IL VAGABONDO DELLE ACQUE

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

La casa editrice la Nave di Teseo ripubblica Cronache dell’alluvione di G.A. Cibotto (1925-2017), a 70 anni della tragedia che nel novembre del 1951 sommerse il Polesine- Una nuova edizione, con testi di Gian Antonio Stella, Elisabetta e Vittorio Sgarbi. Su questo sito puoi leggere su di lui in www.ninconanco.it/toni-cibotto/

Toni per gli amici, ha 26 anni quando, il 14 ottobre 1951, lasciata Roma, accorre nel suo Polesine devastato da un’inondazione di proporzioni quasi inimmaginabili. A Roma lavora alla Rizzoli e alla Fiera letteraria di Vincenzo Cardarelli, ed è sulla Fiera che sente il bisogno di pubblicare i primi racconti (Carnet dell’alluvione), scritti di getto, di un’esperienza seminale per il prosieguo della sua vita e della carriera letteraria. A un amico confiderà di essersi sentito «costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene».

Gian Antonio Cibotto

È merito dell’amico e grande estimatore Neri Pozza se il Carnet diventa, tre anni dopo, Cronache dell’alluvione, il suo primo libro, accolto come una rivelazione da critici quali Eugenio Montale e Giovanni Comisso. Riletto ora, sembra mantenere il ritmo incalzante dell’azione improrogabile del protagonista impegnato a portare soccorso e conforto ai dispersi prigionieri al piano più alto di case sommerse, altri aggrappati a un muro o a una pianta ghermiti da una fredda corrente impetuosa, poi a procedere avanti per ore sempre chino sul remo che brucia le mani perché rari sono i mezzi a motore. Spesso la pioggia e la nebbia si accompagnano al buio che le torce non riescono a squarciare. Ai gridi e ai lamenti dei cristiani si assommano i versi delle bestie di ogni razza abbandonati nei recinti o ricoverati pure loro al piano più alto delle case nella speranza che arrivi il deflusso, ma già si vedono galleggiare le prime carcasse di animali travolti dai flutti.

Elisabetta Sgarbi

Nel rapporto con gli umani, nel tentativo di indurli alle scelte più ragionevoli, se non alla collaborazione, l’autore deve fare i conti con le diverse caratteristiche antropologiche e sociali che determinano la coscienza di classe quando si tratti di braccianti o contadini o agrari latifondisti, questi ultimi spesso con picchetti armati a difendere innanzi tutto la “roba”. Frutto anche del marasma organizzativo che ha colto tutti impreparati o inadeguati. Ci sono anche pause talvolta, alle osterie aperte che contendono alle parrocchie il richiamo di aggregazione: qui si beve e si bestemmia e ci si scalda, alle pareti sono appesi l’immagine della Madonna o della Sacra Famiglia e la foto di Giacomo Matteotti, il deputato socialista ucciso dai sicari di Mussolini. Toni incontra anche degli amici: i colleghi del «Gazzettino», ai quali si aggrega perché meglio attrezzati; Carlo Levi, che ha già pubblicato Cristo si è fermato a Eboli ed è una celebrità; Giuseppe Marchiori, genius loci, ruolo che in futuro sarà suo.

A Levi presta i suoi stivaloni alti, provvidenziali perché anche in città l’acqua in certi punti è molto alta e, in un punto proibitivo per il “piccolo” Toni, Levi, assai più prestante, se lo issa sulle spalle «come fosse un coolie cinese». Una sera, tornando a casa, si accorge che il postribolo è ancora abitato: «forse l’arrivo della truppa ha richiamato le donne».

La forte presenza ingombrante di militari e forze dell’ordine ispira a qualcuno un forte antimilitarismo, al punto di proclamare, con delizioso, per noi, anacronismo che «se arriva a comandare l’Italia leva la divisa anche alle maschere del cinematografo». Alla cronaca in presa diretta sono intercalate riflessioni ispirate alla saggezza popolare espressa in dialetto attraverso proverbi come «l’acqua xe pezo del fogo» o «a chi nasse desfortunà, ghe piove sul culo stando sentà». Cibotto arriva a ritenere che qui, ma potremmo dire in tutto il Veneto, il pensiero nasce in dialetto e il parlato in italiano ne è la traduzione. Ma è il paesaggio che più ispira le sue pagine di lirico accento, «perché il paesaggio è uno stato d’animo» e il suo vagabondare in lungo e in largo sull’infinita distesa d’acqua gli offre il continuo variare della luce, dei colori e delle forme.

