FAR CRESCERE I MIGLIORI SECONDO LUCA RICOLFI.

FAR CRESCERE I MIGLIORI SECONDO LUCA RICOLFI.

UNO NON VALE UNO, ONORE AL MERITO E’ LA VERA RIVOLUZIONE! LE RIFLESSIONI DI UN EX SOCIALISTA PROLETARIO, EX GIUSTIZIALISTA PENTITO, ORA INNAMORATO DI CALAMANDREI

La rivoluzione del merito” – l’ultimo libro di Luca Ricolfi – appena uscito in libreria per Rizzoli – dovrebbe già essere sulla scrivania di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il libro racconta la storia della lotta contro il merito, e contiene anche, alla fine, una “modesta proposta” per istituire un generoso sistema di borse di studio per i ragazzi capaci e meritevoli ma poveri.

“La presidente del Consiglio”, racconta Ricolfi, “condivide l’idea lanciata dalla Fondazione Hume e ripresa nel mio saggio. E, a quel che ne so, è determinata a realizzarla fin dalla fine di questo anno scolastico”. Ricolfi è ossessionato dal problema del merito fin dai tempi delle riforme di Luigi Berlinguer, alla fine degli anni 90. “Ma ancora non riesco a darmi ragione del silenzio di tutte le forze politiche, a partire da quelle che si proclamano progressiste, per il destino dei ragazzi ‘bravi a scuola’ ma provenienti da famiglie modeste”.

Sociologo dotato dell’abilità di scrivere con chiarezza illuministica, Ricolfi è nato nel 1950, lo stesso anno in cui Piero Calamandrei, a Roma, pronunciò davanti a maestri e professori uno strepitoso discorso in difesa della scuola, raccontato nel primo capitolo del libro. Un discorso poco conosciuto, che parla dell’articolo 34 della Costituzione. Quello che recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”. Secondo Calamandrei, “l’articolo più importante della Costituzione”. Di cui è necessario ricordare “il valore politico e sociale”. Perché solo attraverso il sostegno ai capaci e meritevoli la scuola può far crescere “i migliori”.

“I partiti progressisti hanno dimenticato la lezione di Calamandrei. Anzi hanno sconsideratamente tradito l’articolo 34 per abbracciare la bandiera del ‘diritto al successo formativo’, che ha danneggiato proprio le persone che ai progressisti dovrebbero stare più a cuore: le più umili”.

La difesa della cultura come strumento di emancipazione – un tempo centrale anche nella politica del Pci di Togliatti – è così rimasta politicamente orfana. “I progressisti l’hanno abbandonata, la destra non l’ha ancora raccolta”. La novità è che, a sinistra, la parola merito è diventata quasi una bestemmia, dopo essere stata messa al fianco di “istruzione” nel nome del ministero oggi guidato da Giuseppe Valditara. “Mentre è il discorso più di sinistra che si possa fare”. Né Elly Schlein, né nessun altro dei segretari precedenti del Pd, però, ha mai invitato Ricolfi a un incontro di partito. E’ stata piuttosto Giorgia Meloni a chiedergli di partecipare, nella primavera scorsa, alla convention di Fratelli d’Italia.

Di destra? No, Ricolfi si definisce al contrario “un uomo di sinistra”. In politica economica, addirittura “radicale”. “Io sono un sessantottino. La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure.

Luca Ricolfi

L’italia va rivoltata come un calzino. Tutto il resto è acqua fresca”. Il passato del Ricolfi rivoluzionario è poco noto. “Ero vicino al Psiup, allora guidato da Pino Ferraris. Ma lasciai nel 1971, quando, a una manifestazione, Lotta Continua e gli psiuppini se le diedero di santa ragione con le aste delle bandiere per prendere la testa del corteo. Così io salii sulla mia Fiat 850 e mi rifugiai in montagna, dove rimasi per circa un anno, scendendo solo a dare esami all’università. Per quasi un anno mi dedicai solamente a studiare i miti greci e a tradurre (malissimo) la Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Di quel tipo di politica lì, di quella competizione senza senso fra gruppetti extraparlamentari, non volli saperne più niente”.

