MUSSOLINEIDE

MUSSOLINEIDE

MUSSOLINEIDE: LA FOLLIA TETRA DI UN GAGLIOFFO DALLE GAMBE A RONCOLA, AUTOEROTOMANE E LUETICO, CHE COME UN GRADASSO SI SPERTICA DAL BALCONE SU PIAZZA VENEZIA PER INGANNARE GLI ITALIANI- RITORNA EROS E PRIAPO IN FORMA INTEGRALE, NELLA LINGUA ARTIFICIALE DI CARLO EMILIO GADDA 

 

Pubblicato nel lontano 1967 da Garzanti, molto emendato e mutilo, esce ora per i tipi di Adelphi il saggio Eros e Priapo, di Carlo Emilio Gadda. Il testo, pubblicato in parte, la prima volta, con il titolo Il libro delle furie, nel 1955-1956, in quattro numeri della rivista “Officina”, esce nella sua forma integrale, grazie all’autografo ritrovato nell’archivio Liberati di Villafranca Veronese.

La saggista Marcella Rizzo

Ne leggo una bella recensione di Marcella Rizzo, contenuta nel testo collettaneo Scuola e ricerca anno III-2017, pubblicato a cura del liceo scientifico G. Banzi Bazoli di Lecce, Edizioni Grifo.

Come sempre in Gadda ci troviamo davanti un testo che è difficile incasellare in un genere letterario. Nel risvolto di copertina lo stesso editore pone sotto interrogativo la definizione di “saggio” sulla origine e sulla affermazione del Fascismo. La definizione di libello antimussoliniano ne descrive l’oggetto, ma lo riduce entro motivazioni storicistiche che non sembrano essere la vera origine del libro. Ne è consapevole Marcella Rizzo, che, infatti, nel tentativo di definirne le diverse e intriganti sfaccettature, dà diverse definizioni di Eros e Priapo: un atto di accusa violento e oltraggioso, una controstoria, un pastiche e metaforico calderone, storia del Logos e non dell’Eros, atto di denuncia e di auto denuncia, un’autobiografia nazionale, un trattato sul caratteri “narcissico” degli italiani…

Carlo Emilio Gadda in una curiosa foto “segnaletica”

Giustamente Marcella Rizzo ricorre a riferimenti autobiografici, che per quanto dissimulati, possono aiutare l’interprete nel misurarsi con un testo scritto “con una lingua artificiale, complessa, straniante, inventiva, sperimentale, nuova e arcaica nello stesso tempo, una lingua mimetica della realtà”. Gadda, scrive Marcella Rizzo, aderisce al Fascismo nel 1934, dopo il delitto Matteotti e le leggi “fascistissime” del 1925. In realtà la data è controversa. Giano Accame, nel suo La morte dei fascisti, Mursia-2010, citando Sergio Luzzato, sposta l’iscrizione fin dal 1921. Solo nel 1944 comincia il ripensamento dello scrittore rispetto al regime, dopo il devastamento di Roma del luglio del 1943 e con l’Intera Italia sotto le bombe. Secondo alcuni proprio nel 1944 comincia la stesura di Eros e Priapo. Ma perché Gadda si distacca dal Fascismo? E poi, perché così tardivamente?

Nel libro si trovano risposte scontate, prevedibili; quelle vere si possono solo intuire o dedurre. Più che su un piano storico (troppo freschi sono gli avvenimenti quando Gadda ne scrive) il suo è un distacco emotivo, psicologico, un fluviale esame di coscienza, dissimulato nel magma linguistico e stilistico, annegato nel livore delle invettive, che poco servono a illuminare quegli anni, ma solo denotano il nervo ancora scoperto di una partita, quella fra Fascismo e Gadda, che rimane aperta.

Il rapporto fra lo scrittore e il Fascismo, viene così spiegato da Marcella Rizzo, che fa suo il seguente giudizio di Peter Hainsworth: “ Il fascismo di Gadda era certo anticonformista, ma non era un elemento incidentale o accidentale della sua esperienza e della sua opera durante il Ventennio. Sebbene possa sembrare oggi ingenuo o illuso, egli era convinto di dare al regime un appoggio misurato e meditato. Il fascismo rispondeva al suo bisogno di ordine e di dignità in un mondo che, secondo la sua traumatica esperienza durante e dopo la prima guerra mondiale, era privo di entrambi”.