Gian Antonio Stella

Dopo le Cronache Cibotto pubblica altri libri con Vallecchi, Rizzoli, Marsilio con Cesare De Michelis, ancora Neri Pozza con Giuseppe Russo e ora viene riproposta tutta la sua opera da La nave di Teseo. Prima che il silenzio lo cogliesse negli ultimi anni della sua vita, era stato il vulcanico animatore della vita culturale della sua regione: cronista e critico letterario e teatrale al «Gazzettino», direttore del Teatro Goldoni a Venezia, promotore di premi letterari quale Il Campiello, con la collaborazione degli Industriali Veneti, in una formula che sarà poi mutuata dal Premio Comisso e dal Premio Estense, scopritore e sponsor di giovani talenti, come Elisabetta Sgarbi e Giancarlo Marinelli.

UNA RIFLESSIONE INEDITA SULLA CURA

UNA RIFLESSIONE INEDITA SULLA CURA

Gli sgorgano dal petto in ospedale. Cominciò con Nascita, 18 anni fa. La scrisse con la matita su una garza, mentre la sua unica figlia partoriva Tommaso, il primo di cinque nipoti. Il professor Gianpaolo Donzelli, pediatra, non è mai andato in cerca di titoli strani per le poesie. Si è guardato attorno: Prognosi, Fleboclisi, Morte in culla, Cremazione. Mario Luzi volle pubblicarle nella propria collana. La Harvard medical school di Boston le ha adottate come testi per gli studenti. È affezionato a Incubatrice. Mi recita i primi due versi: «Stanza di vetro senza favole / labbra avide di seni fantasmi».

Prof. Gianpaolo Donzelli

Donzelli vive nell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze dal 1975. È stato per 20 anni il primario della terapia intensiva neonatale. «Oggi non ricevo più chiamate alle 2 di notte». Dal 2015 è il presidente della Fondazione Meyer, conosciuta nel mondo intero per questo complesso che il marchese russo Giovanni Meyer, originario di Pietrogrado, volle erigere nel 1884 per onorare le ultime volontà della moglie Anna Fitzgerald, morta di leucemia nel 1883, a 32 anni. I posti letto del Meyer sono costantemente occupati da 250 bambini e la Onlus, che vede fra i consiglieri il presentatore Carlo Conti, l’imprenditore del caffè Giuseppe Lavazza e la vedova del tenore Luciano Pavarotti, Nicoletta Mantovani, deve preoccuparsi di far quadrare i conti.

Ma il medico poeta crede più nella potenza della parola che in quella del quattrino. Così ha convinto Elisabetta Sgarbi, che dirige La nave di Teseo, a varare con lui una nuova collana, La cura, e a compiere un azzardo: mandare in libreria due saggi nel giro di 15 giorni, Medicina inedita ed Esperienza della malattia e spiritualità. «Venne qui sei anni fa, in visita privata. Mi parlò della madre Rina, molto malata. M’invitò alla Milanesiana. Da allora siamo rimasti amici».

C’entra «La cura» di Franco Battiato?

«Certo. “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore”. La canzone è diventata l’esergo del primo libro, che firmo con il sociologo Pietro Spadafora. “E guarirai da tutte le malattie perché sei un essere speciale. Ed io, avrò cura di te”».

Suona di buon auspicio.

«La cura è femminile, non maschile. È la madre. L’ho imparato in Africa».

Dove?

«A Tosamaganga, 600 chilometri dalla capitale della Tanzania. Ci arrivai da obiettore di coscienza nel 1976. Due anni in un ospedale governativo che serviva un territorio ampio quanto la Toscana. Anche se non sono portato per la manualità, facevo di tutto: interventi chirurgici d’urgenza, tagli cesarei, cure ai grandi ustionati. Per assistere le donne gravide avevo solo lo stetoscopio ostetrico in legno, con cui ascoltavo il battito fetale. Le interrogavo in kiswahili: si muove il bambino? Nessuna mi rispondeva».

E come mai?

«Lo chiesi a suor Sara, africana. Replicò: “Ma tu cosa domandi, dottore? Devi dire: nachesa mtoto ndani tumbo yako? Gioca il bambino nella tua pancia?”. Che lezione. Io ero saturo di una medicina concentrata sulle molecole, invece quelle madri erano in relazione con i figli».

La collana La Cura si prefigge di recuperare nel dibattito pubblico con sguardo innovativo diversi temi legati alla crisi dei sistemi sociali, vuole parlare a tutti e non solo agli specialisti, di una medicina sobria, giusta, attenta al malato prima che alla malattia, in grado di rispondere alla domanda inedita di salute in chiave autenticamente salutogenica, perché qualità di vita e giustizia sociale sono garantiti, specialmente per le persone più fragili, solo grazie al corretto comportamento di tutti.

Quando scelse di fare il medico?

«Al liceo scientifico. Decisi che avrei speso bene la mia vita, che sarei andato in profondità nell’aiutare gli altri. Quando insegnavo all’università, spronavo i miei studenti: imparate a essere medici! C’è una bella differenza tra l’essere laureati in medicina e l’essere medici».

Il concetto è chiaro.