Seppur sessantottino, Ricolfi è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa la responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.

Il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con don Lorenzo Milani. Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse”.

E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun Reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”.

Delle conseguenze della propria radicalità, Luca Ricolfi si rimprovera una sola cosa: “Il libro che ho scritto su Tangentopoli, ‘L’ultimo Parlamento’. Rigoroso nei numeri, ma così ferocemente giustizialista che oggi mi vergogno di averlo scritto. Non perché il fine non fosse sacrosanto: rinnovare il sistema politico italiano in profondità. Ma perché oggi so che nessun fine può essere distinto dai mezzi che si adoperano per raggiungerlo. E i mezzi usati da Di Pietro e dal pool di Mani pulite furono (dico oggi) non degni di un paese civile, per non dire mostruosi”.

Solo quando parla dei valori culturali Ricolfi sente di potersi allontanare dalla parola radicale. “Su questo piano non nascondo di essere conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si precipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”.

Si dovrebbero recuperare allora le culture antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil”.

In Italia, però, i conservatori hanno un handicap. “Nel nostro paese non si scontrano in realtà due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una: quella progressista. E’ la sinistra che conduce le battaglie di civiltà: afferma diritti, combatte privilegi, sempre in nome di un’idea più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone. Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.

Intervista a cura di Nicola Mirenzi, Il Foglio Quotidiano

SIGNORI, O PEZZE AL CULO?

SIGNORI, O PEZZE AL CULO?

LUCA RICOLFI LA METTE GIU’ DURA: STIAMO BENE PERCHE’ I DANE’ SONO DEI NONNI O DEI PADRI E UN ESERCITO DI SEMI SCHIAVI E’ AL NOSTRO SERVIZIO, DAI BRACCIANTI IN NERO, AI PRECARI, ALLE BADANTI SENZA PERMESSO DI SOGGIORNO, AGLI STAGIONALI…… MA NON DURA, NON PUO’ DURARE.

Il sociologo non dà semplici opinioni, cita dati e cifre, incontrovertibili. La classe media oggi: famiglie più ricche, figli need, cioè bisognosi del superfluo e senza progetto alcuno in testa. Sullo sfondo lo sfascio della scuola. Ma soprattutto il crescente divario fra chi ha tutto e chi non ha niente. Non si può generalizzare, ne’ essere pessimisti, ma riflettere sull’analisi di Ricolfi è necessario per capire dove stiamo andando.

Come si concilia la fine della crescita economica con l’ affermarsi di un consumo opulento di massa? Come possono stare insieme due fenomenologie apparentemente opposte come quella dei Neet e dei ristoranti pieni? Alle domande che in diverse occasioni ci siamo posti un po’ tutti arriva oggi una risposta secca del sociologo torinese Luca Ricolfi: «L’ Italia è un tipo unico di configurazione sociale. È una “società signorile di massa”, il prodotto dell’ innesto di elementi feudali nel corpo principale che pure resta capitalistico».

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LUCA RICOLFI - LA SOCIETA SIGNORILE DI MASSA

La vis polemica di Ricolfi è conosciuta e apprezzata da tempo ma nel suo ultimo lavoro, La società signorile di massa (La nave di Teseo) il sociologo torinese si è dato un obiettivo più ambizioso: una rilettura delle basi sia antropologiche sia materiali di una società dove il numero di cittadini che non lavorano ha superato ampiamente il numero di quelli che lavorano, l’accesso ai consumi opulenti ha raggiunto una larga parte della popolazione e la produttività è ferma da 20 anni. Nella definizione che fa da titolo all’ intero lavoro Ricolfi riconosce un debito culturale nei confronti del suo antico maestro Claudio Napoleoni.