Appoggio “misurato e meditato”? Difficile e arduo proponimento, anche per il più idealista e ingenuo dei letterati, se riferito a un regime illiberale e guerrafondaio come il Fascismo.

Ma cos’ha spinto in definitiva Gadda a scrivere il libello?  Spiega Marcella Rizzo, “Ciò che sta alla base dell’opera è dare una spiegazione alla nascita e alla legittimazione del fascismo da parte del popolo italiano, spiegazione che si rifà alle teorie psicanalitiche e darwiniane”, che Gadda conosceva.

Più verosimile appare a me invece la interpretazione di Luzzato,che addebita il tardo livore antifascista e antimussoliniano del Gadda-post Gran Consiglio che depone Mussolini (25 luglio 1943), all’atteggiamento tipico “dell’innamorato deluso”, al capovolgimento amoroso del vissuto e dei fatti di esperienza.

Insomma, l’interpretazione psicoanalitica che Gadda tenta con Eros e Priapo, ripercorrendo il ventennio fascista e la capacità di presa del regime sulle masse, può essere realmente dirimente solo se trasformata in un’autoanalisi introspettiva a sfondo espiatorio, a sua volta proiettata in ambito sociale dove trova un senso quell’ “intreccio di pulsioni elementari che, meglio di ogni interpretazione storica, serve a spiegare la follia collettiva degli italiani durante il Ventennio”, come scrive Marcella Rizzo.

.Carlo Emilio col fratello Enrico, morto nel 1918

Che Gadda fosse stato sinceramente attratto dalla figura di Mussolini è naturale, se solo pensiamo al fatto che egli era stato un convinto interventista e volontario nella 1° guerra mondiale. Il riscatto nazionale era anche il suo, essendo ancora bruciante in lui il ricordo della rotta di Caporetto e i lunghi mesi di prigionia a Celle in Germania. Prova ne sia che il libro che racconta questa esperienza, Giornale di guerra e di prigionia, a lungo occultato, esce tardivo solo nel 1955. Il secondo motivo è tutto psicologico, e nasce dallo stridente contrasto fra le due personalità. Come scrive Marcella Rizzo “ la fragile virilità di Gadda si confronta con la prepotente virilità di Mussolini, l’uno e l’altro soffrono della stessa sindrome “narcissica”. Gadda è qui come Mussolini esibizionista, innamorato di se stesso, voglioso di stupire e di essere ammirato.”

La satira, come in tutti i capovolgimenti amorosi, è spietata e trasuda da ogni pagina del libro. Si getta veleno sul traditore, naturalmente senza mai nominarlo. Scrive Marcella Rizzo: “Protagonista indiscusso è Mussolini, mai citato direttamente nel corso dell’opera se non attraverso una vasta gamma di appellativi e nomignoli dispregiativi: appestato, batrace, bombetta, maramaldo, fava, farabutto, impestato, Gran Somaro, Gran Pernacchia, merda, Fottuto di Predappio, Provolone, Finto Cesare”.

Descrivendo il carattere degli italiani, sottomessi al delirio narcisistico del Duce, Gadda – osserva giustamente Marcella Rizzo- scrive un atto tardivo di accusa, che nello stesso tempo è un’autoaccusa, cioè la denuncia della deriva cui la retorica, la manipolazione, l’idolatria perversa possono ridurre un popolo e una nazione.

