RILEGGENDO SPOON RIVER

RILEGGENDO SPOON RIVER

Fernanda Pivano con Ettore Sottass 1969

Rileggendo Spoon River ho ripensato a Fernanda Pivano, scomparsa nel 2009 all’età di 92 anni, dopo una penosa malattia. La sua vita si intreccia subito con l’intellettualità piemontese: Primo Levi è suo compagno al liceo D’Azeglio, Cesare Pavese il loro insegnante di italiano. Si diploma in pianoforte al Conservatorio di Torino, poi si laurea in filosofia con Abbagnano. Sposa Ettore Sottsass, architetto di grido, marito infedele che le rende la vita tormentata. La sua opera di traduttrice resta ancora oggi insuperabile per le opere di quegli autori americani della beat generation, a lei così congeniali e ai quali si legò in vita di amicizia e per comunanza di ideali: Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti e altri.

Per ricordare i suoi ultimi anni ho voluto riportare una pagina, la 1529, del suo Diario 2007-2009, edito da Bombiani, nella quale Fernanda Pivano, con accenti amari, ci dice di sè e della sua vecchiaia, tracciando un ritratto di quegli anni gravidi di incertezze e di minacce per l’umanità.

Nella chiusura del brano, Fernanda Pivano si ricollega alle poesie di Spoon River di Edgard Lee Master, che ispirarono un album di canzoni al cantautore Fabrizio De Andrè e in particolare al Suonatore Jones: “Finì con i campi alle ortiche, finì con un flauto spezzato, e un ridere rauco, e ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto”. Vivere i 90 anni come un gioco è viverli, appunto, senza rimpianti. Una parabola bella e struggente che pare abbia accomunato il cantautore genovese e la scrittrice, come due compagni di viaggio, come quelle anatre selvagge che vanno… vanno.. perché bisogna andare.

Il 4 settembre 2011 viene presentato alla 68ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Controcampo italiano, il docufilm Pivano blues – Sulla strada di Nanda, con Fernanda Pivano e Abel FerraraLorenzo Cherubini “Jovanotti”, Piero PelùVasco RossiFrancesco GucciniLuciano LigabueFabrizio De AndréDori GhezziMarco Castoldi “Morgan”, Premiata Forneria MarconiVinicio CaposselaJay McInerneyErica JongPatti SmithLou Reed.

Pivano con Hemingway

“..Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo non riporta solo alla disperazione dei miei anni, con le vene che non reggono alla pressione di una semplice iniezione. Ahimè. E’ difficile trovare il coraggio quando si sono superati e novant’anni, quando ti guardi intorno e ti senti perdente e sconfitta per avere lavorato una vita scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedere il pianeta cosparso di sangue.

Ma c’è una cosa che mi fa sperare, che mi fa credere ancora nella pace, che mi dà la forza di aiutare i giovani. Credo che il mondo abbia voglia di ricominciare a sognare..

Fernanda Pivano con Jack Kerouac

A questi ragazzi di diciotto anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti per superare le tragedie della vita non so cosa rispondere.

Pivano con De Andrè

Ma per me questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa che io ho fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme.

E allora dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre… di sorridere senza rimorso di non avere aiutato nessuno.

Forse questo è il segreto per riuscire a sopravvivere anche a questa età. Forse è questo il segreto del vecchio suonatore Jones dello Spoon River caro alla mia giovinezza, che giocò con la vita per tutti i novant’anni”

HEMINGWAY IN ITALIA

HEMINGWAY IN ITALIA

LA CONTRASTATA E TARDIVA FORTUNA IN ITALIA DELL’AUTORE DI ADDIO ALLE ARMI – AVVERSATO DAL FASCISMO, TROVA IN CESARE PAVESE E FERNANDA PIVANO I TRADUTTORI PIU’ CONGENIALI

 L’interesse per Hemingway in Italia è abbastanza tardivo, se si pensa che il primo intervento critico – un articolo di Mario Praz apparso su La Stampa nel 1929, intitolato Un giovane narratore americano – risale ad una fase già avanzata della sua carriera letteraria, quando The Sun also Rises A Farewell to Arms avevano già spopolato tra gli scaffali di mezzo mondo. Interesse non solo, come detto, tardivo, ma anche in linea con certa indulgente bonarietà che la prima generazione di americanisti riserva alla letteratura americana: letta e criticata, ma sempre relegata al ruolo di appendice delle nobili lettere inglesi, senza mai insidiare la millenaria superiorità della tradizione europea. Basta osservare lo sforzo (spesso artificioso) dello stesso Praz di ricondurre l’originalità americana a derivazioni europee. Basta guardare il tiepido entusiasmo di Emilio Cecchi, o il cauto slancio di Carlo Linati, che traduce Il ritorno del soldato già nel 1925 e riceve un biglietto di ringraziamento dallo stesso Hemingway, ma non riesce a immaginare «come possa [la civiltà europea] abbandonare questi suoi preziosi beni nelle mani di Babbitt» (LINATI, 1923) [Ndr. “Babbit” è il tipico americano medio-borghese di provincia per bene del boom economico. Il nome deriva dal titolo di un romanzo del 1922 di Sinclair Lewis, intitolato “Babbit” appunto].