«Lo capii in Tanzania, dopo un intervento complicato. Non c’era lì un collega anziano al quale chiedere: ho operato bene? Conclusi da solo che non ero stato affatto bravo. Il paziente morì. L’indomani la famiglia si presentò con un cesto di frutta. Mi ringraziava per essere stato medico. Fu uno dei momenti più dolorosi della mia vita. Ci penso di continuo».

Il neonatologo e poeta Gianpaolo Donzelli, presidente della Fondazione Meyer

Perché si orientò sulla pediatria?

«Me lo sono chiesto tante volte e non ho ancora trovato una risposta. Però ero sicuro che sarei entrato in contatto con i piccoli pazienti solo se avessi ritrovato dentro di me il bambino che ero stato».

Impresa ardua. «Il più morto dei morti è il fanciullo che fui». Georges Bernanos in «I grandi cimiteri sotto la luna».

«Ci sono riuscito con i neonati gravi, rianimandoli. Cioè ridandogli l’anima».

Altre doti richieste a un pediatra?

«Accoglienza, gentilezza, sensibilità. E una grande conoscenza dell’internistica. Un prematuro non ti descrive i sintomi».

L’architetto Adolfo Baratta ha detto del Meyer: «Questo è un ospedale che non sembra un ospedale».

«È fatto in modo che il bambino continui a vivere da bambino. Abbiamo lasciato decidere ai ragazzini la tipologia delle stanze. Le hanno scelte doppie, con i letti per due ricoverati e per due mamme e i bagni separati. Negli altri ospedali abbonda il laminato, che si pulisce in fretta. Qui c’è solo legno. Gli adolescenti oncologici si svagano con il doppiaggio dei film, assistiti da professionisti in uno studio attrezzato. La vita continua».

Pensa mai ad Anna Fitzgerald Meyer?

«Vado a trovarla nel Cimitero evangelico agli Allori, lo stesso in cui è sepolta Oriana Fallaci. Riposa accanto al marito. Il Meyer vuole restaurare le loro tombe».

Alla vostra benefattrice sarebbe piaciuta la collana La cura?

«Penso di sì. Se mi affaccio alla finestra del mio tempo, vedo il primo giorno di scuola, la festa di laurea, il matrimonio. Ma il tempo della malattia segna la vita più di qualsiasi altro evento. E noi medici che facciamo? Lo sprechiamo. Non ascoltiamo. In questi giorni ho letto un’indagine svolta in Europa tra i dottori di famiglia. Spiega che quando il paziente comincia a parlare, viene fermato dopo 18 secondi. Questa è la media».

Sconfortante.

«Ai miei allievi dicevo: in reparto, vedete ma non vi vedono, ascoltate ma non vi ascoltano. Fantasmi, ecco che cosa siete per i malati. E domandavo: chi è il primario? Loro: “Quello che decide la terapia”. No, è colui che parla meno con il paziente mentre fa il giro mattutino in corsia. Ha dimenticato che la parola dà conforto, è la prima cura. Io parlavo ai neonati anche se non mi sentivano».

Un po’ come mia moglie, che sussurra alle foglie delle gardenie e dei limoni.

«Sua moglie ha capito molte cose, dovrebbe insegnare medicina. Non è buonismo, non è romanticismo: è scienza».

Che cosa glielo fa credere?

«Il fatto che la scienza ha due velocità. Una è quella, altissima, fatta di laboratori, cellule, geni, vaccini. L’altra è quella delle emozioni. Chiedevo agli universitari: qual è il farmaco che il medico dà sempre? Risposta: “Il più venduto in Italia, la Tachipirina”. Sbagliato: sé stesso. Quella è la prima medicina. E infatti a un prematuro di sette mesi, sigillato nella culla termica, bisbigliavo: ciao, piccolino, hai visto che sono venuto da te?».

Come vivono la malattia i bambini?

«Pensi al Grande Inquisitore di Dostoevskij. Difficile dare, e darsi, risposta». Manuela Belingardi, volontaria fra i malati terminali all’Istituto oncologico europeo di Milano, mi rispose così: «Urlano. Impazzivo nel sentirli piangere di notte e implorare straziati di non fargli l’iniezione. Il professor Umberto Veronesi, a forza di veder soffrire, è diventato ateo. Il dolore ti fa pensare al vuoto».

«Il pensiero si ferma. Non riesce ad andare oltre. Posso solo affidare queste creature al Signore».

Un devoto nella città che detiene il record di logge massoniche, ben 48, pare.

«Mi sopportano. Al Meyer c’è da sempre un’area detta Spazio per lo spirito. L’iscrizione all’ingresso è mia: “Lo Spirito entra negli spazi e unisce gli animi”. Accanto zampilla una sorgente d’acqua».

Crede davvero che la spiritualità curi?

