O LA BORSA O LA VITA

O LA BORSA O LA VITA

Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e attuale presidente del ppe, è un europeista con i fiocchi e ieri mattina ha illuminato un problema importante che riguarda il conflitto in Ucraina. “In questa guerra – ha detto – tutto è reale: la follia, la crudeltà di Putin, le vittime ucraine, le bombe che cadono su Kiev. Solo le vostre sanzioni sono immaginarie. Quei governi dell’UE che hanno bloccato decisioni difficili (Germania, Ungheria, Italia) hanno perso l’onore”.

DonaldTusk

Pochi minuti dopo, un altro europeista, Dmytro Kuleba, ministro degli esteri ucraino,ha invitato gli stati Uniti a usare la loro influenza sui “paesi europei esitanti” che si oppongono al bando della Russia dal sistema di pagamenti Swift (il sistema che gestisce la quasi totalità delle transazioni finanziarie del mondo). Il tutto nelle stesse ore in cui il principale indice del mercato azionario russo, il Moex, all’indomani delle “durissime sanzioni”, ha fatto registrare un rimbalzo pari al 20 per cento. Sotto molti punti di vista, l’aggressione russa in Ucraina ha mostrato con chiarezza i limiti che incontrano le società aperte di fronte a ogni conflitto armato. Da una parte c’è un’autocrazia disposta a usare tutte le armi a disposizione.

Dmytro Kubela

Dall’altra parte, no. Chiedere di fare di più però non significa non aver fatto nulla. E dinanzi all’escalation della Russia esiste un modo non autodistruttivo per descrivere l’atteggiamento adottato dai paesi occidentali: riconoscere ciò che è stato fatto finora e provare a capire in che modo cosa non è stato fatto finora con un po’ di coraggio potrebbe essere fatto davvero. Non è poco, per esempio, avere un’Europa unita che vota all’unanimità per le sanzioni contro la Russia (lo ha fatto anche l’Ungheria). Non è poco, per esempio, non avere rilevanti cavalli di Troia della Russia nei grandi paesi europei (persino la Lega è a favore delle sanzioni). Non è poco, per esempio, avere una Nato disposta ad armare l’esercito ucraino (ieri l’Italia ha autorizzato la cessione di mezzi e materiali di equipaggiamento militare di protezione all’ucraina). Non è poco, per esempio, essere riusciti, come ha segnalato ieri il primo ministro inglese Boris Johnson, ad aver portato “i paesi che insieme costituiscono circa la metà dell’economia mondiale a massimizzare la pressione economica su un paese che rappresenta appena il 2 per cento dell’economia mondiale”. Mettere a fuoco ciò che è stato fatto non impedisce però di ragionare su ciò che ancora non è stato fatto. E per riuscire, come ha detto ancora Johnson, a costruire “una missione spietata per spremere la Russia pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno e settimana dopo settimana” ci sono almeno due ordini di problemi che meritano di essere affrontati anche dall’Italia. Il primo, Mario Draghi lo ha sviscerato ieri in Parlamento e riguarda la volontà di fare tutto ciò che è necessario per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia (più trivelle, più Gnl, persino più carbone: non si può contemporaneamente dichiarare guerra assoluta ai combustibili fossili e impedire alla Russia di fare guerra all’ucraina). Il secondo riguarda invece ciò che il governo non sembra avere intenzione di fare: andare fino in fondo nella promozione di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. Enrico Letta, segretario del Pd, ieri ha detto che “le sanzioni devono essere le più dure possibili per mettere in ginocchio la Russia”. E non sposare fino in fondo questa linea, anche bloccando gli scambi commerciale con la Russia, anche espellendo le banche russe dal sistema Swift, significa non capire un dato di realtà evidente: se Putin non pagherà un dazio pesante, ogni possibile scelta futura dettata dal nazionalismo sarà stata sdoganata. Dove non passano le merci passano gli eserciti, diceva il grande economista francese Frédéric Bastiat.

Claudio Cerasa, direttore del Foglio

Ma quando passano gli eserciti bloccare le merci diventa l’unico modo per evitare di dover usare un esercito per fermare l’esercito aggressore. Che aspettiamo?

Claudio Cerasa, Il Foglio Quotidiano

LA GUERRA LINEARE

LA GUERRA LINEARE

RUSSIA Vs UCRAINA. E’ di ieri la dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov dal tono distensivo: “possibile un accordo, intensificare la trattativa”. Apertura reale o solo melina? La storia militare russa insegna che i russi, quando si muovono, preferiscono la sorpresa. Vedremo,intanto questa l’analisi di un fine analista politico, Luca Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes

Dopodomani, mercoledì 16 febbraio, la Russia invaderà l’Ucraina. L’attacco partirà con bombardamenti aeronavali di preparazione dai distretti militari occidentale e meridionale russo – Crimea e Sebastopoli in prima linea – coinvolgendo probabilmente la Bielorussia (Lukashenka tiene molto al grado di colonnello dell’Armata russa promessogli da Putin). Fra oggi e domani, intanto, i ribelli delle repubblichine di Luhans’k e Donec’k scateneranno l’inferno. Nel giro di una o due settimane Kiev crollerà ai piedi di Mosca.