A tale proposito precisa Marcella Rizzo: “Spinto dal bisogno di comprendere il Fascismo al di là delle interpretazioni storiche, sociologiche e politiche, che solo in parte riescono a cogliere l’interna dinamica distruttiva ed autodistruttiva, Gadda punta la sua attenzione sulle forme della comunicazione pubblica in cui il regime si espresse (a partire dalle “adunate oceaniche” e dal dialogo diretto tra il leader e il suo popolo) nonché sulla teatralità dei gesti del Duce che comunicava con la folla non tanto e non solo con frasi fatte, formule vuote, tirate retoriche, ma con una gestualità e una fisicità allusive, dalla frequente protrusione delle labbra, agli slanci con cui si ergeva in avanti sul balcone, al dondolamento dei fianchi ottenuto col levarsi sulla punta dei piedi che suscitavano gli ululati ritmicamente scanditi della moltitudine stipata in piazza, quasi in un delirio amoroso”

Di colassù i berci, i grugniti, lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza priapesca: dopo la esibizione del dittatorio mento e del ventre, dopo lo sporgimento di quel suo prolassato e in cinturato ventrone, dopo il dondolamento, in sui tacchi, e ginocchi, di quel culone suo goffo e inappetibile a chicchessia, ecco ecco ecco eja eja eja”

Il regista Ettore Scola

Nessun dubbio, quindi, specie su una personalità come quella di Gadda, timida, introversa e atrabiliare, persa nelle sue nevrosi, che la delusione e il tradimento degli ideali giovanili siano presenti come fonte di ispirazione del libello, non esclusa la nota misoginia. Qui si apre un capitolo interessante e scivoloso per Gadda. L’avversione per le donne porta Gadda a individuare nel sesso debole la parte che più aveva ceduto alle lusinghe del priapesco Duce, assecondando l’idea -scrive Marcella Rizzo contestualizzando- di coloro che asserivano che “il fascismo andava spiegato, tra l’altro, con la passione delle donne per il corpo del Duce”. Insomma siamo alla misoginia elevata a ragione storica. Ben diversamente, nella realtà quotidiana, legge il ruolo delle donne Ettore Scola, tratteggiando magistralmente la figura di Antonietta, madre di sei figli nel suo film Una giornata particolare. 

Ma scrive ancora Marcella Rizzo: “ Se i maschi italiani… vedevano nel Duce un alter ego, le donne avevano scoperto una passione inestinguibile; tutte, indistintamente, avevano vissuto nella speranza di sperimentare la leggendaria virilità di Mussolini.”

La locandina di Una giornata particolare

“Pronte e spedite in gridi, venuti di vulva, a sospingere ‘l sangue loro fraterno o filiale e la mortuaria medaglia o quel muto e disarcionato cadavero di cane loro debbendo porgerlo al Kuce, e alla gloria e a le balconali vartardige del Predappiofava, a i’ Kuce grasso e Culone in Cavallo; e appiattato Scacarcione a dugento miglia da battaglia co’ sua cocchi, e co’ l’ulcera pestiferata sua”

L’incipit del commento di Marcella Rizzo è il seguente: “Ci sono libri che hanno un effetto deflagrante per temi, ricerca e innovazione linguistica. Eros e Priapo è uno di questi”.

Effetto che forse il libro avrebbe avuto, se non fosse stato pubblicato così lontano da quegli anni terribili. Già il giorno dopo della caduta del Duce, i 40 milioni di fascisti italiani avevano dimenticato di esserlo stati. Rimosso il peccato nessuno ama che esso gli venga riproposto, neppure sotto forma di satira. Ai nostri giorni, morti i protagonisti sopravvissuti, il Fascismo è sempre più un fatto di folclore, annegato fra gadget e marcette d’Oltremare. Fra qualche anno, il Ventennio finirà dimenticato in qualche polveroso libro di storia, alle cui pagine l’insegnante arriverà frettolosamene. Nel XXI secolo di Mussolini rimarrà solo il busto, magari come grottesco portalampada.

Il saggio integrale di Marcella Rizzo è disponibile all’indirizzo www.liceobanzi.gov.it

Le parti in corsivo sono citazioni di brani tratti dal libro di Gadda.