«La vita e la morte sono la stessa cosa, vista da lati opposti, insegna il saggio Lao Tzu. Ma il forte dualismo fra corpo e anima in Occidente reprime la spiritualità. In Africa ho imparato che la capacità di prognosi dei genitori supera quella del medico. Erano loro ad avvertirmi che il figlio li stava lasciando. Ritmavano il kilio: “Canto della vita e della morte / in ogni stagione i venti caldi / o freddi assistono al germoglio / o al distacco del frutto”. Mi fa tornare in mente le parole dette dopo la cremazione da una madre, che qui al Meyer aveva perduto un bimbo di pochi mesi: “Non avrei mai creduto che le ceneri potessero piangere”».

Lei siede del Comitato nazionale per la bioetica. Che posizione ha sul fine vita?

«La fine appartiene solo alla persona. Scegliere se essere sottoposti o no a cure intensive è un diritto inalienabile. Ma in Tanzania ho visto che il confine è labile».

Si spieghi meglio.

«In ospedale c’era uno stanzone per i sorua, i bambini che morivano di morbillo. Li perdevo tutti, perché a quei tempi non esisteva la vaccinazione di massa. Una fine orribile. La complicazione più frequente era la laringite, che ostruiva le vie aeree fino a soffocarli. Non avevo né cortisone né bombole di ossigeno. Una notte entrai e vidi una madre che premeva la sua mano sulla bocca del figlio. Le gridai: ma che fai? Rispose: “L’ho aiutato a nascere, lo aiuto a morire”».

È mai stato ricoverato in ospedale?

«Sì, per una settimana, alla Fondazione Opera San Camillo di Milano. Mia figlia mi aveva scoperto per caso un nodulo. Contavo a una a una le parole che uscivano dalle labbra dell’oncologo. Speravo che mi afferrasse il polso per tranquillizzarmi. Avrei voluto raccontargli di me. Invece… Il sistema ormai si è organizzato così. Mette al centro l’organo malato anziché l’individuo. È raro trovare un medico che ancora palpi la pancia del paziente. Prevale la medicina difensiva. I due sospettano l’uno dell’altro. I tribunali pullulano di contenziosi tra chi ha ricevuto e chi ha dato. È mai possibile?».

Intervista di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

Su questo sito puoi trovare due interventi di Gianpaolo Donzelli alle seguenti pagine: https://www.ninconanco.it/meyer/ e https://www.ninconanco.it/il-discredito-e-la-paura/

Segue il video della conferenza di presentazione al 37 TFF di VACCINI, il film di Elisabetta Sgarbi.

CÉLINE LETTO DA VITTORIO SGARBI

CÉLINE LETTO DA VITTORIO SGARBI

“GUERRA E MALATTIA SEMBRANO ESSERE LA CONDIZIONE IN CUI SI MUOVE L’UMANITÀ”.

In esclusiva per il “Bulletin Célinien”, pluridecennale periodico dedicato a Louis-Ferdinand Céline diretto dal belga Marc Laudelout, il celebre critico d’arte, saggista e polemista Vittorio Sgarbi risponde a qualche domanda sul suo rapporto con l’opera di Céline. Una intervista dove Sgarbi rivela la sua visione anticonformista riguardo ai romanzi dello scrittore di Viaggio al termine della notte e di Bagatelle per un massacro e della sua poetica, e a tratti intima, quando l’intervistato parla di suo padre Giuseppe e delle sue passioni letterarie, vitali per la formazione del giovane Vittorio negli anni della Contestazione del ’68. Intervista raccolta da Andrea Lombardi, saggista céliniano (Louis-Ferdinand Céline. Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, Bietti 2018) fondatore del primo sito italiano su Louis-Ferdinand Céline, dal giornalista e scrittore Emanuele Ricucci (il suo ultimo pamphlet: Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani, Passaggio al Bosco 2020) e tradotta da Valeria Ferretti. L’intervista, presentata qui integralmente, è apparsa in forma ridotta su “Libero” del 1° settembre 2020.

*

La prima domanda, molto semplice, come hai conosciuto Céline?

Ho conosciuto Céline attraverso mio padre, che aveva in casa la copia datata… di Viaggio al termine della notte, editore Dall’Oglio, con l’indicazione del giorno, che era un giorno del 1941 in Grecia, a Missolungi. Quindi, il libro è entrato in casa nel ’41. La prima edizione del Viaggio al termine della notte è del ’32, quindi è entrato abbastanza presto; in Italia fu tradotto nel ’33. Mio padre lo acquistò, lo lesse durante la guerra e quando io avevo, diciamo, 12 anni, 10 anni, 11 anni Céline iniziava già a essere messo all’indice e io ne avevo questa preziosa copia suggerita da mio padre e quindi ho letto… io ho avuto il vantaggio entro il ’68 e durante il ’68 di non leggere i classici di quell’epoca che erano raccomandati, da Marcuse a Mao a Adorno, ma invece di leggere Benedetto Croce, di leggere Céline, di leggere Anatole France e quindi di avere una controcultura che si fondava su dei testi di gran lunga più significativi di quelli in voga. Sono stato fortunato.