Ad alimentare i consumi sono per prime le rendite, la fonte su cui da sempre nobili, proprietari e classe agiata hanno poggiato le loro vite. Siamo diventati signori senza essere stati capitalisti. È tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila che la ricostruzione di Ricolfi colloca i passaggi-chiave verso una società opulenta, che poi descrive così: «Non l’auto ma la seconda auto con gli optional. Non la casa, ma la seconda casa al mare o in montagna. Non la bici ma le costose attrezzature da sub o da sci.

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Non le solite vacanze d’agosto dai parenti ma weekend lunghi e ripetuti. E ancora: i corsi di judo, l’apericena, i mega schermi piatti. Un consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza». Come testimoniano anche i 107 miliardi di spesa per il gioco d’ azzardo, il 65% di vacanze lunghe, un’ auto e mezza per famiglia, le ripetizioni a manetta per i figli, il 36% iscritto a palestre e centri fitness e la cifra-monstre di 8 milioni di consumatori di sostanze illegali.

Questa società signorile, che consuma più di quanto produca, a Ricolfi appare indubitabilmente malata e si regge su tre pilastri. La ricchezza reale e finanziaria accumulata dai nonni, la distruzione della scuola e, infine, la formazione di un’infrastruttura schiavistica, un esercito di paria al servizio dei Signori.

NEET

Nel 1951 la ricchezza media della famiglia italiana era di circa 100 mila euro, negli anni ’90 era salita a 350 mila – grazie al debito pubblico e alle bolle speculative immobiliari – e oggi viaggia su quota 400. «La ricchezza è cresciuta più del reddito» annota Ricolfi. Che riserva parole durissime allo stato di (cattiva) salute della scuola.

È stata l’istruzione senza qualità a generare il fenomeno della disoccupazione volontaria che il sociologo riassume simbolicamente nella storia di un pizzaiolo piemontese tra i migliori d’ Italia che in otto mesi non è riuscito a coprire un posto da cameriere nel suo locale. «I titoli di studio rilasciati dalla scuola e dall’università sono eccessivi rispetto alle capacità effettivamente trasmesse – rincara Ricolfi – La scolarizzazione di massa ha moltiplicato il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte ma il numero di tali posizioni resta invariato».

I giovani però possono permettersi di rifiutare offerte di lavoro che giudicano inadeguate perché nonni e padri hanno accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti. Infine il lato oscuro della società signorile: la «struttura paraschiavistica», quella parte della popolazione residente, per lo più straniera, collocata in ruoli servili a beneficio dei cittadini italiani. Chi sono i paria di Ricolfi? Lavoratori stagionali spesso africani, prostitute, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, muratori dell’Est.

Un esercito di 2,7 milioni di persone che genera surplus e eroga servizi a famiglie e imprese e «senza i quali la comunità dei cittadini italiani non potrebbe consumare come fa». Ma l’Italia dei Troppi Signori e dei Tanti Paraschiavi ha un futuro? La sentenza di Ricolfi non lascia adito a dubbi: «Il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, la stagnazione diverrà declino. La società signorile è un prodotto a termine».

Articolo di Dario Di Vico per il “Corriere della sera”

UN’IDEA DELL’ITALIA? SBAGLIATA.

UN’IDEA DELL’ITALIA? SBAGLIATA.

UNA DISAMINA SERIA E PREOCCUPATA DI LUCA RICOLFI SUI MALI ITALIANI- PARECCHI CONFONDONO LE CAUSE CON GLI EFFETTI: ALZARE IL COSTO DEL LAVORO SENZA AUMENTARE LA PRODUTTIVITA’ DISTRUGGE I POSTI DI LAVORO, ANZICHE’ CREARLI

Rischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: impedire il voto.

Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte?

Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e completamente privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette.

Quale idea?

L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali. Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari.

Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più  debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari.

Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi?

In un certo senso sì. Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno  ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo.

Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga, senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro.

La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità e la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione.

Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

Articolo di Luca Ricolfi per il sito Hume.it

EDUCARE SENZA SANZIONI: COMPRENSIONE PER CHI SBAGLIA, INDIFFERENZA PER LE VITTIME

EDUCARE SENZA SANZIONI: COMPRENSIONE PER CHI SBAGLIA, INDIFFERENZA PER LE VITTIME

Chiunque abbia bambini che vanno alle scuole elementari sa perfettamente che, ormai da diversi decenni, non solo è praticamente impossibile bocciare un bambino, ma è anche rarissimo osservare sanzioni classiche, come l’ammonizione, la nota sul registro, la sospensione. Al loro posto è invece dato osservare una serie di comportamenti sostanzialmente omissivi o elusivi: far finta di niente, limitarsi a redarguire più o meno blandamente, cercare di spiegare perché un comportamento è sbagliato e non dovrebbe essere ripetuto. I risultati sono scarsissimi, per non dire negativi, visto che il bullismo, sia quello tradizionale sia quello via internet, sono in aumento e coinvolgono spesso bambini, più sovente bande di bambini, che frequentano le ultime classi delle scuole elementari.

Ora non più. Ora si cambia. Ora quel che un maestro o una maestra potevano fare, ma nel 99.9% dei casi non facevano, ossia infliggere qualche piccola sanzione (ad esempio la nota sul registro, con convocazione della famiglia), sarà semplicemente vietato. Così ha deciso ieri la Camera, approvando un emendamento (a un disegno di legge sull’educazione civica nelle scuole elementari) che di fatto toglie a presidi e insegnanti non solo la possibilità di comminare le pene più severe (come l’espulsione dalla scuola), ma persino l’uso di strumenti sanzionatori davvero minimali, come l’ammonizione o la nota sul registro. Al loro posto si propone di estendere alla scuola elementare il farraginosissimo istituto del “Patto di corresponsabilità educativa”, che rafforza e incentiva uno dei più dannosi fenomeni culturali del nostro tempo, ovvero l’ingerenza dei genitori nel funzionamento della scuola, oltre a promuovere una sorta di Far West dei regolamenti, per cui ogni scuola si costruisce il suo patto, con tanti saluti a una delle idee più semplici della vita sociale, ossia che sia più efficace avere poche norme chiare e valide per tutti, piuttosto che lasciare a ogni comunità di darsi regole proprie (chi non avesse bambini a scuola, o non avesse idea di quanto avanti siano andate le cose rispetto a 20 o 30 anni fa, può leggere la pacata quanto agghiacciante  testimonianza dello scrittore Matteo Bussola: Sono puri i loro sogni, Einaudi Stile Libero 2017).

La vicenda è politicamente interessante. Perché, a quanto si apprende, la soppressione del regio decreto del 1928 che prevedeva la possibilità di irrogare sanzioni agli alunni delle scuole elementari, è stata voluta da tutte le forze politiche. Una chiara testimonianza di quanto certe idee, che eravamo abituati ad attribuire alla mentalità progressista, siano ormai penetrate nello spirito pubblico, coinvolgendo anche quanti un tempo le combattevano.

Ma quali idee?

Fondamentalmente tre convinzioni. La prima è che, nel processo educativo, le sanzioni non debbano e non possano svolgere alcun ruolo. Chi sbaglia deve essere convinto a cambiare comportamento con la sola forza della persuasione. L’uso di punizioni, anche di lieve entità, non solo sarebbe controproducente, ma sarebbe la testimonianza del fallimento del processo educativo.

La seconda è che, a dispetto della loro conclamata incapacità (o non volontà) di educare i figli, l’ultima parola spetti ai genitori, unici giudici dei loro pargoli, unici arbitri e custodi del destino delle loro creature. Di qui la tendenza a porsi verso ogni autorità, ma prima di tutto verso l’autorità scolastica, come sindacalisti dei propri figli.