Segue un video con una celebre scena del film di Scola

https://www.youtube.com/watch?v=X1sjuGWH-sI&t=151s

 

 

…. si ha voglia di raccontare

…. si ha voglia di raccontare

 

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Marcello Mastroianni e Sophia Loren in Una giornata particolare, scritto e diretto da Ettore Scola nel 1977

 

Credo proprio che Ettore Scola, scrivendo la sceneggiatura e dirigendo  Una giornata particolare avesse voglia di raccontare. Questo suo film è fra i più misurati e sinceri del ‘900.  Scola getta uno sguardo insieme acuto e leggero  su due solitudini che paiono per un istante congiungersi per poi subito perdersi nel grigiore di un’epoca dove intimità e debolezze sono banditi e subissati dai falsi e stentorei miti del regime. Manuela Maddamma scrive il bel pezzo che vi propongo, anche se alcuni suoi giudizi mi lasciano perplesso. Ad esempio, non ho letto nel personaggio di Antonietta l’ipocrisia che lei le attribuisce. Come smentire il fatto che nell’Italia di allora l’adesione al Fascismo, per quanto manipolato, era per molti sincero? Perché nasconderlo dopo tanti anni? Scola non sembra avere queste idiosincrasie (lui comunista!). Così come non vedo sul tema omosessualità quella neutralità che Maddamma vorrebbe  attribuire alla cultura contemporanea. E poi dovremmo metterci d’accordo cosa significhi “neutralità” e cosa “contemporaneità”. Ancora: definire bordone la quasi ininterrotta cronaca della visita di Hitler a Roma in quel 1938 che penetra da ogni foro, sale di tono, si fa sempre più invadente e  pervade di sé stanze, scale, androni è assai riduttivo. E’ la realtà stessa che incombe e si intrufola, sotto forma di grida stentoree e fanfare militaresche, con maggiore forza man mano che i due, avvicinati dalle loro solitudini, sembrano volere vivere come sospesi in un loro “particolare” e inammissibile mondo. Mi è tornato alla mente, per similitudine, il film di Fellini Prova d’orchestra, girato solo l’anno dopo, carico di presagi, e in particolare la scena in cui, preceduto da cupi boati e tremori, una enorme globo sfonda la parete del teatro e irrompe seminando panico. Ma questi sono aspetti marginali, per il resto il pur lungo articolo merita la lettura, così come il film di essere rivisto.

 

Le donne erano tutte pallide. Gli oggetti erano poveri. Era un’epoca grigia e triste. Questo il ventennio fascista secondo Ettore Scola, che, nato nel 1931, aveva quasi sette anni quando si svolse la storica festa nazionale del 6 maggio 1938, visita della “sorella Germania” all’alleato, con lo stato maggiore nazista accolto a Roma dal re e dal duce. E’ la data in cui si svolge “Una giornata particolare”, del 1977, il film più intimo e nostalgico di Scola, quello che più rispecchia il suo temperamento schivo. Il tempo ricordato diventa soluzione coloristica: “Già in partenza tutto quello che riguardava l’ambientazione e tutti i capi di vestiario erano stati decolorati. Poi girammo con un filtro speciale, e quindi decolorammo ancora in stampa. E questo non fu soltanto per fare assomigliare maggiormente la fotografia ai pezzi di documentario con cui avevo aperto il film, ma perché i ricordi miei, della casa in cui abitavo a piazza Vittorio a quell’epoca, sono in quella tonalità. Il colore della Roma di quei tempi nel mio ricordo è un non colore neanche tanto grigio ma un po’ chiuso, un po’ spesso, come quello di una nebbia dentro le stanze, che poi al film è servito come lieve simbolo di chiusura, di prigione; anche lì di esclusione”.