Sì.

A che età lo hai letto per la prima volta?

Mah, diciamo tra i 13 e i 14 anni.

Quali altri libri di Céline hai letto, e quale libro apprezzi di più e perché?

Forse Mort à crèditMorte a credito, della edizioni Garzanti, che all’epoca mi ricordo era stata purgata e il traduttore che era mi pare Giorgio Caproni, se non ricordo male, indicava la necessità che il pudore e il costume dell’epoca imponevano di fare dei tagli alle parti più forti, e questo mi incuriosì molto, ma poi non credo di avere più letto, anche se deve essere stata ripubblicata un’edizione integrale, una traduzione non emendata. Il libro entrò a casa forse comprato ancora da mio padre, nel ’67, ’68, adesso non mi ricordo la prima edizione italiana di Mort à credit, ma è meno precoce di quella del Viaggio al termine della notte. Poi sono arrivati in sequenza, quando è ripresa l’ondata di attenzione per Céline, libri come Nord e altri che ho letto, e poi ho cercato avendone l’edizione Guanda, Bagatelle per un massacro, che ho trovato in tempi molto recenti, era il libro che indusse mio padre ad averlo, l’aveva visto passare da un commilitone all’altro durante la guerra, nel 1941 a Missolungi durante la Campagna di Grecia, cioè da un  intellettuale che era in guerra con mio padre e a sua volta aveva ricevuto la copia da Giorgio Chiesura Corona, poeta di un certo rilievo, che all’epoca era un ragazzo, è nato nel ’21, aveva vent’anni, aveva dato le sue poesie a questo suo compagno di guerra, che gliele aveva restituite, dicendo, assieme al suo libro di Céline, “Ti restituisco le tue bagatelle”. Era un modo per fare una critica, e quindi questa frase di mio padre che ricordava indicava che l’uso della parola Bagatelle era stato trasferito dal libro di Céline, che adesso ho qui in prima edizione del 1938 della Corbaccio, alla valutazione delle poesie fatta dall’uno verso l’altro, quindi Céline era diventato un punto di… una misura di giudizio verso le poesie di Chiesura Corona.

Vittorio Sgarbi

Come definiresti il lavoro letterario e di stile di Céline, e come lo definiresti anche umanamente.

Intanto, Céline è noto come un medico, e quindi diciamo che la sua umanità è misurata sulla realtà più fragile dell’uomo, che è quella della malattia. Quindi, l’uomo, come sappiamo bene, è di natura incline all’affettività, anche in una dimensione egoistica, ma, secondo quello che io ho verificato nel corso della mia esistenza, l’uomo nasce buono, come indicava Rousseau, nasce nella natura, e diventa cattivo. Diventa cattivo perché deve crearsi degli anticorpi rispetto alla vita sociale, dove ognuno è lupo verso l’altro; quindi nella competizione si manifesta pure una crudeltà, perché è evidente che uno può essere più bravo di un altro. Siccome non sai mai se è il merito che ti premia, tu ad un certo punto pensi, parti dall’idea che invece il merito serva poco. Basta vedere con i miracolati in politica, come Conte. Uno desidera essere miracolato. Vorrebbe far pensare che quel miracolo dipende dal merito? No, è marginale. Il miracolo è bello perché c’è. Allora, la competizione della vita è così forte, che l’uomo che è buono diventa cattivo. Céline questo lo sa meglio di tutti, che l’uomo è cattivo. Poverino, non perché… Detto questo, quand’è che l’uomo torna nella sua dimensione di bontà infantile? Quando è malato, perché quando è malato ha le garanzie dello stato sociale, lo pagano anche se non lavora. Però è debole, e in quel che è debole, non ha più questa rabbia verso gli altri, ma aspetta l’aiuto degli altri, quindi Céline vive tra la condizione del medico che cura persone fragili e indebolite, e la considerazione dell’uomo nella sua sanità, che invece è pressocché un mostro. “Tutto quello che è interessante”, dice Céline, “accade nell’ombra, davvero, non si sa nulla della vera storia degli uomini”.

Cosa pensi che ti abbia lasciato, personalmente, la lettura di Céline?

L’idea, inattuale, di una umanità sempre in guerra, nel senso che la guerra e la malattia sembrano essere la condizione in cui si muove l’umanità. È uno stato di guerra permanente, e questa effettivamente è una metafora, ma questo dà anche la misura che in quella dimensione c’è la verità dell’umanità e rende Céline più grande di Malaparte, perché Malaparte fa del mondo, della guerra, della peste, un mondo teatrale, in cui ci sono delle posizioni che vengono assunte in modo artificioso, mentre invece Céline, anche rispetto a molti altri scrittori, ha un rapporto diretto con la natura, con la natura dell’uomo e con la natura della storia, perché anche la storia ha una natura.