Luca Caracciolo

Da venerdì 11 febbraio questo scenario di produzione americana, diversamente dettagliato a seconda dell’affidabilità del ricevente, è sui tavoli dei trenta leader Nato e di selezionati partner.

Washington avverte che Mosca la pagherà carissima, a cominciare da devastanti sanzioni finanziarie ed economiche, fino all’esclusione dalle transazioni Swift – nervatura mondiale dei pagamenti elettronici – oltre al boicottaggio delle esportazioni dei suoi idrocarburi verso l’Europa e molto altro. La Federazione Russa verrà declassata dall’Occidente a Stato canaglia. Prima iperpotenza nucleare espulsa dalla “comunità internazionale”.

La Russia non attaccherà l’Ucraina con carrarmati e bombardieri. Lo dice l’analista Marta Ottaviani, che ha studiato a lungo Putin e la sua strategia e ha appena pubblicato il libro “Brigate russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker” (pubblicato da Ledizioni, 213 pagine, 14,90 euro). Il che non significa che gli ucraini possano stare tranquilli. Le truppe schierate a ridosso del confine sono uno strumento di pressione integrato in una strategia più sofisticata rispetto all’aggressione nuda e cruda, che (oltretutto) non prometterebbe buoni risultati. Ottaviani racconta l’impianto teorico e le applicazioni che ha già avuto la cosiddetta “dottina Gerasimov”, dal nome del generale russo a cui viene attribuita, che ha cambiato il modo di fare la guerra: si tratta di «una strategia di guerra non lineare, che consiste proprio nel non attaccare direttamente un Paese, ma nel metterlo nella maggior difficoltà possibile, in modo tale da gettarlo nell’instabilità». Un grande ruolo ha l’utilizzo di Internet, delle nuove tecnologie e dei social network per manipolare l’opinione pubblica, usando l’informazione come arma. In questo libro Marta Ottaviani illustra come Mosca sia già riuscita a «influenzare alcuni grandi conflitti e appuntamenti internazionali attraverso attacchi hacker ai danni di molti Paesi europei e legioni di troll al soldo del Cremlino», che operano per accrescere la popolarità di Putin e screditare gli oppositori. L’obiettivo è quello di far filtrare la versione dei fatti russa.

Mosca nega di voler invadere il vicino. O meglio sé stessa, giusta la tesi di Putin per cui russi e ucraini – più bielorussi – sono il medesimo popolo. Russo. Intanto continua ad ammassare truppe e armi in prossimità della frontiera ucraina (russa).

Fra poche ore sapremo se l’intelligence americana avrà fatto il colpo del secolo, datando l’aggressione di Mosca, oppure no. Il problema, per Washington, è che sarà Putin a deciderlo. Biden gli ha alzato la palla, a lui schiacciarla dove meglio crede.

I casi sono due.

L’autocrate del Cremlino è un pazzo suicida e quindi marcerà su Kiev. Così si scaverà la fossa. Non solo l’Armata russa s’esporrà bersaglio perfetto alla guerriglia nazionalista ucraina, sostenuta ed equipaggiata da americani, britannici, polacchi e baltici.

Soprattutto, l’opinione pubblica russa non apprezzerà l’aggressione a un popolo comunque intimo, se non fratello. Un russo su tre ha parenti ucraini. Sommando questi fattori alla rappresaglia atlantica, il rischio per Putin è di aprire la crisi finale sua e del suo regime. Morire per Kiev?

Oppure il presidente russo conserva l’uso della ragione. Dunque manterrà la pressione sull’Ucraina finché non sarà sicuro di aver raggiunto lo scopo: riportare quella strategica marca nella sfera d’influenza del suo impero. Putin non vuole passare alla storia come lo zar che perse l’Ucraina. Ma sa che per recuperare Kiev deve prima neutralizzarla, inchiodandola nella terra di nessuno fra sé e la Nato.

Per poi riassorbirla, almeno in parte, una volta che gli ucraini si saranno resi conto che l’Occidente non intende morire per loro. Nel frattempo, Mosca vorrà approfondire le faglie nello schieramento atlantico, insanabili perché determinate dalle differenze di interessi e di memorie storiche dei suoi soci. Senza sparare un colpo, o quasi.

La prima opzione non si può escludere a priori. Anche i leader più scaltri commettono errori fatali, sotto pressione. Oppure qualcuno nelle Forze armate disobbedirà agli ordini o cadrà in una provocazione scatenando un incidente che obbligherà Putin all’offensiva. Contrariamente al cliché, l’autocrate non è onnipotente. Il suo Stato profondo può giocargli brutti scherzi. E’ lui stesso a confessare che l’80 per cento dei suoi ordini non viene eseguito.