Ma la più pericolosa è la terza convinzione, che forse più che una convinzione vera e propria è una sorta di strabismo, di partito preso, o di riflesso pavloviano. Quando qualcuno viola le regole, il che quasi sempre comporta la sofferenza di qualcun altro (si pensi alla diffusione del bullismo, già alle elementari), stranamente la pietas, la compassione, quasi automaticamente si indirizzano verso i prepotenti, che andrebbero capiti, perdonati e rieducati, e ignorano le ragioni delle vittime. Curiosamente, chi fa proprio l’imperativo del perdono, non sente altrettanto forte il dovere di impedire che altre violenze e sopraffazioni si scatenino contro nuove vittime.

Eppure è proprio questo il nodo della questione. C’è un’incredibile ingenuità pedagogica e sociologica nella credenza che, per la prevenzione di fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo nelle scuole, possano bastare corsi, lezioni, momenti di sensibilizzazione, ammonimenti, prediche, e che ogni punizione sia inutile o addirittura controproducente. Come se la consapevolezza di non rischiare alcuna vera sanzione non fosse un potente incentivo a perseverare nei comportamenti più aggressivi, violenti e anti-sociali. Come se, soprattutto, la rinuncia delle istituzioni a sanzionare i comportamenti più scorretti, più che una forma di umana comprensione per chi sbaglia, non fosse invece quello che è: una forma di disumana indifferenza verso le vittime.


Articolo dii Luca RicolfiSocietà Il Messaggero

IN NOME DEL POPOLO SOVRANO?

IN NOME DEL POPOLO SOVRANO?

RITORNO ALLA LIRA IN NOME DEL POPOLO SOVRANO?- LUCA RICOLFI: QUESTO GOVERNO DICE CHE NON VUOLE USCIRE DALLA U.E. MA FA DI TUTTO PER RIUSCIRCI

 

Luca Ricolfi, sociologo presso la Università di Torino, editorialista e scrittore, è fondatore con Piero Ostellino della Fondazione David Hume

C’è una narrazione che i potenti di oggi cercano di imporre al Paese, e che per ora ha avuto un discreto successo. Più o meno suona così: noi ci siamo presentati davanti all’elettorato promettendo determinate cose, l’elettorato ci ha dato la maggioranza, quindi abbiamo non solo il diritto ma il dovere di fare quel che abbiamo promesso. Non solo: chiunque ci critici, così facendo nega al popolo il sacrosanto diritto di esercitare la sua volontà, liberamente espressa attraverso il voto.

Molto si potrebbe dire sull’idea di democrazia (e di opinione pubblica) implicita in questo ragionamento. Ad esempio che chi ragiona così disprezza la Costituzione, che come ha ricordato il presidente della Repubblica prevede esplicitamente meccanismi di delimitazione e distribuzione del potere, volti ad evitare l’instaurarsi di una “dittatura della maggioranza”.

Ma non è su questo che vorrei attirare l’attenzione. Quel che mi pare interessante domandarci non è se gli attuali governanti si muovano con il dovuto senso dello Stato e il necessario rispetto delle istituzioni, perché chiunque non sia accecato dalle proprie credenze politiche sa perfettamente che la risposta è: NO. Quel che a me sembra degno di discussione è semmai se sia vera, oppure no, la pretesa dei nuovi padroni del potere statale di rappresentare le istanze del popolo che li ha eletti. E’ vero o non è vero quel che sentiamo ripetere fino alla noia, ovvero che la “manovra del popolo” realizza finalmente le promesse?

Per quanto riguarda la promessa principale del Movimento Cinque Stelle, ossia il reddito minimo (impropriamente chiamato “di cittadinanza”), la risposta è: sì, forse fin troppo (10 miliardi). Se partirà senza aver riorganizzato i centri per l’impiego, e non terrà conto del livello dei prezzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza di soldi ne distribuirà addirittura più di quelli che servono, almeno in certe aree (quelle in cui il costo della vita è molto sotto la media nazionale). Quindi Di Maio ha tutte le ragioni di essere soddisfatto. Ma per quanto riguarda la promessa principale di Salvini, ovvero la flat tax?