Tra l’altro l’interesse dei letterati italiani per Hemingway si riallacciava ad un elemento puramente accessorio, o comunque esteriore, ossia lo stretto legame biografico dell’autore con la nostra penisola. L’esperienza della guerra – l’arrivo a Schio, la ferita alla gamba a Fossalta di Piave, il ricovero a Milano – si consuma tutta su suolo italiano, e lascia in lui un fantasma da esorcizzare con continui ritorni (almeno sette in totale). Nel 1922 Hemingway è in Italia due volte, in aprile per seguire la Conferenza Economica Internazione di Genova (dove, non essendo molto ferrato in economia, passa il tempo a disegnare caricature di Lloyd George) e in maggio, quando attraversa le Alpi a piedi e torna sui luoghi di guerra (leggenda vuole che abbia defecato sull’esatto punto in cui fu ferito). Nel 1923 fa visita a Ezra Pound a Rapallo, vanno a piedi a Pisa e Siena; poi, dopo una breve sosta a Sirmione, scopre una località di montagna allora sconosciuta, resa glamour dal suo passaggio: Cortina d’Ampezzo. Del 1927 è un breve giro in macchina con l’amico Guy Hickock, con annesso incontro con Giuseppe Bianchi, il prete che lo aveva battezzato in fin di vita al fronte. Nel 1948 e nel 1954 si divide tra Venezia e l’isola di Torcello, mentre in mezzo, nel 1953, inaugura il famosissimo muretto di fronte al Caffè Roma di Alassio.

Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951), l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.

Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorgeUomini senza donneAddio alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa hemingwayana:

Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951), l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.

Cesare Pavese

Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorgeUomini senza donneAddio alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa hemingwayana:

Stendhal-Hemingway. Non raccontano il mondo, la società, non dànno il senso di attingere a una larga realtà interpretando a scelta, a volontà – come Balzac, come Tolstoi, come ecc. Hanno una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i suddetti. Su questa costante han costruito un’ideologia, che è poi il loro mestiere di narratori: l’energia, la chiarezza, la non-letteratura.
Flaubert sceglieva un ambiente; loro no.
Dostojevskij costruiva un mondo dialettico; loro no.
Faulkner stilizza atmosfere e mitologizza; loro no.
Lawrence indagava una sfera cosmica e l’insegnava; loro no.
Sono i tipici narratori in prima persona. (PAVESE, 1952)

Al di là di queste scarne notazioni, il merito di Pavese sta nell’aver introdotto all’opera di Hemingway una sua allieva particolarmente dotata. Siamo a Torino, nella primavera del 1935, e Fernanda Pivano è una giovane studentessa del liceo classico D’Azeglio. Tra le versioni da Erodoto, l’antipatia per la professoressa di chimica e l’amicizia con i suoi compagni – tra cui Primo Levi, «sommesso e timidissimo», ma che «si imponeva da gigante con la sua bravura, il suo talento, la sua gentilezza» (PIVANO, 2008) – rimane folgorata dall’arrivo di un supplente di italiano «giovane giovane», un po’ ritroso, con i capelli arruffati, ma con «una bellissima voce che avrebbe fatto invidia a un attore, un po’ atona, un po’ soffocata, sempre sommessa, fascinosa mentre leggeva Dante o Guido Guinizelli e li rendeva chiari come la luce delle stelle». Fa lezione sul Momigliano (manuale inviso al ministero), cita De Sanctis e Croce, e non fa mistero della sua insofferenza per le fanfare in camicia nera. Lui è, appunto, Cesare Pavese, e i suoi studenti lo adorano. Un giorno l’idillio viene interrotto dalla polizia fascista, che lo arresta e lo manda al confino. Fernanda, bocciata all’esame di italiano, lo rivede per caso in piscina tre anni più tardi, nel 1938. Pavese non ricorda la sua vecchia allieva, ma se ne innamora all’istante. L’ammirazione sconfinata di lei, però, non sfocia nella passione amorosa (due volte lui la chiederà in sposa, due volte lei opporà un garbato rifiuto) ma l’intesa intellettuale è ottima, e mentre lei prepara la tesi su P.B. Shelley, Pavese le suggerisce di dirottarsi verso la letteratura americana. Così la Pivano:

Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri, ognuno avvolto in una carta da pacchi arancione e il titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman, l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. (PIVANO, 2008)

Un gesto così semplice come portare dei libri poteva costare caro a quei tempi. Proprio quell’anno, il 1938, segna un vigoroso giro di vite nella censura fascista, che si fa più stringente, più puntigliosa, aspirando al controllo sistematico di ogni uscita editoriale. «A datare dal 1° aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la diffusione in Italia delle traduzioni straniere» recitano i documenti ufficiali (RUNDLE, 2010). Incurante del pericolo, Fernanda legge i libri d’un fiato e traduce Masters: grazie ad un astuto stratagemma – la raccolta viene spacciata per una devota e improbabilissima Antologia di S. River – il libro esce nel 1943 presso Einaudi. Fernanda, ormai conquistata dalla letteratura americana, lavora ora su Addio alle armi di Ernest Hemingway, altro testo proibitissimo dal fascismo.

Il perché sia proibito è facile da intuire. È un romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di Caporetto (a cui tra l’altro Hemingway non assistette, modellandola sulla ritirata greca in Tracia durante la guerra greco-turca del 1922) è considerata lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Facile immaginare, dunque, perché Hemingway suscitasse l’entusiasmo degli oppositori. Come è facile immaginare la faccia delle SS naziste quando, durante una retata presso la sede di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi. Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco. Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).