La seconda ipotesi è invece svolgimento logico del piano russo. Putin vuole portare la Russia in un nuovo concerto europeo fondato sull’equilibrio delle potenze, sovvertendo il primato americano codificato nella Nato.

Congresso di Vienna 2.0. Il suo modello è Alessandro I. La neutralizzazione dell’Ucraina e l’assorbimento della Bielorussia ne sono precondizione, non fini in sé. Minsk è già tornata a casa. Successo tutt’altro che secondario. Per Kiev, ammesso sia possibile, ci vorrà molto più tempo, ma Mosca non è disposta a rinunciarvi. Né ha tanta fretta da imbarcarsi in un’offensiva controproducente.

L’attacco vecchio stile con bombardamenti, carri armati e stragi di civili porterebbe forse a un provvisorio successo militare, cui seguirebbe certamente la sconfitta strategica. La Nato spingerebbe basi e missili alla frontiera con l’Ucraina russa. Europei e americani metterebbero da parte le differenze, per un periodo. Svedesi e finlandesi, più antirussi di quasi tutti gli atlantici, entrerebbero di corsa nell’Alleanza e chiuderebbero a nord la morsa del più colossale cordone sanitario che storia ricordi. E chissà se Pechino, a quel punto, muoverebbe un dito per Mosca.

Putin ha sicuramente letto Sun Tzu. Sa che la vittoria vera si ottiene senza combattere. Semmai usando mezzi ambigui, oggi battezzati ibridi. La guerra attuale si fa alle società, non agli Stati.

Per esempio con attacchi cyber, capaci di infliggere danni strutturali al nemico senza che nulla si palesi prima, salvo constatarne poi i drammatici effetti. Quando è troppo tardi.

Con queste ed altre azioni coperte, tra cui disinformazione e guerra psicologica, è possibile rendere infernale la vita agli abitanti di Kiev e delle principali città ucraine. Costringendo magari il governo a trasferirsi a Leopoli, epicentro già polacco e asburgico dell’Ucraina russofoba. E impiantando un proprio governo civetta, per esempio a Kharkiv, capitale dell’Ucraina sovietica dal 1919 al 1934.

Finora Putin ha potuto contare su un alleato certo involontario, non inatteso: Biden. Gaffe a parte, colpisce come l’approccio del leader americano e dei suoi apparati alla crisi, sempre reattivo, spesso contraddittorio, abbia contribuito alla destabilizzazione dell’Ucraina.

Cioè allo scopo di Putin. Sono mesi che Zelensky segnala a Washington come l’enfasi sulla minaccia russa finisca per seminare panico in casa, spingere capitali e capitalisti (oligarchi) alla fuga, convincere i presunti amici a non impegnarsi troppo nel sostenere la causa ucraina. Salvo, al massimo, l’invio di armi non formidabili. Armatevi e combattete per noi. Non quel che ci si attende dagli amici. Ma in guerra, classica o ibrida, è già tanto poter contare su sé stessi.

Articolo di Luca Caracciolo, La Stampa

LA CORONA DI MONÒMACO

LA CORONA DI MONÒMACO

ALLA RICERCA DELL’IDENTITA’ RUSSA, IN UN IMMENSO TERRITORIO ABITATO DA CENTO POPOLI- I CONFINI DELLA RUSSIA RESTANO UN PROBLEMA APERTO- IL POTERE DI PUTIN MAI COSI’ ASSOLUTO MINACCIATO DALLA STAGNAZIONE ECONOMICA -IL SUMMIT FRA PUTIN E TRUMP DEL 16 LUGLIO RESTITUIRA’ ALLA RUSSIA IL RUOLO DI GRANDE POTENZA CUI AMBISCE? COSI’ LA PENSA LUCIGNOLO.

 

“Ovunque ci troviamo, c’è sempre una Russia, a est , a ovest , a nord o a sud – ma ci abita l’orso russo . Non è un caso se l’orso è il simbolo di questo sterminato paese. Vive là, a volte in letargo, a volte ringhioso, maestoso, ma feroce “.

 

Caterina II

La Russia è il paese più grande del mondo (due volte gli Stati Uniti o la Cina, cinque volte l’India , venticinque volte il Regno Unito ), ma ha una popolazione limitata a 144 milioni di persone – meno della Nigeria o del Pakistan. Pur con un’economia grande come quella della Spagna, continua però ad essere una superpotenza militare e mondiale.

La Russia, “un rebus avvolto nel mistero che sta dentro un enigma. Ma forse c’è una chiave: l’interesse nazionale russo” a detta di Churchill.

Quali allora le chiavi per capire la Russia?