Scola

Ettore Scola

La vicenda è rievocata dagli occhi raramente sorridenti, più spesso grigi e tristi anch’essi, di Antonietta e Gabriele (Sophia Loren e Marcello Mastroianni). Lei madre di sei figli, moglie di un piccolo uomo, modesto impiegato fascista, “capufficio del servizio uscieri”, che la “comanda di giorno e di notte”, e col quale spera di avere il settimo figlio per ottenere il premio riservato alle famiglie numerose. Lui è un giornalista omosessuale di mezz’età, cacciato dall’Eiar, l’ente radiofonico di stato (che poi diverrà la Rai), per le sue “tendenze sovversive e depravate”, anche se la sua prima versione è che la sua voce mancava del timbro di “romana virilità”. Sono i soli del caseggiato popolare di viale XXI Aprile (ma gli interni furono girati negli studi De Paolis, e la famosa scena in terrazza, poiché quelle dei palazzi Federici erano abitate, venne girata sul tetto dell’ospedale odontoiatrico Eastman) a essere rimasti a casa: lei perché deve badare alla casa e preparare la cena al ritorno della famiglia, lui perché deve fare i bagagli e attendere l’arrivo degli uomini che lo porteranno al confino a Carbonia. Sono persone profondamente diverse, ma entrambe infelici per il dissidio tra la loro natura e i ruoli imposti dal regime. Antonietta ha ipocritamente abbracciato la retorica fascista della donna angelo del focolare, cui se non è preclusa l’attività intellettuale, tuttavia le è impossibile raggiungere la “genialità”, propria del maschio. Gabriele anche ha tentato l’integrazione, inventandosi una fidanzata, prendendo la tessera del partito fascista, ma la sua simulazione è fallita più per debolezza che per temerità di sfidare il potere. La sua è una figura di omosessuale insolito nel cinema. Non è né fortemente caratterizzato, né un uomo qualunque, come se ne tratteggiano di questi tempi, per timore di scadere nella macchietta. Al contrario, Gabriele ha alcuni atteggiamenti che, in quanto omosessuale, oggi sarebbero considerati macchiettistici: la scena in cui insegna ad Antonietta a ballare la rumba, i movimenti della mano, a un dito della quale sfoggia un vistoso anello con pietra preziosa, o quando si mette a scorrazzare sul monopattino di legno di uno dei figli di lei. Al confronto con l’ideale contemporaneo dell’omosessualità come caratteristica neutra, impersonale, che non deve portare con sé nessuna determinata qualità sulla personalità e sul comportamento non sessuale, Gabriele risulta infinitamente più umano e, pur nella persecuzione sociale e civile, è del tutto conciliato con la sua natura. In una delle scene più drammatiche, quando Antonietta lo rimprovera di “non averglielo detto prima”, che lui “era così”, Gabriele perde la calma per la prima volta, gridando per la tromba della scale che lui non è come i veri maschi che prendono le donne con desiderio animalesco. Ma la sua rivendicazione gridata – perché anche la pettegola portinaia senta bene – di essere “frocio” non ha il valore di un “coming-out” (in effetti, nessuno può sentirlo, è un grido di sfogo per sé, non in pubblico) ma una protesta contro chi, come Antonietta, non ha il coraggio di accettare la verità e vive in un mondo di motti, di albi fotografici che ritraggono le eroiche gesta del duce. La sua ribellione non può e non vuole assumere significato sociale, eco universale, ma come ogni momento di questo film è vissuta intimamente, in un rapporto personale, prima col suo amante, Marco, al telefono, poi con Antonietta. “Fin da ragazzo, isolato o solo, non fa differenza, eppure oggi è una giornata particolare, è come un sogno, si ha voglia di raccontare”. Il loro franco aprirsi, il rivelarsi l’uno all’altra, avviene sul continuo bordone della radiocronaca originale dell’adunata del ’38 dalla radio della portinaia, simbolo insieme dell’evento storico e del lavaggio del cervello della propaganda sulle menti più deboli.

 

L'autrice dell'articolo Manuela Maddamma

L’autrice dell’articolo Manuela Maddamma

Di sera, alla fine di quella giornata particolare, col ritorno degli inquilini dalla parata, per Gabriele e Antonietta è inevitabile tornare alle vite decise per loro dallo stato, è la loro interiorità a essersi modificata e arricchita, non le condizioni materiali.

