IL MONDO DI ARTURO

IL MONDO DI ARTURO

 

arturo schwarzArturo Schwarz, viene voglia di cominciare il racconto della sua vita con l’incipit di Cent’ anni di solitudine di Gabriel García Márquez: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato…». Cosa pensava lei, in quella primavera del 1949, prima di salire sul patibolo in Egitto?

«Patibolo, esatto. Non mi aspettava un plotone, ma il nodo scorsoio: mi avevano condannato all’ impiccagione lasciandomi tutto il tempo per riflettere sugli anni vissuti fino ad allora, 25, pochi ma intensi. Da tempo sapevo in cosa credevo e cosa volevo dalla vita. Come disse lo scultore Constantin Brancusi: “Tutte le mie opere sono databili dall’età di quindici anni”. Per me, forse, da prima ancora».

arturo schwarz sgarbi e andrea fustinoni

Schwarz con Vittorio Sgarbi

Riavvolgiamo il nastro: com’era finito un italiano, quasi settant’ anni fa, in una galera egiziana con la pena capitale pendente sulla testa? E com’ è che oggi, a 94 anni, è qui, di fronte a noi, nella sua casa di Milano, zeppa di capolavori e libri, con una moglie giovane e bella, Linda, a raccontarcelo?

«Sono nato ad Alessandria d’Egitto da padre tedesco di Düsseldorf e da madre milanese, Margherita Vitta, figlia di un colonnello dell’ esercito italiano. Entrambi ebrei. Si conobbero lì e si sposarono. Avevo la doppia cittadinanza ma nel 1933, con l’ascesa di Hitler al potere, rinunciammo a quella tedesca e mio padre, separatosi da mia madre e trasferitosi al Cairo, mi vietò di rivolgermi a lui nella sua lingua madre.

Non feci fatica: mi sentivo italiano, studiavo in scuole prima inglesi e poi francesi, e avevo una naturale repulsione per la Germania. Mio padre era influente in Egitto: aveva inventato la formula per disidratare le uova e le cipolle, dando un grande impulso alle esportazioni di un Paese esclusivamente agricolo.

Nel ’38, a 14 anni, ero già trotskista. Con un paio di amici copti e uno musulmano, io, ateo, fondai la sezione egiziana della Quarta internazionale, voluta da Lev Trotskij da poco riparato in Messico. Aspetti, le mostro una reliquia che ha segnato tutta la mia lunga esistenza…».

arturo schwarz 7(Si alza, stacca dalla parete un quadretto e me lo mostra) Ma questo è il biglietto da visita di Trotskij. Lo ha incontrato?

«Me lo fece avere dal poeta Benjamin Péret. Doveva essere il lasciapassare per il mio viaggio in Messico. Due mesi prima della partenza, però, i sicari di Stalin lo assassinarono e io decisi di dedicare la mia esistenza ad affermare le sue idee. Nel frattempo era scoppiata la Seconda guerra mondiale ed entrai, come volontario, nella Croce Rossa. Ero ad El Alamein a caricare i feriti sulle ambulanze, italiani o inglesi che fossero, e mi presi qualche scheggia nel polpaccio.

Di notte scrivevo poesie, come ho fatto per tutta la vita. Mandai le prime ad André Breton. Avevo letto il Manifesto del surrealismo ed avevo chiesto all’ ambasciata di Francia al Cairo chi fosse questo Breton. Dissero che faceva lo speaker di Radio France Libre a New York. La risposta mi giunse sei mesi dopo, sfidando l’Atlantico infestato dagli U-Boot nazisti. Cominciò allora a trattarmi come fosse un padre. Mi incoraggiava, mi coccolava quasi. Finita la guerra mi iscrissi a medicina ma non dimenticai Trotskij».

Fu per causa sua che venne arrestato?

ANDRE BRETON

André Breton

«Sì, aprii una libreria e cominciai a pubblicare i suoi libri in Egitto. All’alba di una mattina del gennaio 1947, la polizia irruppe in casa mia. Ero accusato di sovversione. Regnava Re Farouk. Da giovane sembrava potesse diventare un governante illuminato ma si rivelò un despota crudele.