La geografia è la prima ed assoluta chiave di spiegazione della Russia.

È tutta una pianura, e quindi indifendibile.

Incendio di Mosca nel 1812, durante l’invasione napoleonica

La Russia come concetto risale al IX secolo ed a una prima federazione di tribù della Slavia orientale, nota come Rus ’ di Kijev nell’odierna Ucraina. I mongoli attaccavano continuamente la regione da sud e da est, per poi occuparla nel XIII secolo. Allora quella Russia embrionale si trasferì a nord – est e intorno alla città di Mosca.

Il Gran Principato di Moscovia – si chiamava così – era indifendibile. Non c’erano montagne, non c’erano deserti e i fiumi erano pochi. Era tutta una pianura, e al di là della steppa, verso sud e verso est, bivaccavano i mongoli. L’invasore poteva avanzare a suo piacimento, e c’erano poche postazioni difensive naturali in cui trincerarsi

Senza parlare dei mongoli (e dei turchi loro parziali successori) non è andata meglio al confine occidentale.  I russi sono stati invasi dai polacchi a inizio ‘600, dagli svedesi agli ordini di Carlo XII ad inizio ‘700 , da Napoleone ad inizio ‘800, e dai tedeschi due volte  in entrambe le guerre mondiali. Considerando tutti i conflitti i russi hanno combattuto mediamente ogni trentatré anni nella pianura nordeuropea o nelle sue vicinanze.

Da qui l’esigenza e poi l’imperativo, perseguito per secoli, da Ivan il terribile in poi, dell’attacco come difesa. Prima cementare in modo assoluto il potere in casa e poi espandersi all’esterno per creare delle zone di difesa sempre più ampie intorno a sé. Spietatezza e visione strategica.

In quest’ottica di sopravvivenza e di imperialismo i Romanov (a prescindere dalla tragica fine del loro ultimo discendente) sono stati la dinastia di maggior successo della storia. L’ ultimo zar regnava su un sesto della superficie terrestre. Si stima che dopo la loro ascesa al trono l’impero si sia ingrandito di 140 km quadrati al giorno, ossia di 50.000 km quadrati all’anno. Dove veniva versato sangue russo, quella doveva diventare Russia.

Lenin in campagnia dello stato maggiore bolscevico a Mosca

Solo la sua espansione ha reso la Russia inattaccabile. Il confine occidentale è largo più di 3000 chilometri, ed è tutto pianeggiante fino a Mosca e anche oltre; anche con un grande esercito sarebbe quasi impossibile difendersi in forze al suo interno. Ma la Russia non è mai stata conquistata grazie alla sua profondità strategica. Quando un esercito arriva in prossimità di Mosca, ha già linee di rifornimento insostenibilmente lunghe: un errore che commise Napoleone e che ripeté Hitler. Analogamente nell’Estremo Oriente russo è la geografia che protegge il paese. È difficile portare un attacco dall’Asia alla Russia asiatica; non c’è molto da attaccare tranne la neve, e si potrebbe arrivare solo fino agli Urali.

Come tutte le grandi potenze, la Russia ragiona nella prospettiva dei prossimi cento anni.

Così si può comprendere la perdurante diffidenza nei confronti dell’Europa e l’interesse a dividere le fila dei nemici occidentali con ogni mezzo, in passato coi matrimoni dinastici ed alleanze variabili, oggi anche foraggiando i populismi e l’antieuropeismo.

San Pietroburgo

La mancanza di un porto in acque temperate affacciato direttamente sugli oceani è poi sempre stato l’altro tallone d’Achille della Russia e la sua fissazione, perché riveste la stessa importanza strategica della pianura nordeuropea. Nel proprio testamento Pietro il Grande suggeriva ai suoi discendenti di avvicinarsi il più possibile a Costantinopoli e all’India. Le rotte marittime a nord, quando non gelate, costeggiano tutti stati nemici. L’imperativo era avere un porto a sud per la marina navigabile tutto l’anno. Da qui l’assoluta importanza della Crimea, la sventurata guerra in Afghanistan, e la guerra in Siria per avere un porto nel Mediterraneo.

Lo spirito di sopravvivenza si è sostanziato, come detto, in due imperativi: espandersi all’esterno e cementare il potere all’interno (perché una nazione divisa non avrebbe avuto scampo).

Quanto all’accentramento del potere la Russia ha sempre incarnato la parabola del potere più assoluto.

Presso tutti i governi un sicario non può mai mancare, e la storia russa in proposito ne è l’esempio massimo. Ma non tanto la brutalità viene addebitata al tiranno quanto la brutalità incoerente.

Putin in un fotomontaggio in compagnia di Hitler

Il potere assoluto ha le sue controindicazioni. Non essendoci un’opposizione ufficiale, il prezzo del fallimento è sempre stata la morte. Ciò fa sì che i tiranni longevi siano personalità eccezionali o addirittura geni politici, come Pietro il Grande e Caterina.