Hemingway con Fernanda Pivano

L’episodio dovette giungere alle orecchie di Hemingway poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel Concordia di Cortina, aperto fuori stagione solo per lui. Lei all’inizio pensa ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora scomparso delle Dolomiti» (PIVANO, 2017) e lo raggiunge. È il 10 ottobre del 1948:

Quando mi aveva vista lì sulla porta della sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie: “Tell me about the Nazi” (PIVANO, 2008).

È l’inizio del sodalizio tra Papa (come lei chiama lui) e Daughter (come lui chiama lei). Lui le parla di Fitzgerald e Gertrude Stein, impilando tutti i ricordi della stagione parigina che riorganizzerà in A Moveable Feast. Lei accumula indelebili memorie, tra luci e ombre: la lunga tavolata del Natale 1948 a villa Aprile, sempre a Cortina; le gite in montagna su una vecchia Buick azzurra; l’«ombra permanente di disperazione» (PIVANO, 2017) al Gritti di Venezia, dove la chiama nel 1954, l’anno del Nobel, per sostenerlo dopo l’incubo di uno sciagurato safari in Congo (con ferite, notti all’adiaccio e ben due incidenti aerei); il solare declino alla Finca Vigia, la casa di Hemingway a Cuba, dove Fernanda lo rivede nel 1956 con «i suoi bermuda sorretti per miracolo sotto lo stomaco teso dal gin» (PIVANO, 2017).
In tutto si conteranno, su Hemingway, una biografia, la curatela dell’opera omnia, cinque edizioni delle opere, quindici prefazioni, quattro traduzioni, innumerevoli pagine critiche.

Estratto dell’articolo di Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Valentino Valitutti 

Tratto dal sito https://radicidigitali.eu/

ERNEST, FRA VIAGGI, GUERRE E RIVOLUZIONI

ERNEST, FRA VIAGGI, GUERRE E RIVOLUZIONI

Eternemente sbronzo, esibizionista e trasgressivo, Hemingway col suo linguaggio asciutto, allusivo e contaggioso, seppe decrivere il mondo com’era non come desiderasse che fosse, nevroticamente alla ricerca di un approdo che non gli riuscì mai di trovare.

Qualche anno fa, in un albergo di Siviglia, rilessi all’ anziano matador de toros Jaime Ostos quanto Ernest Hemingway aveva scritto su di lui vedendolo in azione nell’ arena a metà del secolo precedente: «Jaime Ostos mostrò lo stesso coraggio dei cinghiali delle Sierras della sua regione. Come il cinghiale, dava prova di un’ audacia quasi folle e rischiava sempre più grosso fino a sembrare uno che vuole suicidarsi».

Il libro di Michael Katakis su Hemingway

Riascoltando quelle parole, Ostos minimizzava lusingato, col suo ghigno da cinghiale. Commentò: «Hemingway era una cara persona, un sentimentale. Beveva molto. Faceva colazione con una bottiglia di vino e due croissant. Come scrittore non si sentiva capito. Diceva: forse non riesco più a esprimermi, ma io continuo a scrivere le cose come le sento e non posso che andare avanti così».

Incompreso Hemingway? L’ uomo del Nobel e del Pulitzer? Dei bestseller globali? Sì, il vecchio torero ricordava bene. Perché “Ernie” appartiene ormai alla riserva protetta dei classici, ma per tutta la vita venne incornato dalla critica. Nei romanzi e ancora di più nei racconti, aveva scarcerato la prosa inglese dall’ eloquenza, dall’ enfasi, dal fronzolo vittoriano, però – a giudizio dei suoi detrattori – si era lasciato imprigionare troppo presto in uno stile da duro che rasentava l’ autoparodia involontaria.

Mr. Papa incassava quegli attacchi malissimo e già alla fine degli anni Trenta denunciava i sintomi paranoidi della sindrome da accerchiamento: «Mi odiano, vogliono farmi fuori» si legge in una lettera.

Lo scontro più celebre, se non altro perché fisico, con un critico ebbe luogo a New York nell’ agosto ’37. Prima di ripartire come reporter per la guerra di Spagna, Hemingway incrocia negli uffici dell’ editore Scribner un tizio col quale ha un conto in sospeso. Si chiama Max Eastman, è il giornalista che dalle colonne della rivista progressista New Republic ha malmenato il suo “trattato” sulla tauromachia Morte nel pomeriggio sfottendone soprattutto il machismo: la boria, ha scritto, «di chi si appiccica peli finti sul petto». L’ ego virile sanguinante, “Hem” se l’ è legata al dito.

Nei locali della Scribner lo vedono afferrare un libro e scagliarlo in faccia al recensore. I due si avvinghiano, rotolano sul pavimento rovesciando scrivanie. Seppur con gli occhiali rotti, Ernest – che è più grosso e pratica il pugilato – sta per avere la meglio, ma si trattiene. Li separano. I duellanti si ricompongono bofonchiando parole di scusa. Sotto lo sguardo impietrito del grande editor Max Perkins, la bagarre si chiude lì. Ma il livore anti-Hemingway avrà vita lunga, cristallizzandosi in un pregiudizio che, oggi, nell’ impero del politicamente corretto, rischia di trovare nuova linfa.