Aveva abbandonato persino le buone maniere, a tavola mangiava come un animale, per dimostrare che a lui tutto era concesso. Mi trascinarono nella prigione di Hadra e mi rinchiusero nei sotterranei, in una cella piccola, senz’ aria, solo con topi e scarafaggi. Dopo qualche settimana cominciarono le torture, mi strapparono le unghie dei piedi, causandomi la cancrena e la perdita di un dito, ma non parlai. Non era comunque necessario, perché l’ amico musulmano spifferò tutto, raccontò della cellula trotskista, della nostra visione del mondo, dei contatti internazionali.

Mi trasferirono al campo di internamento di Abukir, dove venni a sapere della condanna a morte. Non la eseguirono subito perché servivo loro come ostaggio. Era scoppiata la guerra arabo-israeliana, e io ero ebreo. Dopo due anni di prigionia, l’ impiccagione venne fissata per il 15 maggio, ma poche settimane prima Egitto e Israele firmarono l’armistizio. Negli accordi era prevista la liberazione dei prigionieri ebrei detenuti in Egitto.

Una mattina mi rasarono, lasciandomi credere che di lì a poco sarei salito sul patibolo. Invece mi accompagnarono al porto e mi imbarcarono su una nave diretta a Genova con il foglio di via e stampato, su tutte le pagine del passaporto, “Pericoloso sovversivo – espulso dall’ Egitto”. Così com’ ero, senza poter rivedere i miei genitori, né procurarmi un ricambio d’ abito».

Come le apparve l’Italia, quando sbarcò a Genova?

«Il paradiso terrestre. Raggiunsi Milano e trovai lavoro da un ebreo, Marcus, che aveva un ufficio d’ import-export dietro al Duomo. Allora nessuno conosceva bene l’inglese e il francese. Appena possibile, una notte presi il treno per Parigi. Alle sei del mattino salii su un taxi, lasciai la valigia in un albergo di quart’ ordine, e bussai alla porta di 42 rue Fontaine, a Montmartre. Aprì Breton, lo vedevo per la prima volta, ma mi abbracciò come fossi un vecchio amico.

Bambole Hopi

L’appartamento era piccolo, il letto in un angolo e ogni spazio occupato da oggetti e opere d’ arte. Sul muro, in fondo, occhieggiava una raccolta di bambole Hopi. Nello studio, straordinarie sculture africane e, sotto la finestra, La boule suspendue di Alberto Giacometti.

Giacometti, La boule suspendue

Alle pareti, Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Max Ernst, Man Ray, Dalí… Salvador Dalí non mi è mai piaciuto, non era dei nostri, era Dalí e basta. Come, da trotskista, non ho mai accettato l’ approccio commerciale di Pablo Picasso».

Quando decise di tornare a fare il libraio, l’editore e poi il gallerista?

«Un fratello di mia mamma, direttore di una filiale della Comit, mi fece avere un piccolo fido. Pubblicavo libri difficilmente commerciabili, giovani poeti e saggistica: Breton, Einstein e, soprattutto, Trotskij. Mandai in stampa La Rivoluzione tradita con una fascetta gialla: “Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia”. Sa cosa accadde? Me lo confidò, tempo dopo, Raffaele Mattioli, amministratore della Comit e uomo di grande cultura.

arturo schwarz 4Lo chiamò personalmente Palmiro Togliatti, chiedendogli di togliere il fido “alla iena trotsko-fascista di Schwarz”. Così finì la mia prima esperienza di editore: per rientrare dovetti vendere tutto il magazzino a meno del 10% del prezzo di copertina e anche la libreria rischiò di chiudere. Per sopravvivere, cominciai a organizzare mostre di incisioni, acqueforti e libri illustrati dagli artisti.