L’imperatore deve infatti contemperare tutti gli interessi, perché un pugnale alle sue stesse palle è sempre pronto. Dovevano essere contemperati gli interessi della nobiltà, dell’amministrazione e dell’esercito dagli zar ( csar, da Caesar, imperatore) in passato.  Gli interessi dell’esercito, dell’amministrazione e del partito dai segretari del Pcus. E di nuovo gli interessi dell’esercito, dell’amministrazione e della corte di oligarchi da Putin ora.

Oligarchi che hanno preso il posto della nobiltà di un tempo e delle élites del partito, perché la vicinanza al sovrano si tramuta sempre in potere. L’imperatore non ha una dimensione personale, tutto è pubblico, e chiunque entri in contatto con la corte viene avvolto in un filo d’oro, indissolubile e potenzialmente strangolante.

Mosca, piazza Rossa in un fotomontaggio fiabesco, dai colori irreali

Può essere questa una rappresentazione aliena a menti come le nostre, nutrite di democrazia rappresentativa. Ma il contratto politico che ogni governante russo ha inderogabilmente dovuto rispettare è stato sempre questo: sicurezza all’interno e grandezza all’esterno, in cambio del predominio di un solo uomo e della licenza per lui e per la sua corte di arricchirsi enormemente e di condurre vite al di là di ogni limite.

Wladimir Putin e Donald Trump: il loro incontro ad Helsinki è assai atteso e potrebbe cambiare l’assetto geopolitico del mondo

Quindi dal Gran Principato di Moscovia, passando attraverso Pietro il Grande e Stalin per arrivare a Putin, ogni leader russo si è dovuto misurare con gli stessi problemi. Non conta se l’ideologia di chi guida il paese è zarista, comunista, o neocapitalista: le acque dei porti continuano a gelare, e la pianura nordeuropea è sempre piatta.La cartina geografica che aveva sotto gli occhi Ivan il Terribile nel XVI secolo è la stessa che ha di fronte oggi Vladimir Putin, ed i ragionamenti che ne conseguono sono sempre gli stessi.

Ed ancora il contratto politico stipulato con la nazione russa, ed i modi di adempiere ad esso, continuano ad essere gli stessi di sempre.

Bibliografia:

Tim Marshall. Le 10 mappe che spiegano il mondo. Garzanti.

Simon Sebag Montefiore. I Romanov. Mondadori.

In copertina: Marc Chagal: Villaggio russo sotto la luna (1911)

 

Italian way anti jihad

Italian way anti jihad

L'autore dell'articolo Antonio Funiciello

L’autore dell’articolo Antonio Funiciello

Il lungo intervento di Antonio Funiciello, consulente della presidenza del Consiglio dei ministri, sui temi della lotta al terrorismo e su come affrontare l’ondata di migrazione verso l’Occidente, è un tentativo organico di dare una base ideologica e culturale alle attuali mosse di politica estera del governo italiano.

L’idea che l’identità culturale, secondo quanto scrive Funiciello, sia un polo attrattivo più forte della forza economica e militare, è certamente discutibile, almeno nel breve-medio periodo, cioè il tempo utilmente concesso per una risposta necessaria nei confronti del terrorismo e dell’estremismo. Ciò nonostante, l’intervento ha il pregio di porsi gli interrogativi giusti e di tentare delle risposte. E non è poco, visti i tanti farfugliamenti nostrani e i tartufeschi atteggiamenti della comunità internazionale.    

“Quando privi un occidentale della possibilità di nominare esattamente le cose, gli sottrai il primo elementare strumento di conoscenza della realtà. Per come ce l’hanno raccontata, e per come tendono a credere sia andata anche quelli che non credono, Dio creò il mondo nominandolo. Similmente Adamo conferì riconoscibilità alle cose del creato scovando, per ognuna di esse, un nome.

Lo sgomento di un adolescente che scorre i commenti della strage parigina dell’estremismo salafita, è anzitutto mosso dall’incertezza nel dare un nome a questo nostro nuovo nemico. ISIL, ISIS (Daish o Daesh per i più rigorosi) o più sinteticamente IS, sono tutti acronimi diversi per indicare lo stesso nemico. Chi ha più letto sa distinguerli e sa metterli in ordine, mutuando quasi una prima comprensione evolutiva del fenomeno. Chi non è in possesso di più robusti strumenti intellettuali, come un qualsiasi adolescente occidentale, non comprende.

Ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze insegniamo, a scuola, a prendere sul serio le parole. La conoscenza del linguaggio, che muove dalle regole grammaticali alla costruzione del discorso, fino (per chi ha voglia di studiarlo) all’analisi filosofica dello stesso, è una pratica essenziale. Tanto perché la nostra civiltà occidentale è fondata sul dialogo: sull’idea, folle e geniale, che l’interlocuzione sia più forte dell’elocuzione singolare. Sul dialogo tra gli uomini abbiamo fondato la democrazia e costruito il nostro diritto, le nostre istituzioni, la libera economia, lo stato sociale. Sappiamo che il dialogo è impegnativo e difficile, anche dopo duemilacinquecento anni di storia. Eppure diamo per scontato la premessa necessaria del dialogo: l’esattezza delle parole.

La prima piccola, minuscola vittoria di questi signori che in nome del loro dio seminano morte, è proprio questa. Non sanno come chiamarli e non sanno come spiegarsi la loro interpretazione di parole fondamentali come vita e morte. Non che i nostri adolescenti non siano appassionati. Sono forse, anche grazie alle possibilità inedite che offre loro la rete, la generazione più viva tra quelle viste negli ultimi decenni. Sono vivi e appassionati, ma proprio non fa parte del loro immediato universo simbolico, e dell’immaginario collettivo che ne segue, la possibilità che uno accompagni suo fratello a farsi saltare in aria in un bar. Nel loro e nel nostro immaginario non sarebbe finita così. All’ultimo momento, come in uno di quei bei film che portiamo nel cuore, il fratello avrebbe fermato il fratello.

Il presidente del Consiglio Renzi

Il presidente del Consiglio Renzi

C’è poco da scherzare con l’immaginario collettivo. Più che sul piano militare, l’America ha sconfitto la Russia comunista grazie all’american way: dai romanzi di Faulkner e Saul Bellow al rock e al jazz, fino ai film di Hollywood e al basket. Sul piano militare gli americani hanno preso tante di quelle botte dai comunisti, che parlarne gli dà ancora noia. Più efficaci dei proiettili sono state le mille opportunità della democrazia fondata sulla ricerca della felicità e della libertà d’impresa, raccontate dagli scrittori, dai musicisti, dai registi. Con questo non si vuole sostenere che l’abbattimento dell’odioso comunismo sovietico sarebbe stato possibile soltanto a colpi di Dylan e di hamburger. Ma che Dylan e gli hamburger hanno avuto una parte importante.

I jihadisti questo lo hanno capito, profondamente. Certo, più tradizionale di quanto sembri è la loro pretesa di istituire un califfato sovranazionale a tendenza naturalmente espansiva sulla base di una lettura rigorosa del libro sacro. Come ha scritto su Foreign Affairs Jacob Olidort (What is Salafism?), “per fronteggiare la minaccia dell’ISIS, il mondo deve capire che l’ISIS, come gli altri sostenitori del salafismo, sono parte di un nuovo capitolo del libro dell’Islamismo. I combattenti dell’ISIS sono votati a concetti e a testi fondamentali elaborati molto tempo fa e, per la prima volta nella storia di questa religione, hanno dimostrato d’essere capaci di applicarli”. Tuttavia una parte cruciale della loro abilità di applicazione di certi versetti del Corano, che li induce alle note ed efferate azioni criminali, è data dalla loro estrema comprensione dell’era della globalizzazione.

Questi guerrieri sanguinosi sanno di essere troppo pochi e militarmente inefficaci per sconfiggerci in uno scontro ordinario. Ma continuano a pensare, con Clausewitz, che scopo della guerra sia “disarmare l’avversario”. Consci così dell’impossibilità di disarmare militarmente chi li avversa, essi puntano, attraverso la guerriglia terroristica, a disarmarci sul piano ideale e culturale. Spiace qui cedere a un eccesso di spregiudicatezza del pensiero, ma le 130 vittime innocenti di Parigi non rappresentano militarmente un fatto rilevante. Sono invece un fatto scioccante e straordinario, se si ammette che l’obiettivo del Califfato è disarmare i milioni di europei del loro sogno (e della loro realtà) di sicurezza e di pace, costruito faticosamente dopo due guerre mondiali e dopo la guerra fredda. Qui sta il senso della loro sfida e il significato dell’estrema pericolosità della loro strategia.

Isis

Chi all’estero ha apprezzato la posizione del governo italiano, dai giornali ai partner internazionali, ha colto che essa muove dall’intuizione del vero campo di battaglia su cui lo Stato Islamico vuole vincere la sua guerra. Perché l’Occidente ha un disperato bisogno di rafforzare e attualizzare l’immaginario collettivo che dà corpo al suo universo simbolico. E’ dal crollo del muro di Berlino che ne ha bisogno. L’Occidente, coi suoi organismi internazionali, non ha mancato negli ultimi venticinque anni a nuovi appuntamenti di guerra. E’ stato, viceversa, manchevole nella capacità di rilanciarsi come magnete culturale, come potenza attrattiva in forza dei diritti e delle opportunità che il suo way of life incarna.