Cosa ne pensi degli adattamenti dell’opera céliniana, quindi quelli teatrali, illustrati, cinematografici?

Mah, non li conosco, li ho patrocinati come sindaco e come assessore, quando mi hanno chiesto di fare spettacoli ispirati a Céline attori o registi, e io ovviamente li ho sostenuti, però non li ho visti. Credo che la letteratura abbia un’alternativa a sé stessa più che nel teatro, nel cinema, il cinema è un’estensione della letteratura; tra la fine della pittura e la fine del romanzo, il cinema nasce come una sintesi delle due arti, perché c’è una visività o visibilità prevalente, e poi c’è il racconto. Quindi la forza del cinema è nell’essere un romanzo illustrato. In questo senso la mia polemica con Gore Vidal insisteva, essendo lui più vecchio di me, sulla sua sottovalutazione della parte visiva del cinema: lui sosteneva che l’80% di un film è la sceneggiatura. Allora io gli ho risposto che è vero che la sceneggiatura è lo scheletro del film, ma è vero che il gusto del regista si manifesta come un gusto visivo, diventa un gusto legato ai dettagli, ai costumi, alle luci, ai luoghi, alle “location”… parola abominevole… e allora se io faccio fare la regia de “Il gattopardo”, romanzo meravigliosamente tradotto in film, da un regista diverso da Visconti, la sceneggiatura potrà essere la stessa, ma il patrimonio di visività sarà sicuramente diverso. Quindi sostenevo l’importanza della componente visiva. Ne sono ancora convinto, cioè che il cinema è una sintesi, un perfetto equilibrio tra pittura e romanzo, tra pittura e letteratura: e non prevale la parte testuale, ma prevale invece il taglio, l’occhio, la scelta dei personaggi, cioè una componente visiva, e che lo stesso testo fatto da due registi diversi può portare a due film diversi, in cui la parte visiva subisca una contrazione nel difetto di cultura delle immagini del regista. Quindi più che le riduzioni teatrali, io immaginerei un film tratto dai libri di Céline.

L .Ferdinand Céline

Quali sono gli altri autori che leggi e apprezzi maggiormente, oltre Céline?

Beh, leggo tutti gli autori, quindi… non è che posso fare un elenco delle mie preferenze nel mondo… nel mondo francese posso dire, a un certo punto, mi è sembrato persino più interessante di Céline, e ancora più espansivo nell’umanità degradata, Paul Léautaud. L’autore francese che prediligo è Léautaud, e Léautaud è un Céline ancora più basico, cioè legato ad una rappresentazione diretta del mondo e dell’umanità, che si trova poi nei suoi diari più ancora che nei suoi romanzi.

Paul Léautaud

Quindi una personalità… d’altra parte, il filone è un filone tutto francese che è stato il momento in cui hanno avuto la più forte egemonia nella cultura europea e internazionale, che è il filone che dopo l’Illuminismo, che pure pertiene prevalentemente al mondo francese, con Voltaire e Diderot, e quindi molto importante e universale, ha il suo punto di arrivo nel suo opposto, e cioè del filone che va da Baudelaire a Léautaud, e cioè un filone che si insinua nella dimensione del peccato, del segreto, della miseria dell’uomo, quindi da questo punto di vista noi abbiamo degli autori virtuosi… Come Manzoni, come Nievo, e poi abbiamo grandi realisti come Verga, ma la letteratura francese quando mette la marcia entra più dentro nella natura dell’uomo e quindi non c’è un testo… l’unico testo paragonabile a Les fleurs du mal è Foglie d’erba di Whitman, ma la dimensione è tipica degli americani, cioè con un’aria più facilona, più grandiosa, ma credo che I fiori del male siano il testo generatore di tutta la modernità e quindi di Céline e di Léautaud. Però quel filone è il filone, io in quello sono quello noi abbiamo avuto Carducci, Pascoli e perfino D’Annunzio che appare modesto se paragonato alla potenzialità europea dei francesi, da Mallarmé e a Rimbaud e poi anche dei personaggi come Rilke. Noi abbiamo una letteratura un po’ più di cartapesta, tra ’800 e ’900, che pure nel caso di D’Annunzio è bella, ragguardevole, però sembra più sfiorare che penetrare nell’animo umano.

Ultima domanda: Conoscendo il disincanto, anche il cinismo di Céline, quale domanda porresti a Céline, se avessi l’opportunità di incontrarlo?

Gli chiederei di Proust, e lui mi risponderebbe: “Proust spiega troppo per il mio giusto. Trecento pagine per farti sapere che tizio incula tizio, è troppo!”.