Hemingway e Scott Fitzgerald

Macho col sorrisetto sghembo alla Clark Gable, robusto amatore e bevitore, fanatico di corride, pescatore nei Caraibi, cacciatore in Africa… A 120 anni dalla nascita – 21 luglio 1899 – è di quell’ Hemingway poseur che tornano a parlarci molte tra le foto, alcune inedite, raccolte nel sontuoso volume mondadoriano Hemingway. L’ uomo e il mito. Ecco, appunto: il mito. «Io non lo sopporto. È semplicistico, limitante, stupido. Il vero Hemingway era una personalità complessa, ricca di sfumature. Era affettuoso, crudele, una brava persona e un bastardo, un tipo insicuro, spaventato dalla vecchiaia e dalla morte. Certo, la responsabilità dell’ aver creato il mito fu in parte anche sua.

Commise l’ errore nel quale incappano spesso i “famosi”: quello di pensare di poter controllare il proprio mito. Ma non funziona così: il mito assume una vita propria». Ed è lui a controllare te.

Parola di Michael Katakis. Oltre che curatore dell’ album ora tradotto in italiano, è il signore a cui gli eredi hanno affidato l’ onere gravoso e invidiabile di gestire i diritti mondiali di Hemingway. Buttali via. Katakis vigila e tratta non solo sui libri di Mr. Papa ma pure sulla massa di cimeli oggi custoditi alla John Fitzgerald Kennedy Library di Boston. Lettere, telegrammi (tra i quali uno in cui l’ ancora senatore JFK chiede a Ernest di chiarirgli il concetto di “coraggio”), plichi “top secret” dei servizi militari di intelligence sotto Eisenhower, e poi assegni, scontrini di librerie, biglietti di aerei, treni, navi…

Più una marea di foto: undicimila. Hemingway è stato lo scrittore più fotografato del Novecento. Ma che rapporto aveva con la propria immagine? «La curava molto» risponde Katakis. «Oltretutto aveva la fortuna di essere fotogenico. Ha presente le famose foto realizzate a Sun Valley, Idaho, nelle quali lo vediamo con i figli o con Gary Cooper? Sono sbalorditive, alcune vennero scattate da Robert Capa. Ma Patrick, il secondogenito di Hemingway, mi ha confessato che erano costruite a tavolino per promuovere quella località. Succedeva spesso che al padre offrissero alloggio gratis e altri vantaggi per usare la sua faccia a scopi pubblicitari». Questa di Hemingway cripto-testimonial turistico ci mancava.

Hemingway con Silvia Beach a Parigi

Il narcisismo “mediatico” di Ernest era cominciato molto presto. Prendi quello scatto celeberrimo che a Parigi, da giovane, lo ritrae insieme a Sylvia Beach davanti alla libreria Shakespeare and Company: Hemingway sogghigna spavaldo con la testa fasciata da una benda delle dimensioni di un turbante. Che gli è successo? Niente di speciale. Una notte che era sbronzo si è alzato per andare al gabinetto, ma al buio ha scambiato la catenella dello sciacquone con quella della luce e tirando di strappo s’ è fatto crollare la plafoniera sulla zucca. E il giorno dopo eccolo lì che sfoggia la cicatrice nemmeno fosse una ferita di guerra.

Civetterie di un esibizionista precoce, ma anche di uno che, fondendo esperienze vissute e scrittura, aveva deciso di scaraventare in quell’ impresa tutto se stesso, a cominciare dal proprio corpo. E, dalle 220 schegge di mortaio austriaco che a diciott’ anni s’era beccato nelle gambe mentre faceva l’ ambulanziere sul fronte italiano ai terribili incidenti aerei durante il viaggio africano del ’54 dal quale rientrò mezzo cieco e sordo, con cranio ustionato, fegato e rene stritolati, fratture multiple alla spina dorsale, quello di Hemingway fu – in vita – il corpo più martoriato nella storia della letteratura.

A un secolo di distanza è davvero difficile rendere l’ idea dell’ impatto che una simile figura di scrittore-personaggio produsse sulla scena letteraria dell’ entre-deux-guerres. Per quanto i bollori dei “folli” anni Venti incoraggiassero certe trasgressioni, Ernest Miller Hemingway atterrò in quella temperie come un venusiano. Era un giovanotto della buona borghesia di Chicago che, contro i desiderata di una madre arpia e della propria classe, aveva rinunciato all’ università per mettersi a fare il sordido mestiere di giornalista. Il vero scrittore «è uno zingaro» avrebbe teorizzato più tardi, ma nomade lui lo divenne da subito.