Quando il presidente Renzi ha fissato il principio per cui a ogni centesimo del miliardo impegnato per la sicurezza interna corrisponderà ogni centesimo del miliardo per la cultura, ha scelto di stare sul vero campo di battaglia prediletto dal Califfato. Da un lato, il doveroso impegno alla difesa e alla sicurezza interna; dall’altro, il sostegno economico a quella componente centrale del way of life occidentale che è l’italian way: la bellezza, l’arte, la cultura, la libertà. Così facendo Renzi si è messo, più di chi spara in aria per spaventare le cornacchie, sulla linea di fuoco della jihad.

La scommessa è garantire sicurezza e difesa del nostro stile di vita, quindi, ma anche sostenere la consapevolezza dei valori ideali e culturali che sono alla base della nostra sicurezza e del nostro stile di vita. Come ha detto il Presidente Napolitano a Pavia, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, condividiamo tutti la priorità di “disinnescare la minaccia del terrorismo con ogni mezzo sul piano internazionale”. I soli mezzi militari però, già notoriamente insufficienti in casi di guerra convenzionale, sarebbero ancor più manchevoli in questa circostanza non convenzionale.

Non perché l’Italia non metta in gioco la vita dei propri soldati. Dall’Afghanistan alla Somalia, dalla Libia all’Iraq, dal Kosovo al Libano, seimila nostri militari consentono all’Italia di fare la propria parte fino in fondo nel mondo. In Iraq, siamo il paese occidentale più attivo dopo l’America nel fornire armi e addestrare migliaia di peshmerga curdi. Quei peshmerga che, anche grazie alle nostre armi e ai nostri addestramenti, hanno riconquistato la città di Sinjar. Se non sono boots on the ground questi!

Copia del Corano

Copia del Corano

A dirla tutta, quando pochi giorni fa Renzi, nel discorso ai Musei Capitolini, ha invocato “un salto di qualità nella battaglia culturale”, ha offerto una interpretazione più corretta e progressiva delle tesi di Huntington di vent’anni fa. Come previde Huntington nel suo Scontro di civiltà, dopo la fine della guerra fredda la storia non è affatto finita col trionfo della liberal democrazia vaticinato da Fukuyama. In quel libro di cui i più (da giornalisti ai politici) citano il titolo senza averlo mai letto, Huntington aveva compreso che né la rivalità economica né lo scontro ideologico avrebbe prodotto i futuri conflitti, quanto le diversità culturali e civili. Diversità che, sottratte al gioco dello stringente dualismo ideologico ed economico della guerra fredda, avrebbero trovato spazi per affermare se stesse.

Così si spiega non solo il Califfato, ma anche la baldanzosa tenacia di Putin nell’opera di autoaffermazione dell’identità russa. Un’identità revisionata dal sincretismo putiniano e rilanciata su presupposti civili e culturali, più che ideologici o economici. La Russia ha ancora oggi una capacità di produzione di ricchezza inferiore a quella dell’Italia. E nonostante sia tra le grandi nazioni del mondo una di quelle che destina più parte del PIL alla spesa militare, è assai lontana dall’avere la più potente potenza di fuoco del pianeta. Pur tuttavia Putin è riuscito a porsi al centro dello scacchiere internazionale, perché ha revisionato il proprio universo simbolico (sintetizzando la storia della Russia pre-sovietica, con il leninismo e lo stalinismo e, infine, con la contemporaneità che egli rappresenta), rinvigorendo l’immaginario collettivo dell’orso russo.

E’ stato certo più facile per Putin, come per altri, trovare spazi grazie ai sette anni di minore impegno multilaterale statunitense (l’accordo con l’Iran è prezioso, ma è forse un po’ poco in sette anni…). E preoccupa pensare che Putin e gli altri avranno ancora un anno di “dronismo” su cui potersi adagiare, prima che il cambio di guardia alla Casa Bianca produca dei mutamenti nella politica estera statunitense. Ma è chiaro che i progressi della politica putiniana sono principalmente figli della lezione imparata dagli americani nella guerra fredda: la costruzione di un polo identitario, globalmente attrattivo per il magnetismo della propria identità culturale, più che per quello della propria forza economica o militare.

Angelos Tzortzinis Migranti Grecia

Angelos Tzortzinis Migranti Grecia

Questa è la sfida da vincere. E in attesa che, dopo gli errori di Bush e il disengagement di Obama, l’America torni ad avere un ruolo da protagonista, l’Europa farebbe bene a prendere sul serio l’impegno del “salto di qualità nella battaglia culturale” richiesto da Renzi. Si è detto, con molte ragioni, che gli attentati di Parigi sono stati subito percepiti da italiani, spagnoli, tedeschi e britannici come attentati europei più che francesi. E’ una constatazione emozionale importante, prodotta da Charlie Hebdo e dagli altri attacchi del Califfato, sulla scia di quelli perpetrati da Al Qaida a Londra e Madrid. Tuttavia per fare in modo che a tale constatazione emozionale collimi una riflessione razionale, che nutra una politica europea del “salto di qualità nella battaglia culturale”, occorre molto lavoro.