Mi aiutarono molto Carlo Bo, Raffaele Carrieri, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e molti altri amici. Non potendomi permettere l’ arte contemporanea che andava per la maggiore (e nemmeno m’ interessava), decisi di sfidare la legge capitalistica della domanda e dell’ offerta: recuperai il Dadaismo e il Surrealismo che nessuno voleva. Feci uscire dalle soffitte le opere di Marcel Duchamp, che da tempo si era ritirato e non era più interessato ad esprimersi artisticamente. Con lui il rapporto fu meraviglioso: presi lezioni di scacchi dal maestro Guido Capello per un anno intero per poter giocare contro di lui. Rimase imbattibile, ma qualche soddisfazione riuscii a togliermela».

Poi, una mattina del 1974, senza avvisare nessuno, chiuse la sua galleria, ormai divenuta mitica, per dedicarsi agli studi di arte, di alchimia, di kabbalah. Cominciò a collocare (spesso donandole), in giro per il mondo, le sue collezioni. Sentiva il bisogno di prendere le distanze dal passato?

«No. E poi non le chiami collezioni, è una parola che non mi piace. Sentivo il bisogno di trasmettere un patrimonio senza smembrarlo. Resto trotskista e surrealista, ho venduto opere d’ arte, ma ne ho anche donate moltissime, chiedendo in cambio che fossero trattate in maniera scientifica: catalogate, documentate, fatte sopravvivere, insomma. Del denaro non ho mai fatto una necessità, ho sempre cercato di sfuggire alla logica del suo dominio. Tutto questo ha a che fare anche con gli studi alchemici e cabalistici. Mica andavo cercando l’ oro materiale, cercavo quello spirituale».

arturo schwarzL’ Italia, come ha detto lei, è stata il suo «paradiso terrestre», però molte delle sue opere sono finite in musei all’ estero. Come mai?

«Un migliaio sono in quattro grandi musei internazionali, però un consistente nucleo di opere surrealiste e dada sono alla Galleria d’ Arte Moderna di Roma. Non ha idea di quanto sia stato difficile. La burocrazia italiana è un nemico spietato: devi giustificarti per il tuo atto di liberalità, vissuto quasi con sospetto, mentre lo Stato non fornisce garanzie di corretta gestione. Mi sono anche visto rifiutare la donazione dei testi dada e surrealisti. Qualcuno pare li abbia definiti “robaccia pornografica”. Li ho così regalati a Israele».

arturo schwarzPer cosa combatte ora il trotskista Arturo Schwarz?

«Per l’ amore di Linda. Così come ho amato la mia prima moglie, Vera, strappatami vent’ anni fa da un tumore. E per un soffio d’ aria fresca e pulita, un bisogno lasciatomi da quei mesi passati nei sotterranei di una prigione egiziana».

Intervista a cura dPier Luigi Vercesi per il “Corriere della Sera”

In copertina: René Magritte: La condizione umana 1933

 

Fra Dada e Surrealismo

Fra Dada e Surrealismo

Pubblico l’articolo Trait d’union – Le illustrazioni di Picabia e la rivista Littérature tra Dada e Surrealismo, della studiosa d’arte Barbara Tiberi, pubblicato sulla rivista del sito www.senzacornice.org di Firenze, che tratta dei rapporti fra il movimento dadaista e gli esponenti del surrealismo francese, in particolare André Breton. In evidenza di Picabia: Très rare tableu sur la terre, coll. Geggenheim, Venezia.

 

Gaetano Consolo Fossil of concrete. Foto F. Cappellini Firenze

Gaetano Consolo Fossil of concrete. Foto F. Cappellini Firenze

 

 

Questo contributo trae ispirazione da una piccola ma interessante mostra svoltasi presso il Centre Pompidou di Parigi – in occasione dell’acquisizione da parte dello stesso di ventisei disegni realizzati da Francis Picabia per la rivista Littérature tra il 1922 e il 1924 – in cui sono esposte nove copertine originali dell’artista e diciassette progetti mai pubblicati.[1]Tutte le opere provengono dalla collezione personale di André Breton, la quale include anche fotografie di Man Ray e disegni originali di Max Ernst e Robert Desnos, anch’essi collaboratori della rivista. L’esperienza artistica in seno a Littérature, in particolar modo dall’inizio della gestione esclusiva della rivista da parte di André Breton nel 1922 fino alla sua scomparsa nel 1924, risulta particolarmente significativa.