Intervista a cura di Davide Brullo per Pangea.it

Indignati a gettone

Indignati a gettone

Vittorio Sgarbi critico d'arte e polemista

Vittorio Sgarbi critico d’arte e polemista

Pubblico l’articolo di Vittorio Sgarbi apparso sul  “Il Giornale” del 23 agosto 2015 dal titolo INDIGNATI A GETTONE

Tanto rumore per nulla. Può un funerale privato diventare un funerale di Stato, nel senso che debba occuparsene il ministro dell’Interno? In questa grottesca vicenda, c’è materiale solo per Striscia la notizia, non certo per parlamentari, sindaci, prefetti e ministri. E vorrei subito rovesciare la dichiarazione del sottosegretario ai Servizi Marco Minniti: «Enorme sottovalutazione». No: enorme sopravvalutazione. Tanto che Goffredo Buccini la definisce qual è, in tutti i sensi, una «pagliacciata». A cominciare dal fatto che ci si occupi di questo pittoresco e «pericoloso» personaggio ora che è morto piuttosto che quando era vivo, perché prima di questi teatrali funerali il nome di Vittorio Casamonica diceva poco o nulla se non a investigatori e pochi giornalisti, e nessuno, men che meno tra quanti oggi, anche tra le istituzioni, manifestano indignazione, si è preoccupato di dove e come vivesse, se si spostasse a bordo di una Panda o di una Rolls-Royce. Ora preoccupa e indigna che, da morto, salga sullo stesso carro funebre di Totò. Cinema, appunto, non realtà. E non è della realtà che si occupano il ministro e il prefetto (che dovrebbe avere il coraggio di scrivere che la vicenda letteralmente non esiste), ma piuttosto della rappresentazione che di essa hanno dato giornali e televisioni, non alla ricerca del vero, ma del verosimile, di una fiction mafiosa. Con risvolti tragicomici. Può un ministro dell’Interno non conoscere la differenza tra uno sciopero e un funerale e chiedersi, senza senso del ridicolo, se il corteo fosse autorizzato? Quando mai si autorizza un corteo funebre? Va da sé che il lutto è un fatto privato. E la manifestazione del lutto, pur con una «messa in scena», va solo rispettata, perché attiene ai sentimenti di umana pietà e a rituali della religione che ciascuno professa. Certo, ci sono funerali sobri e altri sfarzosi, ma un ministro non è chiamato a discettare sui dettagli di una celebrazione funeraria, né può pensare d’impedire che si lancino rose o si suonino brani tratti da questa o quella colonna sonora. Che vuole fare Alfano, vietare la colonna sonora del Padrino e prescrivere alle chiese un elenco di brani «antimafia»? Vorrà forse dichiarare fuori legge le carrozze trainate da cavalli e decretare che i defunti siano trasportati solo con mezzi a motore? Di Casamonica lo Stato doveva occuparsi e preoccuparsi quand’era vivo invece a suscitare scandalo non sono le sue azioni e le sue malefatte, vere o presunte, ma i cavalli che lo hanno accompagnato al cimitero e l’elicottero che ha lanciato sul corteo petali di rose. Nulla aggiunge o toglie al lutto se il defunto venga portato in chiesa su una Giardinetta o su una carrozza. Se non ci fosse stato il clamore indotto da giornali e televisioni, dei funerali di Casamonica alla periferia di Roma in una brutta chiesa dedicata a Don Bosco, in prossimità di Cinecittà (non al Pantheon o al Colosseo), non avrebbe parlato nessuno. Un defunto come gli altri. Morto da cittadino libero. E non si capisce come a un cittadino libero si possano vietare o discutere il buon gusto dei funerali. Con un evidente razzismo nei confronti di costumi e abitudini del popolo rom, identificato tout court con la mafia, e spregiati, perché volgari, i parenti del defunto. E, infatti, non è parso vero, ai soliti indignati a comando, di manifestare «stupore», «sconcerto», «vergogna» non per quello che Casamonica avrebbe rappresentato da vivo, ma per come sia stato celebrato da morto. In pratica, ai Marino, agli Orfini, alle Bindi, ai don Ciotti, ai Saviano e ai Savianoidi, sarebbe bastato che Casamonica se ne fosse andato all’altro mondo con discrezione, continuando a ignorarlo da morto come lo hanno ignorato da vivo. Dunque, più teatrali dei funerali, sono le ridicole reazioni della politica e delle istituzioni. Il prefetto Gabrielli ha fatto sapere di non esserne stato informato, come, presumiamo, non lo sia di centinaia di funerali che si celebrano a Roma. Il sindaco di Roma, in vacanza (come sempre), fa sapere del suo «sconcerto», e non gli par vero che il boss lo abbia spodestato nelle prime pagine dei giornali, avendo fatto molto meno di lui. Infine l’Enac, che controlla il traffico aereo, ci fa sapere che l’elicottero non era autorizzato, nulla obiettando sulla facilità con cui un elicottero possa sorvolare la Capitale, e sulla inquietante circostanza che lo stesso Enac ne sia venuto a conoscenza non perché abbia gli strumenti tecnici per accertarlo, ma solo perché due giorni fa ci sono stati i funerali di un presunto boss. Tanto rumore per nulla, dicevamo. E un generale moto d’indignazione per un funerale da film che è stato impropriamente elevato a un summit di mafia. Manca solo che don Vittorio non sia morto, e riappaia «miracolosamente», rivelandoci che siamo a Scherzi a parte. La realtà, dunque, e la sua rappresentazione. In cui la farsa viene elevata a tragedia. E la tragedia vera minimizzata. Come la distruzione del monastero di Mar Elian, vicino a Homs, in Siria, costruito 1.500 anni fa. Nessuno reagisce. È il segno di una classe politica «ingrillita», dedita al più vacuo cazzeggio agostano.