Questo cambiamento morale, del resto, è più arduo e importante di qualunque altro sconvolgimento. Antonietta per quasi metà del film si mostra incantata dal carisma del duce, che ha anche avuto occasione di vedere a Villa Borghese mentre marciava a cavallo – lui le lanciò un’occhiata e lei avvampò, e svenne. La scena ricorda quella di Hegel che vede sfilare a cavallo nel 1806 Napoleone, “l’anima del mondo”, a Jena. Salvo che Hegel si entusiasmò altrettanto ma non svenne, anche perché il deliquio, come poi rivela Antonietta a Gabriele, era dovuto a una ennesima gravidanza. Ma l’incontro non con un duce, o un capofamiglia tirannico e violento, ma con un uomo affascinante, che nel grigiore dell’abitato osa indossare un gilet bordeaux, che legge I tre moschettieri, la spinge a riscoprire una femminilità tale da farle dire “mi importa solo di me stessa”, cioè di esaudire il desiderio, incurante della omosessualità di lui. Femminilità che si svela a poco a poco: prima si nasconde le calze smagliate, poi, di nascosto in bagno, tenta di mettersi un po’ di rossetto ma sarebbe troppo vistoso, si pizzica le guance, infine si arricciola un tirabaci, che ovviamente Gabriele noterà subito al suo rientrare in salone, e lei: “Ah sì, se ne scende sempre”.

Per una volta, sia pure fugace e irripetibile, Antonietta è autonoma, padrona di se stessa e della sua immagine: non la storia del tempo, con i suoi slogan, ma lei stessa scrive le battute che pronuncia a Gabriele. Lui, che sul finale si avvia mesto, scortato, al suo confino, porta con sé la speranza che gli uomini e le donne non si lasciano determinare da un regime, che hanno un’inesauribile scintilla di libero arbitrio che va insieme con l’amore, più forte di qualunque retorica o icona del potere.

I loro incontri, quattro come gli atti di un dramma, cominciano con una circostanza in parte casuale, in parte voluta. Il merlo indiano, che lei chiama “pappagalletto” per la sua abilità di riprodurre il parlato, sfugge dall’appartamento di Antonietta e svolazza sul davanzale accosto a quello di Gabriele, che abita dirimpetto. Gabriele nel frattempo stava scrivendo delle lettere, il cui contenuto non viene mai rivelato, potrebbero essere d’addio, o di denuncia, e subito dopo viene inquadrata la pistola con la quale ha intenzione di suicidarsi. Ma poi ha un ripensamento e con un gesto rabbioso spazza la scrivania: “Del resto, la vita vale sempre la pena di essere vissuta, non si dice sempre così?”, dirà più tardi al suo amante Marco, al telefono, rassegnato a vivere con lo stigma dell’omosessualità. In quel momento di sconforto, suona il campanello di casa. Gabriele per un istante pensa che siano venuti a prenderlo prima del tempo. Invece è Antonietta, ancora vestita come quando seguiva le pietanze sul fuoco nella sua modesta ma ordinata cucina, con ciabatte bucate e calze smagliate. Pallida, senza un filo di trucco, sembra coperta da una leggera polvere, che però non può nascondere l’emozione di quell’incontro dai suoi grandi occhi verdi. E’ imbarazzata, ma chiede il favore di poter entrare nell’appartamento per recuperare Rosmunda, il “pappagalletto”. Ancora frastornato dai suoi pensieri di morte, Gabriele la fa entrare, e, mettendo del mangime su una scopa di saggina, riesce a farle recuperare l’uccellino fuori dalla finestra del suo studio. Antonietta si profonde di nuovo in scuse ma Gabriele le dice che non è il caso, anzi, che il suo intervento, proprio in quella giornata particolare, è stato quanto mai provvidenziale. E quando lei gli chiede cosa siano quei passi tracciati a gesso bianco sul pavimento, lui mette sul grammofono il disco della rumba. Per tutta risposta, la portinaia alza il volume della parata su via dell’Impero. “Questo è meno ballabile”, commenta Gabriele.