Tra viaggi, guerre e rivoluzioni spesso vissute come vacanze estreme, «Hemingway est tout le temps dehors», è sempre da qualche parte là fuori, chiosava un critico francese. Rompendo con l’ immagine del letterato ottocentesco sigillato in uno studio, Mr. Papa scrive in alberghi, bar, accampamenti nella savana. Perfino quando lavora in casa sembra circondato da una caotica atmosfera di provvisiorietà non sedentaria. Quanti la visitarono prima che venisse plastificata a museo, raccontano la dimora cubana della Finca Vigía come un delirante bric à brac di poltrone sfondate, pendole scariche, teste di bufalo, pelli di antilope, pugnali, cavallucci di Murano, pipistrelli sotto formalina, quadri di Miró, Braque, Masson, cappe da torero, medicinali, e le pareti del bagno cosparse di graffiti perché Hemingway si controllava la pressione ogni giorno annotandone i valori sul muro. Ernest gira in bermuda sorretti da uno spago o da una cintura con su inciso Gott mit uns sottratta al cadavere di un tedesco durante l’ ultima guerra. Un filo balbuziente, in Europa e a Cuba parla un esperanto di sua invenzione nel quale mescola spagnolo, francese e italiano. Negli States ha invece il vezzo di esprimersi come i pellerossa nei vecchi western o nelle barzellette: «Io scrivere libri.

Io pensare mai» ridacchia, contro gli intellettuali.

Anche grazie a stravaganze del genere, Hemingway divenne «un trendsetter, un creatore di tendenze», ricorda Katakis. I giovani, ragazze comprese, iniziarono a radunarsi nei posti da lui celebrati, a scimmiottare il linguaggio prosciugato, allusivo e così contagioso dei suoi libri. Che all’ occasione non disdegnavano il turpiloquio. Defense of Dirty Words si intitolava un articolo del ’34 nel quale “Ernie” giustificava quel vocabolario per amore di realismo.

Osserva Katakis: «Oggi viviamo in un’ epoca politicamente corretta. Per certi aspetti va benissimo, mentre su altri è repressiva e stupida. Penso che Hemingway comprenderebbe il fastidio odierno, che so, verso la caccia, ma credo che non accetterebbe limitazioni alla libertà di dire o scrivere. Lui non aveva paura delle parole. Cercava sempre di scrivere com’ era realmente il mondo, non come desiderava che fosse. A me pare che in quest’ epoca teoricamente illuminata continuiamo a incontrare la stessa quantità di stronzi di sempre. Oggi però non si può chiamare figlio di puttana un figlio di puttana. Bisogna chiamarlo uomo d’ affari o banchiere».

Tra pochi giorni si aprirà a Key West, Florida, il tradizionale concorso per il miglior sosia di Hemingway, arrivato quest’ anno alla 39° edizione. Per quale altro scrittore si organizzano gare tra imitatori? Non me ne viene in mente nessuno, ma posso sbagliare. La kermesse si svolge allo Sloppy Joe’ s, uno di quei bar dove Hemingway, trincando, raccoglieva materiale per le sue storie, ma nei quali vide pure il proprio mito impazzire come la maionese. Nel ’50 scriveva a un amico: «Entri in un locale notturno e subito ti si avvicina uno che ti fa: “Lei è Hemingway, vero?” e ti molla un cazzotto senza dare spiegazioni, oppure comincia a strofinarsi contro tua moglie… Henry James non aveva di questi problemi».

Non era più vita. La leggenda cominciava a fare a pugni col suo campione, ma adesso lo trovava stanco, imbolsito, amaro. Forse le foto più belle sono quelle in cui il vecchio Ernest dorme, spesso visibilmente ciucco. Aveva vissuto tanto, troppo per infilare tutte le cose viste e provate in quel piccolo imbuto che è la letteratura. Si aggrappava ai ricordi e quando, per sottrarlo agli abissi maniaco-depressivi, gli svuotarono la memoria con una quindicina di elettroshock, disse: «Mi hanno rubato il mio capitale». Ma ricordava ancora come si carica un fucile dal caccia, e all’ alba del 2 luglio 1961 lo usò contro di sé.

Mosso da un’ ambizione senza scrupoli, era stato irriconoscente fino alla perfidia con gli amici, da Sherwood Anderson a Scott Fitzgerald, che lo avevano aiutato a diventare chi diventò. Però poteva essere anche d’ una generosità sfrenata e quelli che gli volevano bene assicurano che sotto il carapace era «fragile come una meringa».

Tutti gli eroi dei suoi libri sono degli sconfitti. Non dei falliti in senso borghese, ma degli uomini che scommettono, si buttano nella lotta vitale e falliscono. Speculare all’ ossessione americana del successo, il fallimento è il tema chiave dell’ arte di Hemingway. E forse quello che più irrita un’ epoca anti-tragica e idiotizzata dal progresso come la nostra.

Una volta Fernanda Pivano mi disse che Hemingway considerava Morte nel pomeriggio il suo libro migliore. Perché? «Per via del capitolo 16» rispose “la Nanda”. Sono le pagine in cui “Ernie” spiega la propria poetica del personaggio, dell’ emozione, dell’ omissione deliberata. A me però il capitolo più importante è sempre sembrato il 20°, l’ ultimo. Mr. Papa – che aveva un talento speciale per i finali struggenti – lo scrisse nel dicembre ’31 ed è un elenco di tutte le toccanti cose spagnole che lui non è stato in grado di mettere nel libro: “Se fossi riuscito a fare un vero libro, ci sarebbe stato dentro tutto… le giornate di treno in agosto con le tende abbassate dalla parte del sole e il vento che le gonfia… l’ odore del grano e i mulini a vento di pietra… le strade innaffiate nel sole e le gocce ghiacciate sui boccali di birra… le cicogne sulle case e volteggianti nel cielo… un caldo che nessuno sa che cosa sia il caldo finché non c’ è stato…”».

