, ma a una delle piccole finestre della cucina della mansarda dove vive da sempre, a due passi dal Quirinale e da Fontana di Trevi.Pannela11

Vasco Rossi

Vasco Rossi all’uscita dalla casa di Pannella

È agli «arresti domiciliari» per gravi motivi di salute. Sta rischiando grosso, tanto per cambiare, per le centinaia di digiuni che ha alle spalle, per i due tumori, che cura di malavoglia, per gli acciacchi dei suoi 86 anni. Ma continua a fumare come una ciminiera. E ogni volta che accende una Marlboro lunga sembra ringraziare la Philip Morris, alzando il pacchetto in alto e leggendo con malcelata ironia la scritta «il fumo uccide», aggiungendo «se vietato». Quando smette il suo «comizio» abbraccia chiunque sia al grande tavolo della cucina-studio-salotto, a cominciare da Matteo Angioli e la sua promessa sposa Laura Harth. Sono i due giovani che lo stanno assistendo con amore e dedizione, 24 ore su 24. Come e più di due figli. Ci sono spesso anche la sua storica compagna Mirella Parachini, Rita Bernardini,Maria Antonietta Coscioni. E non si contano i giornalisti di Radio Radicale che si alternano dal grande vecchio,che spesso chiede loro: «Che state a fa’? Andate a lavora’». In via della Panetteria non si è mai fermato il pellegrinaggio di amici di sempre, di vip della politica, ma non solo, e di gente, proprio tanta, che gli vuol bene, dal tassinaro al tabaccaio, che Pannella ha reso ricco. Nessuno viene respinto, al massimo si chiede di passare più tardi perché Pannella riposa. Marco ha sempre gli occhi gioiosi, la massa che lo viene a trovare gli dà un’energia positiva, anche se lo sfianca. Spesso si commuove. Più spesso si commuovono, e tanto, coloro che lo vanno a trovare, riempiendo la casa soprattutto di dolci.

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Pannella con Napolitano

Visite come quelle di Berlusconi, Renzi, D’Alema, monsignor Paglia, diplomatici israeliani e arabi, cantanti come Venditti, Zero, Vasco Rossi. Messaggi dolcissimi e pieni d’amore, come quello di Francesco De Gregori che gli dedicò «Il signor Hood». Tanto affetto e sincera commozione. Pannella però, non di rado, finge di essere fuori di testa, e riesce a prendere agevolmente in giro gli astanti, che si tratti di amici, vip,o nip. Come quando, parlando con me che sragionavo su fede, morte, inferno, paradiso e altre amenità, mi ha guardato con disappunto,per poi commentare in abruzzese stretto: «Ma ti pare che devo parlare con questo qua di Dio e dell’eternità?». Ho avuto la netta impressione che in qualcosa creda, ma penso più all’uomo che al Signore. E comunque ci siamo rassegnati un po’ tutti a tradurre il suo dialetto, visto che il clan degli abruzzesi — Gianni Letta, Ottaviano Del Turco, Guido Venturoni — fa continue irruzioni per chiacchierare e far compagnia a un vecchio amico.

Rispetto alla fine di marzo, Marco ha riconquistato un po’ di tonicità fisica, ma è davvero stanco. È laconico, rispetto ai discorsi alla Fidel che hanno schiantato migliaia di radicali ai congressi e ai convegni. Se apre bocca è per informarsi, per chiedere di accendere Radio Radicale, per guardare notiziari e vecchi film. Quasi sempre interagisce. Si pone come interlocutore, s’incazza, chiede di intervenire. Naturalmente non ha risposta e comincia a parlare. In italiano, francese, abruzzese, recuperando la forza del tono della sua voce, con gli argomenti e gli slogan di sempre. A chi gli dice con affetto, sommessamente, «non farmi preoccupare», replica «col cazzo, te ne devi occupare». A chi si accommiata con un sincero «ci vediamo presto», risponde «ma che presto, subito».Pannella6

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Visita a casa Pannella di Matteo Renzi