Nel 1922, a illustrare un periodico fino a quel momento quasi esclusivamente letterario, Breton è affiancato da Francis Picabia, allora una delle figure di maggior spicco nel movimento Dada, nonché dal fotografo americano Man Ray, arrivato a Parigi soltanto l’anno precedente. Picabia si occupa della grafica delle copertine dal numero quattro al numero tredici, e allo stesso tempo vi pubblica regolarmente testi e poesie. Per quanto riguarda Man Ray, che diventerà il ritrattista ufficiale del gruppo di Littérature, egli vede pubblicate per la prima volta proprio in questa rivista delle opere che diventeranno vere icone della modernità.

 Tra Dada e Surrealismo

In che momento il surrealismo si sgancia da Dada? Rispondere è ammettere che i surrealisti sono dei dadaisti trasformati, cosa assai improbabile. In effetti, se si esaminano gli esordi dei primi difensori del surrealismo, si scoprono opere personali, certo ostili alla tradizione dominante, ma poco segnate dallo spirito dissolvente Dada. La rivista Littérature, fondata nel 1919 e così battezzata per antifrasi, conserva alle origini molti aspetti letterari, e anche ritmi da rivista tradizionale. È là che il progetto di fondare un nuovo modo di pensare, di sentire e di vivere, che sia quello di un mondo nuovo, si perde e si elabora inseparabilmente.[2]

Ci troviamo sulla linea di confine, non sempre nettamente identificabile, che divide i movimenti del Dada e del Surrealismo. Leggiamo un commento a questo delicato momento di passaggio dalla viva voce di Man Ray, riportato nella sua autobiografia:

Tutte le espressioni del dadaismo erano di pura negazione: poesie e dipinti erano illogici, irriverenti e gratuiti. Per continuare la propaganda dadaista era necessario un programma più costruttivo, almeno come complemento alla critica della società. E Breton inaugurò il surrealismo, termine attinto dagli scritti di Apollinaire. Il dada non morì: si trasformò, e il nuovo movimento si componeva di tutti i membri del primitivo gruppo dada. Tzara seguì il cambiamento per un certo periodo, finché ulteriori attività personali motivarono il suo ritiro. Breton prese allora le redini del movimento, pubblicando il primo Manifesto del surrealismo. […] Si aprì una galleria surrealista, e mi invitarono ad allestirvi la prima mostra; tuttavia, a parte due o tre opere create dopo la nascita del nuovo movimento, io ripresentai i lavori del periodo dada. Si adattavano benissimo ai precetti del surrealismo, e pochi ricordavano di averle già viste nella mia mostra del 1921 con l’etichetta dada.[3]

Man Ray, fotografo dadaista

Man Ray, fotografo dadaista

Risulta arduo e in fin dei conti piuttosto vano distinguere le reciproche influenze con riferimento alle singole opere, tentando di etichettarle come appartenenti all’una o all’altra corrente. Ciò che appare evidente è che in questa proficua ma confusa zona di confine si colloca proprio la sperimentazione nata intorno alla rivista Littérature. Questa è l’opinione, tra gli altri, anche di Argan:

Dada è stato trasformato nel Surrealismo, cioè nella teoria dell’irrazionale o dell’inconscio in arte, anche se non v’è stata fusione tra i due movimenti e Duchamp, per esempio, non ha mai aderito al Surrealismo. La fusione avviene per il tramite della rivista franceseLittérature, che faceva capo ad un gruppo di letterati: Breton, Soupault, Aragon, Éluard.[4]