Forse la retorica del federalismo europeista ha fatto davvero il suo tempo. E’ stata la necessità di lasciarsi alle spalle l’orrore di due guerre fratricide, che ha indotto l’Europa a porre le condizioni istituzionali di una pace duratura. Ci sono voluti milioni di morti europei per avere l’intuizione che, quanto unisce gli europei fra loro, è molto più forte di quanto in passato li ha divisi. I vincoli aguzzano gli ingegni degli artisti e le necessità storiche affilano quelli degli statisti. Oggi la necessità di difendersi dal nuovo nemico potrebbe davvero essere la leva che spinge una nuova fase dell’integrazione continentale.

Un’integrazione pragmatica: necessitata più che ideale, empirica più che idealista, che non può comprendere tutti i ventotto paesi dell’Unione, e forse neppure i diciannove dell’eurozona. Un’integrazione che sul tema della sicurezza continentale e della difesa comune può trovare il terreno per riprendere a crescere. Era il grande sogno di Alcide De Gasperi, che tanto aveva a cuore la difesa comune europea e tanto ne riconosceva la rilevanza strategica in ottica d’integrazione continentale, da essere contrario alla Nato.

Quel progetto di difesa comune saltò per l’indisponibilità della Francia. Indisponibilità alla condivisione mostrata di recente in occasione delle insensate scorrerie francesi sulla Libia, che hanno accresciuto la vulnerabilità di quella nazione alle incursioni dello Stato Islamico. Spesso purtroppo la Francia, molto più della Germania, ha rappresentato un freno all’integrazione. L’occasione mancata dell’accoglimento della Turchia dell’Unione, quando la Turchia non aveva ancora conosciuto l’irrigidimento culturale di Erdogan, è stata un’altra occasione mancata per l’Europa, dovuta ancora all’indisponibilità della Francia.

Putin e Obama

Putin e Obama

Tutti i paesi europei hanno fatto i loro errori. E andando verso il settantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 1957, sarebbe forse il caso di esaminarli a fondo, anche per mettere meglio in risalto i successi che pure non sono mancati. L’Europa è chiamata, dopo il triste fallimento della costituzione europea, a rilanciare il proprio universo simbolico attraverso un investimento nel proprio immaginario, che risulta da tempo appannato. Deve farlo in fretta, perché alla strategia di morte del Califfato è connessa la questione del grande esodo dei migranti, che scappano dai territori minacciati dall’avanzata jihadista. Scappano per cercare rifugio e ristoro in un’Europa accidiosa, che non ha saputo o voluto ancora cogliere il significato storico e il senso politico di questo poderoso spostamento di uomini e donne.

A restare umani non si perdono voti, ma se ne guadagnano. Ed è il modo più bello per guadagnarne. Se quella dello Stato Islamico sarà “la più lunga guerra del ventunesimo secolo”, per dirla con Aaron David Miller, la questione del grande esodo dei migranti sarà la sfida parallela più importante da vincere. Per due motivi semplici, ma pregni di significati. Anzitutto perché il primato dell’umanità e della pietas cristiana sono valori irrinunciabili, pena l’impossibilità di definirsi uomini. Quindi perché, se vogliamo dare una rispolverata a quell’immaginario collettivo occidentale che dà corpo al nostro orizzonte di valori, dobbiamo riscoprire, uno per uno, gli ideali iniziali del nostro vivere civile. Il valore antico dell’ospitalità è uno di questi.

L’ospitalità è forse l’essenza dell’italian way che, a sua volta, è il cuore pulsante del destino di scambio e di accoglienza del Mediterraneo, che non può in nessun modo diventare, come ha detto il Ministro Gentiloni, “il centro della riluttanza dell’Occidente”. La sfida planetaria contro lo Stato Islamico si vince prima nel Mediterraneo. E se non si vince nel Mediterraneo, non si può vincere a livello globale. Nel grande esodo dei migranti ci giochiamo parte significativa della possibilità di annientare il Califfato. Esserci dotati, in Italia per la prima volta, di una legge sulla cooperazione internazionale è la prova che, più di altri, abbiamo colto un livello d’ingaggio determinante. Forse la prossima mossa, dopo il miliardo di euro sulla sicurezza e il miliardo di euro sulla cultura, è il miliardo di euro sulla cooperazione. Tenendo sempre alta la guardia sui fronti militari dove siamo impegnati oggi e su quelli dove saremo impegnati domani.”

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Brani estratti dell’intervento di Antonio Funiciello, consulente della presidenza del Consiglio dei ministri, Il Foglio del 02 Dicembre 2015.

 

 

 

 

 

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