Stilista supremo (riscrisse la fine di Addio alle armi 47 volte), venuto su nella palestra del Modernismo con Joyce, Pound e Gertrude Stein per trimurti, Hemingway non è riuscito a fare un “vero libro con dentro tutto” non per imperizia, ma perché nel Novecento la letteratura ha divorziato dalla totalità, dall’ idea dell’ autore onnisciente. Death in the Afternoon è perciò un frammentone di 300 pagine.

Marco Cicala per il Venerdì- la Repubblica

NANDA E I BEAT

NANDA E I BEAT

 

FERNANDA PIVANO, ALTO BORGHESE, LICEO D’AZEGLIO E CONSERVATORIO A TORINO, LAUREA IN LETTERE. POI UN MATRIMONIO TORMENTATO COL GIOVANE ETTORE SOTTSASS, SQUATTRINATO E BEN AL DI LA’ DI DIVENTARE ARCHISTAR- L’AMICIZIA CON PAVESE, SOPRATTUTTO, CALVINO E L’EDITORE EINAUDI LE APRONO LE PORTE DELL’AMERICA- DIVENTA SORELLA,MADRE, TUTRICE DI UNA GENERAZIONE GENIALE E DISSIPATA: LA BEAT GENERATION- NELL’ ARTICOLO CHE SEGUE SI RICORDANO LE SUE DOTI DI TRADUTTRICE E CRITICA LETTERARIA

 

 

Li chiamava «i miei eroi». Ma l’ eroe, l’ eroina, era lei, Fernanda Pivano. Lei ha capito quanto fosse importante, nella letteratura e nella società, il loro urlo trasgressivo. Senza Fernanda Pivano – la Nanda – in Italia non avremmo conosciuto la Beat Generation o l’ avremmo conosciuta in ritardo, magari filtrata da una critica letteraria accademica, paludata e schizzinosa; quando sarebbe stato forse troppo tardi.

Lei ha da subito convissuto con quella banda di mostriciattoli. Li ha capiti. Ha inseguito le loro utopie. E ha fatto diventare realtà i loro testi. Li ha tradotti. Li ha «imposti» a editori tentennanti. Li ha arricchiti di prefazioni illuminanti. E poi ha fatto venire, anche fisicamente, in Italia gli autori beat.

Li ha ospitati in casa sua a Milano sopportando e ridendo dei loro scherzi a volte infantili, a volte geniali, a volte osceni. Li ha accompagnati in giro per le città in rocambolesche tournée.

Come quella volta che, a Spoleto, Allen Ginsberg scatenò un putiferio tra il pubblico. Arrivò la forza pubblica. Volevano portare Ginsberg in guardina. Intervenne la Nanda: «Non potete arrestarlo, è un poeta!», disse. «Sì con quella faccia e quella barba», risposero le guardie dell’ ordine.

«Ora ve lo dimostro», sussurrò con dolcezza la Nanda. E aprì una pagina di Urlo ; e lesse quattro versi. E i gendarmi si arresero.

D’ altra parte Fernanda Pivano dei suoi amati beat è sempre stata sorella tollerante ma non complice e madre saggia ma non oppressiva. Parlando di uno di loro (Jack Kerouac?) ricordava: «Mi disse: non bevi, non fumi, non ti droghi, ma perché hai voluto conoscermi?».

IL VIAGGIO IN AMERICA

In America Fernanda Pivano arrivò la prima volta nel 1956, allo sbocciare dei fermenti beat. Con il tempo e con le frequentazioni dei suoi amici artisti, scoprì e fece sua una politica meno ideologica e più concreta, meno teorica e più reale di quella che aveva vissuto in Italia. Si trovò in mezzo, in America, a chi faceva un gran casino per portare in piazza e nei cervelli della gente le sue, le sue della Nanda, stesse idee. La Nanda era pacifista e i Beat erano pacifisti e contro la guerra in Vietnam.

Lei non concepiva l’ odio ed era piena d’ amore per tutti e i Beat predicavano amore senza confini di morale, religione, patria, partito, sesso, regole, soldi, potere.

Fernanda Pivano giovane. Nata nel 1917 a Genova è deceduta a Milano nel 2009

Poi persino gli Hippie con la loro amorosa rivoluzione dei fiori l’ hanno affascinata. Tanto che dopo l’ appassimento del Sessantotto si domandava: «Ma che fine hanno fatto i fiori?». Su questo, sugli Hippie, non andava tanto d’ accordo con l’ amato Kerouac che liquidava i figli dei fiori con un secco: «Quelli sono venuti dopo di noi». A proposito di Kerouac: nel 1966 la Nanda lo portò in tv, alla Rai, per un’ intervista. Lei bella, giovane, gentile, dolce. Tradiva solo un po’ di tensione perché maneggiava continuamente un paio di occhiali che poi non ha mai indossato.

Lui, gesticolante come un francese del Canada da cui veniva la sua famiglia, era già consumato da quintali di droghe ed ettolitri di alcol. Maneggiava sigarette e whisky.

Ma rispose a tutte le domande. Tranne una: «Perché non sei felice?». Silenzio e un gesto: rotondo e malinconico come può essere un gesto senza voce.