Le scelte operate in seno alla direzione della rivista e le caratteristiche che la riguardano appaiono talvolta in contrasto tra loro o non propriamente riconducibili a un principio di coerenza. Se inizialmente l’intento è quello di rifarsi a scrittori affermati per imporre una certa autorevolezza, già dal secondo numero di Littérature si contano incursioni Dada, sempre più frequenti nei numeri successivi. Lotte intestine dilaniano a più riprese la rivista e lo stesso Picabia, di cui Breton aveva chiesto la collaborazione fin dal 1919, sospende la sua collaborazione con Littérature fino al n.4 della nuova serie. All’inizio del 1922 André Breton realizza che non può scendere a compromessi con Picabia e decide di dargli carta bianca. Una nuova veste della rivista è quindi inaugurata nel marzo 1922, inizialmente contraddistinta da un disegno di Man Ray in copertina. Il ritorno di Picabia vede un nuovo assetto grafico per Littérature partendo dal n. 4 (settembre 1922) fino al giugno 1924. Dietro richiesta di Breton, il cappello magico di Man Ray sparisce per lasciar spazio ad illustrazioni più irriverenti, caratterizzare da un simbolismo erotico e da contrasti violenti.

Francis Picabia

Il pittore surrealista Francis Picabia

I disegni di Picabia

Fino al 2008 gli unici disegni conosciuti di Picabia per Littérature erano le copertine pubblicate. Tali stampe erano considerate d’importanza minore rispetto alle altre opere dell’artista ed erano stimate tra le prove più classiche se non addirittura retrograde dagli stessi studiosi di Picabia. La scoperta dei diciassette nuovi disegni, realizzati sempre nell’ambito di Littérature, dovrebbe gettare una nuova luce su questo momento poco conosciuto dell’opera dell’artista al fine di evitare ulteriori giudizi affrettati. La totalità dei disegni in mostra, ventisette in tutto, come già accennato, è tracciata da una mano sicura, senza pentimenti, con un inchiostro nero che copre i bozzetti realizzati con la grafite. Nella maggior parte dei casi, l’artista disegna le forme a penna per poi riempirle col pennello. Si tratta principalmente di persone o animali isolati o in coppia che assumono delle pose datableaux vivants. La relativa unità stilistica delle copertine e dei progetti ha permesso a Picabia di sottomettere il titolo della rivista a un trattamento particolarmente originale. Le lettere della parola “Littérature” vengono declinate nei modi e nelle forme più differenti: appaiono scritte in corsivo o in stampatello e disposte a formare un calligramma o distribuite come in costellazioni, oppure cadenti da una chioma, nell’atto di uscire da un cappello o da un flûte o ancora ripetute su delle schiene femminili. Soltanto nel n. 7 il titolo è fatto oggetto di un gioco di parole, forse suggerito da Marcel Duchamp, il famoso “lits et ratures” [fig. 3].

Questi disegni non costituiscono il primo contributo di Picabia alla rivista: all’inizio di dicembre del 1919 Breton aveva invitato Picabia a pubblicarvi qualcosa dicendo di aver molto apprezzato il suo libro, Pensées sans langage. Qualche giorno più tardi Picabia aveva inviato due poesie, di cui una – Papa fais-moi peur – pubblicata nel n. 12 della rivista (febbraio 1920), seguite da tre altri testi nei due numeri successivi. È dunque il poeta e non l’artista a essere sollecitato da Breton, la rivista infatti non accoglieva allora nessun contributo grafico.[5] Tutto cambia nel maggio 1922 quando Breton, dopo i primi tre numeri di una “nouvelle série”, diviene il solo capo redattore. Egli riprende contatto con Picabia e gli concede la più totale libertà di decisione: «Envoyez-moi, par ailleur, tout ce qui vous plaira et sourtout ne reclez devant aucune violence, la voie n’a jamais été si libre».[6] Stavolta la “carta bianca” concerne tanto i testi (e saranno numerosi) quanto i disegni poiché Breton, per sottolineare il cambiamento nella rivista, prevede di sostituire con i disegni di Picabia la copertina ideata per la nuova serie, per quanto anch’essa fosse piuttosto recente. Il cappello a cilindro realizzato da Man Ray aveva, infatti, il difetto di ricordare troppo il Congrès de Paris, il cui fallimento all’inizio dell’anno era stato doloroso per Breton.[7]