È un leone, tirannico ma ieratico, che anche quando straparla, esprime gioia, entusiasmo, coinvolgimento, per battaglie di ieri e di oggi, «importanti per tutti». Sono stato decine di volte da Marco in questo momento complicato. Ho libero accesso perché tutti sanno che ci conosciamo e ci vogliamo bene da sempre. Lui, in gioventù, è stato a pensione da mia nonna Zaza, a Monteverde vecchio, assieme al suo grande amico Sergio Stanzani Ghedini. Da bambino mi sono sempre chiesto chi fosse quel simpatico spilungone che si intrufolava con destrezza in cucina, trafficava con la ghiacciaia e si mangiava una mela, una banana, quel che capitava. Un giorno, 50 anni fa, mia nonna mi rivelò che era Pannella. Pensavo vaneggiasse e alla prima occasione chiesi conferma a Marco. Tutto vero. Per me lui è uno di famiglia. E spesso Marco dice di appartenere alla famiglia Mimun. In realtà quella di nonna era la famiglia Bondì, ma fa lo stesso. Non solo in virtù di quel ricordo l’ho sempre ammirato e molto amato. Ho partecipato, o comunque sostenuto, molte delle sue battaglie.

A febbraio mi sono spaventato e preoccupato. Ho avuto l’impressione che qualcosa di terribile stesse per accadere. Una sera Marco mi ha telefonato — non ci vedevamo da mesi — e mi ha chiesto di incontrarci a Torre Argentina, storica sede del Partito radicale. Gli risposi che non avevo macchina e che a piedi avrei faticato troppo. Gli chiesi di rinviare al giorno dopo. Ma lui replicò: «Arrivo, è troppo urgente». Cinque minuti dopo suona il citofono. È lui. Entra in casa, gli chiedo subito: «Cosa accade?» E lui sconsolato: «Se ti dico che non me lo ricordo mi credi?». Resto basito, poi gli offro un caffè. Si siede e mi parla per due ore di una iniziativa alle Nazioni unite. Avrei voluto morire, non ci capivo niente e non me ne fregava nulla. Provo, inutilmente, ad interromperlo chiedendogli se vuole un piatto di pasta. Replica che non ricorda se ha mangiato o meno, ma che non ne ha voglia. Riprende a farfugliare dell’Onu, finché anche lui, preso per stanchezza — sono passate altre due ore — si congeda.pannella2

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Pannella con Berlusconi

Resto colpito, ma decido di non dirlo a nessuno. Penso a un grave momento di difficoltà che non va divulgato, neppure ai suoi amici, ma decido anche di seguirlo con molta più attenzione. Per questo da mesi gli porto, o gli mando, viveri stravaganti, per indurlo a mangiare e a sostenersi. Yogurt ai lamponi, gelati di frutta e creme, pizza e dolcetti di ogni tipo dal ghetto ebraico di Roma, humus e tahina kosher, uova fresche di campagna, tutta la frutta possibile, mozzarelle e ricotte di Sabaudia o, quando posso, di Vannulo, il numero uno al mondo. Poi fiori, vino, apparecchi per fare centrifughe, macchinette nuove per il caffè. Forniture continue, ognuna è come un abbraccio. Quando mangio con lui, Laura, Mirella, Matteo e col direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, per non dispiacermi, finge di mangiare di gusto qualcosa.

Ma il Pannella onnivoro di un tempo, quello che cucinava e si scofanava mezzo chilo di pasta con un sugo di cui era impossibile contare le calorie, purtroppo non c’è più. Ma non molla. Il Marco di ora ama farsi leggere vecchi discorsi, libri e giornali stranieri, è meno verboso e dolcissimo. Sta appassendo e ne è consapevole. Mi ricorda l’immenso Woityla del sacrificio estremo. Ha spesso il sorriso rassicurante dell’indimenticabile rabbino Elio Toaff, suo carissimo amico. Ogni secondo passato con lui, anche quando è stonato, è un diamante da conservare. Con lui non finirà una storia di battaglie, di grandi vittorie e cocenti sconfitte. Quando se ne andrà, ammesso che non ci seppellisca tutti, il suo lascito sarà immenso e le sue battaglie laiche, a cominciare da quella per il diritto alla conoscenza e la promozione dello Stato di diritto, andranno avanti, per il bene di tutte e tutti.

Clemente Minum per Il Corriere della Sere, 19 aprile 2016

 

 

 

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