Qui è il disastro. La flat tax doveva costare 50 miliardi, se non di più: la “manovra del popolo”, invece, non introduce alcuna flat tax, e di miliardi non ne stanzia neppure uno (l’aliquota del 15% per le piccole partite Iva produrrà sgravi per 600 milioni, cioè per 0.6 miliardi). Non vorrei essere crudele, ma la realtà è questa: Di Maio porta a casa (al suo popolo, concentrato al Sud) più o meno il 70% del suo impegno più importante, Salvini porta a casa (al suo popolo, concentrato al Nord) circa l’1% del suo impegno più importante. Dopo aver ripetuto in tutte le salse, durante la campagna elettorale, che non ci sarebbero stati problemi di copertura, scopre improvvisamente che quei problemi sono enormi (perché la pace fiscale non manterrà le promesse) e quindi le tasse non si possono ridurre. E non è tutto: se ci prendiamo la briga di ricostruire tutte le voci di bilancio della manovra scopriamo che, rispetto al 2018, gli italiani dovrebbero pagare 19 miliardi di euro di tasse e contributi in più, di cui 8.1 previsti dalla manovra stessa, in quanto necessari per finanziare le nuove spese (reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero).

Quindi, tanto per cominciare, diciamo una cosa: non è vero che c’è un governo che ha ricevuto un mandato elettorale dal popolo, e che sta mantenendo le promesse. Semmai esistono due forze politiche popolari, una molto forte al Sud, l’altra al Nord, di cui la prima sta mantenendo la sua promessa economica principale (reddito di cittadinanza), mentre l’altra ha preferito mettere in stand by la sua (flat tax), forse pensando che – elettoralmente – potesse bastare intestarsi i respingimenti dei barconi e l’affondamento della Fornero.

C’è un altro motivo, ben più importante, per cui l’idea che questo sia il governo del popolo, che agisce in nome e nell’interesse del popolo stesso, mi lascia alquanto perplesso. Non mi riferisco qui al fatto che, secondo molti osservatori, saranno i ceti popolari e i giovani a pagare le conseguenze più nefaste della manovra del popolo. Questo è molto verosimile, ma lo dirà solo il tempo. Il punto che mi lascia perplesso è che questo governo non sta facendo nulla per ridurre il rischio di una crisi finanziaria, il cui esito potrebbe essere la nostra uscita dall’euro e il ritorno alla lira. E dicendo “non sta facendo nulla” uso un eufemismo, perché la realtà è che sta facendo di tutto per aumentare la tensione, quasi che cercasse l’incidente.

Ebbene, io penso che sia giunto il tempo di dire in modo netto e chiaro almeno tre cose. Primo, una larghissima e crescente maggioranza degli italiani (7 a 3, secondo un sondaggio Ipsos di pochi giorni fa), certamente molto più ampia di quella che ha votato Lega e Cinque Stelle, non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro: da questo cruciale punto di vista l’attuale governo è profondamente anti-popolare. Secondo, l’eventualità di una crisi finanziaria drammatica, che sfoci in un ritorno alla lira non è remota come pare ai più: una stima recente, basata sul prezzo dei Cds, assegna 24 probabilità su 100 all’eventualità di una “Italexit”. Terzo, se all’incidente si arrivasse, tutto si potrebbe dire tranne una cosa: che il nostro governo abbia fatto tutto il possibile per evitarlo.

E’ questo che è poco accettabile: continuare a dire che si vuole restare nell’euro, ma comportarsi come se si desiderasse arrivare all’incidente che ci costringerebbe ad uscirne.

Sarebbe il colmo: infliggere alla maggioranza degli italiani quel che non vogliono (il ritorno alla lira) e arrivarci in nome del popolo sovrano.

Artico di Luca Ricolfi per la fondazionehume.it 

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