L’ILLUSIONE DELLA FELICITA’

Ma era felice, la Nanda? «Ho provato l’ illusione di esserlo – diceva – quando mi sono immaginata che quegli ideali, proprio quelli della Beat Generation potessero appiccicarsi alla realtà del mondo. Ovvio che mi sono sbagliata. Ho capito che sono stata felice solo quando ero bambina con un papà e una mamma meravigliosi».

Fernanda con Ettore Sottsass

A volte si dice: l’ educazione dei figli. Con un babbo miliardario (in lire) e una mamma bellissima e di gran classe si sarebbe potuta perdere nei labirinti in cui sono caduti tanti figli di papà (quando ancora piccola si trasferì a Torino per andare a scuola faceva la stessa strada di Giovanni Agnelli). No, neanche quei diavoli di Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs l’ hanno fatta sballare.

Eppure lei voleva capire a tutti i costi che cosa significasse il loro «cercare nuovi stati di coscienza». Fino a cantare, a recitare, accanto a Ginsberg, facendo tintinnare un triangolo musicale: «Use Dope, Don’ t Smoke» (non fumare, drògati); lei che non aveva mai sfiorato nemmeno un fungo messicano.

È arrivata ad amare talmente le persone del mondo che, sposando la deriva triste e delusa dei suoi «eroi beat», nei momenti di serena rassegnazione alla sconfitta della sua utopia e del suo corpo malato, diceva: «La morte è la mia amica; aspetto che venga a trovarmi; almeno mi libererà da quel po’ po’ di roba che c’ è nel mondo: guerre, armi, fame, sfruttamento, schiavitù, consumismo, ingiustizia, odio. Basta!

Lo sai perché ho amato On The Road ? Perché là dentro c’ era la verità. Anzi la Verità».

NANDA CRITICA  E TRADUTTRICE

Non sarebbe giusto ricordare il contributo di Fernanda Pivano alla conoscenza dei Beat senza dar conto del suo spessore critico, anche se lei lo ha sempre negato. E invece saper decifrare, come ha fatto lei, come ha scritto lei, quel mondo dei suoi amici è stato fondamentale. Sembra scritto oggi; è l’ introduzione del 1964 a Jukebox all’ idrogeno di Ginsberg:

«Il piccolo borghese americano ha quell’ automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio per cui è indebitato fino al collo lavora inebetito finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili». (Il prossimo 18 luglio Fernanda Pivano compirà cent’ anni).

Articolo di Francesco Cevasco per “La Lettura – Corriere della Sera”

 

PIVANO

PIVANO

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Una fotografia giovanile di Fernanda Pivano ai tempi di Torino

Fernanda Pivano è stata la traduttrice dei grandi scrittori americani, quando ancora i loro libri circolavano clandestini sotto il Fascismo, amica personale di Hemingway, quella che in Italia ha fatto conoscere artisti e cantanti della beat generation e gli scrittori underground. Memorabile resta la sua traduzione de Antologia di Spoon River, una raccolta di poesie di Edgard Lee Masters. Una grande donna che ha saputo interpretare assai bene gli anni del secondo ‘900, nonostante l’amore tormentato con l’archistar Sottsass e una vecchiaia incupita dalla malattia. Ecco il ritratto che ne fa Giuseppe Turani, sul suo sito (www.uominiebusiness.it/default.aspx?c=635&a=24121&tag=Personaggi/) dove potrai trovare altri ritratti di donne memorabili. Su di lei ulteriori considerazioni le trovi su questo sito digitando l’articolo Fuochi d’artificio.La pagina si chiude con un video che contiene un’intervista di Pivano a Kerouac, strafatto di alcool, e testimonianze sul rapporto della traduttrice con gli altri scrittori americani. 

 

Anche in tarda età si ostinava a cercare giovani poeti o scrittori di talento. Spesso si sbagliava. Ma sarebbe sciocco fargliene una colpa: lei amava i poeti, gli scrittori e i musicisti, e aveva passato tutta la vita a fare scoperte. E continuava. Non è colpa sua se la scena italiana offriva poco, a parte il suo amatissimo De Andre’, da lei definito come il più grande poeta italiano del 900.

D’altra parte Fernanda Pivano (solo Nanda, per tutti) aveva fatto talmente tanto per la letteratura che le si poteva concedere l’illusione di scoprire grandi poeti anche dove non ce n’erano.

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Jack Cherouac e Allen Ginsberg

La sua è stata una delle vite più straordinarie che si possano immaginare. Basterebbero due sole citazioni per descriverla. Nel 1992 a Torino, durante una delle sue ultime letture in pubblico delle proprie poesie, Allen Ginsberg, pronunciò queste parole: “E’ a lei, e soltanto a lei, che noi scrittori americani dobbiamo tutta la nostra fortuna in Italia, e forse anche in Europa”. Dopo di che, un abbraccio e otto minuti di applausi scroscianti.

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Ernest Hemingway e Fernanda Pivano

Sei anni dopo, all’inaugurazione della biblioteca che porta il suo nome e quello di suo padre, tocca a Gregory Corso, l’ultimo sopravvissuto della beat generation, rendere omaggio alla Pivano: “Lei è stata la prima che ci ha visto, ha capito quello che i nostri versi, le nostre poesie denunciavano e ci ha aiutati. Grazie Nanda”. Di nuovo abbraccio e applausi convinti.