 

LA DIFFERENZA FRA VANITA’ E NARCISISMO

LA DIFFERENZA FRA VANITA’ E NARCISISMO

 

SCONTRO INCANDESCENTE FRA SGARBI E BONITO OLIVA. L’ARTE NON C’ENTRA, E’ INCOMPATIBILITA’ ASSOLUTA DI CARATTERE FRA DUE NARCISISSIME PRIME DONNE, CHE UN PO’ CI SONO MA MOLTO CI FANNO.

 

 

Caravaggio Narciso

Caravaggio Narciso

Da una intervista alla Zanzara Radio 24 di Achille Bonito Oliva

“Vittorio Sgarbi come critico d’arte contemporaneo è una nullità ed è solo un conoscitore dell’arte antica. Uno come tanti. Non ha dato nessun contributo importante. Non c’è nessun saggio o libro suo che si ricordi, i miei sono stati tradotti anche in Cina”. A La Zanzara su Radio 24 Achille Bonito Oliva torna all’attacco di Vittorio Sgarbi. “Hanno persino scoperto – dice ABO – che la prefazione di un libro l’aveva scritta la madre. In televisione ogni tanto spiega un quadro alle commesse, alle parrucchiere. E poi si circonda di quelle, solo di quelle. Non è vero quello che si legge che ha avuto centinaia di donne. E’ un pesce lesso, una persona depressa che si accende solo coi riflettori e diventa aggressivo. Non può avere interlocuzioni, può fare solo monologhi”. Bonito Oliva ha vinto una causa contro Sgarbi che gli aveva dato del “porco”, “animale” e “bestia”: “Stanno quantificando la somma. Mi ha offeso sei mesi prima della Biennale. Prima ha negato, poi ha detto di avere l’immunità parlamentare da deputato. Ma la Corte Costituzionale ha bocciato la sua tesi. I soldi li darò agli orfani, io sono orfano di padre e di madre dunque me li tengo. Tra me e Sgarbi c’è una profonda differenza. Io sono narcisista e lui vanitoso, ma la vanità è il pret a porter del narcisismo”.

 

La differenza fra narcisismo e vanità non è solo quella che Bonito Oliva dice, la seconda sta al primo come una parte al tutto, ma il tutto non è la somma delle sue parti, ma qualcosa di diverso, appartiene non solo ad un rango, ma ad un genere diversi.

 

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Come molti dei miti greci, la storia di Narciso, racchiude un sublime paradosso. Narciso riversa su di sé l’amore che non ha voluto/saputo dare alla ninfa Eco. Già il nome Eco rimanda la figura e la bellezza di Eco a qualcosa di diverso da sé. In un certo qual modo, l’amore verso Eco è intrinsecamente impossibile. Anche se Narciso l’avesse manifestato, esso gli sarebbe rimbalzato contro, proprio come il suono che ritorna all’origine e vi risponde senza rispondergli, ma solo ripetendo. Narciso in realtà non sceglie fra nessuno amore, è semplicemente ed eternamente innamorato di sé stesso perché non può essere diversamente. La sua morte da affogato ci può sembrare perciò un castigo ingiusto.

 

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Vittorio Sgardi davanti al quadro di Courbert L’origine del mondo, Musee d’Orsay Parigi

 

Mi immagino che nel magnifico quadro di Caravaggio, il pittore abbia voluto riprodurre il rispecchiamento infinito, quasi come una sospensione di un castigo immeritato. Ma è poi un castigo la morte di Narciso? Egli non è come altri eroi macchiato dalla arroganza, dal rifiuto del suo daimon. Dunque, perché punirlo? Ne deduco che il rispecchiamento non ammette il castigo, ma solo il ricongiungimento, l’armonia che per tornare a dominare deve passare per la morte e la rinascita.

 

L’immagine in evidenza: teschio di Damien Hirst

 

 

 

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