D’ora in avanti il loro incontro oscilla tra il gioco, la cortesia cerimoniosa, la confessione, lo sfogo, il rimprovero: tutte modalità in conflitto con la retorica tonitruante dei costumi fascisti, e della radiocronaca. Ogni volta che si profila una rottura, è per l’intervento malizioso della portinaia, meschina portavoce del conformismo del palazzo. Antonietta sta per cedere, per mandare via una volta per tutte Gabriele, che replica: “Siamo sempre noi a adattarci alla volontà degli altri”. Colpita nel vivo, lei lo trattiene, e insieme compiono quel gesto esemplare del loro peculiare modo di ribellarsi: prendono un caffè, incuranti dei pettegolezzi. Vivono momenti che somigliano a una vera intimità coniugale: lui le aggiusta il paralume, anch’esso “che se ne scende sempre”, dividono una frittata (l’uovo era il cibo preferito di Scola, e anche di Sonego, lo sceneggiatore di Sordi).

L’essenza di quella giornata è però condensata non in quelle scene d’interni, ma sulla terrazza, tra le lenzuola svolazzanti sotto un cielo livido, quando Antonietta sale per ritirare i panni. E’ lì che lei finalmente dichiarerà se stessa, “è da stamattina che ti guardo!”, prenderà le mani di Gabriele e le coprirà di baci, supplicandolo: “Vattene! Vattene!”, e, stanco di dissimulazioni, di menzogne, Gabriele le confesserà di essere omosessuale. Quando infine si ameranno, in quel modo irregolare, imprevedibile, inconcepibile per l’Italia dell’epoca, sconfessando il determinismo dei ruoli e delle identità al cuore dell’antropologia fascista – e di ogni antropologia rigidamente classificatoria, come ve ne sono ancora oggi – si saranno spinti tanto oltre da accettare, poi, che il sogno di un amore clandestino, accennato da Antonietta, che vorrebbe rivedere Gabriele tutte le volte che il marito si assenta per i suoi impegni col partito, svanisca quando lo vede portato via. Lei, aveva anche provato a leggere i suoi Tre moschettieri, ma perché è un filo che la riconduce a lui, della lettura non le importa niente, non ha nessun ruolo la cultura nella sua vita, per lei la cultura è quanto recepisce come manipolazione ideologica. Dopo l’uscita di scena di Gabriele, anche il libro tornerà a essere riposto, in quella casa sguarnita di libri, nella credenza tra piatti e bicchieri. Antonietta, nella tenebra sempre più fitta, si avvia in camera da letto, si spoglia, si infila nel letto coniugale e nell’ultima sequenza spegne il lume.

Si è detto di “Una giornata particolare” che è un film politico, civile, che anticipa il tema della diversità sessuale e delle sue persecuzioni, ma è più un film sulla normalità, che sulla diversità. La diversità, in realtà, è tutto il grossolano e assordante apparato fascista, il suo eccesso, le sue iperboli. La grandezza del film sta nel ritrarre due individualità che non devono essere peculiari, eccezionali per stagliarsi, per imporsi come personaggi palpitanti. La loro felicità non è mai inseguita in fini generali, in progetti collettivi, ma solo in comportamenti quotidiani, in possibilità di convivenza, di coesistenza che non si fondano sulla politica, ma sul cuore. Verrebbe la tentazione di dire che il film è apolitico, cioè è incentrato su quei rapporti elementari, su quel primario bisogno di riconoscersi nell’altro, di trovare in lui un simile, che stanno ancor prima della politica. Antonietta è estranea in casa sua, quella di suo marito e dei suoi figli biologici, per i quali ha gesti affettuosi, ma meccanici. “Una giornata particolare” è un film sulla naturalezza dei gesti, sui comportamenti sinceri e non indotti, sulla verità opposta all’autocensura dell’adattarsi alla volontà altrui, come dice Gabriele. E’ certamente anche un film d’amore, anche se l’amore, come sempre, per lui è diverso da quello vissuto da lei, e se fosse proseguito sicuramente sarebbe stato infelice, indipendentemente dal contesto che lo condanna. Ma è questa, forse, la “morale”: nella distanza delle loro inclinazioni, della loro cultura, e nella condanna degli altri, avrebbero dovuto essere liberi di vivere il loro amore.

di Manuela Maddamma | Il Foglio 25 Gennaio 2016

 

 

 

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