Fernanda nasce a Genova nel 1917 in una famiglia di buona borghesia. Al liceo come compagno di scuola ha Primo Levi e come supplente di italiano Cesare Pavese, il grande intellettuale (che morirà poi suicida), in seguito motore della casa editrice Einaudi e grande esperto di letteratura americana.

E è proprio Pavese che segna il destino di quella sua giovane allieva (lei e Primo Levi non vennero ammessi all’esame di maturità perché giudicati “non idonei”). E lo fa nel modo più semplice: nel 1938 (in pieno fascismo) le  porta quattro libri in inglese e le dice di leggerli. Si tratta di Addio alle armi di Hemingway (che lei tradurrà clandestinamente), Foglie d’erba di Walt Whitman, di Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master e dell’autobiografia di Sherwood Anderson.

Nel frattempo la Pivano si è laureata prima in lettere e poi  in filosofia con Nicola Abbagnano, e si è anche diplomata in pianoforte al Conservatorio.

La sua carriera di grande traduttrice comincia nel 1943, quando pubblica per Einaudi (sotto la guida di Pavese) la versione italiana dell’Antologia di Spoon River. Cosa per cui viene arrestata dalle SS. In una retata alla Einaudi avevano trovato un contratto per tradurre Addio alle armi, intestato per sbaglio al fratello Franco, che era stato portato al comando delle SS. Fernanda si reca lì per chiarire l’equivoco. Due ufficiali tedeschi la interrogano per ore, poi rilasciano sia lei che il fratello. Addio alle armi verrà poi pubblicato solo nel 1949.

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Gregori Corso con Allen Ginsberg

Nello stesso anno Fernanda, che è bellissima, sposa un uomo che ha poi amato tutta la vita (anche dopo la separazione): il designer e architetto Ettore Sottsass.

Ma un anno prima, nell’ottobre del 1948, conosce Hemingway e nasce un rapporto straordinario. Lui è a Cortina e la manda a chiamare: ha saputo che è stata arrestata dalle SS perché aveva un contratto per tradurre un suo libro. Quando se la trova davanti, infatti, le dice subito: “Tell me about the Nazi”.  Il rapporto diventa talmente stretto e personale che Hemingway vuole aprire la posta del mattino insieme a lei: Fernanda legge le lettere in italiano e lui quelle in inglese. Poi, rispondono. In un’altra occasione la chiama con urgenza a Venezia perché vuole farle leggere un manoscritto prima di consegnarlo all’editore. Lei legge e non le piace tanto. Lui se ne accorge e dice solo: dovrò lavorarci ancora un po’.

Finisce che Fernanda tradurrà in italiano tutti i libri di Hemingway, ma anche di Fitzgerald, William Faulkner e moltissimi altri. In realtà è difficile trovare un classico della letteratura americana che non sia stato tradotto da lei. Hemingway le vuole così bene che la invita anche nella famosa Finca di Cuba, un onore riservato a pochi.

Tutto questo senza aver mai messo piede in quell’America che aveva segnato tutta la sua vita attraverso le opere dei grandi romanzieri. Il suo primo viaggio negli Stati Uniti è del 1956, grazie a una borsa di studio (chiederà al dipartimento di stato di poter fare una deviazione a Cuba, proprio per andare a trovare Ernest).

pivano de andre

In compagnia di Fabrizio de Andrè

E in America ha la seconda folgorazione della sua vita: gli scrittori e i poeti della beat generation, il movimento alternativo degli anni Cinquanta e Sessanta. Diventa amica di tutti, lei stessa racconterà divertita , di quella volta che uno di questi (Ginsberg o Corso) cerca di farsela e lei si difende con qualche difficoltà, porta tutti in Italia traducendo i loro libri, e facendoli conoscere. In pratica diventa la madrina di quei protagonisti molto bizzarri della scena americana.

Nel suo cuore, però, c’è anche la musica. E, prima di tutti De André. Lei stessa ricorda che la prima volta in cui il cantautore genovese va a trovarla a casa sua, lascia la chitarra fuori dalla porta: “Non vorrei disturbare”, si giustifica. Un’altra volta va al Forum di Assago a sentire un concerto di Bob Dylan. Gli amici le hanno procurato un posto in prima fila. Finito il concerto, tutti la riconoscono e parte un grande applauso

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La cantante Patti Smith

Fra i suoi grandi amici americani c’è anche la cantante Patti Smith, eroina della beat generation, del rock e del punk. Qualche anno dopo gli incontri americani, si riabbracciano a Genova, dove Patti è venuta per un concerto. Ecco come la stessa Fernanda ha raccontato l’episodio: “«…quando sono andata a trovare Patti Smith a Genova, portavo al collo il mio simbolo antinucleare di Bertrand Russell e, quando Patti Smith è comparsa sulla scala, mi sono accorta subito che lo portava anche lei sul risvolto della giacchettina nera diventata la sua uniforme”.

Fernanda ha ormai 86 anni, è malata, e i suoi amici scrittori sono tutti morti. Sa che Patti li ha vegliati uno per uno nelle loro ultime ore. E di questo conversano. Nel 2011 a Venezia si proietta un docufilm sulla Pivano. Patti Smith c’è e canterà sul red carpet della Mostra del cinema, in omaggio all’amica che non c’è più, che se n’è andata insieme ai suoi scrittori.

di Giuseppe Turani

(Dal Quotidiano Nazionale” del 15 novembre 2015)

 

 

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