Per far fronte a tale richiesta, Picabia deve presentare a Breton un primo progetto di copertina in un lasso di tempo piuttosto breve. Questo primo disegno, che rappresenta un Sacro Cuore, è, infatti, realizzato su carta di scarsa qualità, ma è pubblicato come copertina del n. 4 della rivista. Prima di questa illustrazione per Littérature non siamo a conoscenza di nessun antecedente nell’opera di Picabia che si possa assimilare a tali disegni, figurativi ma stilizzati, eccezion fatta per alcuni ritratti del 1920 che presentano tuttavia un aspetto molto diverso. Questo nuovo stile grafico non può non sorprendere quanti identificano Picabia con le composizioni meccanomorfe Dada diffuse dall’artista sulla sua rivista 391. Il loro abbandono coincide con quello che Picabia considera la fine del movimento Dada dopo il fallimento del Congrès de Paris, opinione che lo avvicina a Breton. Il ritorno alla figurazione e l’adozione di uno stile apparentemente più tradizionale per i disegni di copertina di Littérature sono il segno di una nuova era, malgrado il loro sapore ancora vicino a Dada. Per il Salon d’Automne del 1922 Picabia realizza due grandi composizioni smaltate che manifestano la nascita del nuovo stile, fondato sul ritorno al nudo, sulla predilezione per le silhouette e sull’opposizione brutale del bianco e del nero. Se una di queste due composizioni rimanda a un quadro di Ingres, il primo frontespizio di Littératureriprende un’immagine largamente diffusa in Francia fin dal XVII secolo, un emblema cardine del cattolicesimo, il Sacro Cuore di Cristo [fig. 1]. Picabia lo fa anche stampare in rosso per avvicinarlo all’iconografia tradizionale del cuore trafitto dalla lancia del soldato Longino.[8] In tale contesto la dimensione sacrilega del disegno non deve passare inosservata ai lettori, considerato soprattutto che Picabia ha precedentemente pubblicato su391, nel maggio 1920, La Sainte-Vierge, una semplice macchia d’inchiostro su carta. La copertina seguente non è certo meno iconoclasta: essa mostra una santa svestita che si masturba con una testa di scimmia sul pube, mentre in secondo piano si intravede un cavallo, animale fallico per eccellenza, ritto sulle zampe posteriori. Intorno all’aureola un celebre adagio si trova trasformato in slogan pubblicitario: «Nul n’est censé ignorer… Littérature».[9] [fig. 2] Come la precedente, questa immagine scandalosa associa la sfera religiosa a quella erotica così limitando la diffusione della rivista almeno a New York, da dove Duchamp scrive a Breton di aver dovuto distribuire agli amici le copie ricevute per la censura al pubblico a causa della copertina.

Lo scrittore André Breton

Lo scrittore André Breton

Tra i temi principali dei disegni vi sono i rapporti uomo-donna, con le immancabili opposizioni (vedi in particolare il progetto con la coppia guantata che si abbraccia) e l’universo del gioco d’azzardo, sotto forma di dadi o di picche e fiori al posto delle macchie di un giaguaro. Nelle illustrazioni troviamo nondimeno un certo numero di animali: mammiferi, volatili e anche un insetto. In particolare l’immagine di una scimmia compare in due disegni “gemelli”, nati come progetti per la copertina di Littérature e rimasti tali. In entrambi vediamo appunto una scimmia, animale spesso associato all’atto di dipingere, una scritta recante il titolo della rivista e un’altra iscrizione che potrebbe apparire sibillina, ma che ci è invece d’aiuto per comprendere il significato delle due illustrazioni [fig. 4]. In esse leggiamo: «La Charpente chez quelques bâtisseur».[10] Si tratta del titolo di una mostra organizzata nel gennaio 1923 da Léonce Rosenberg alla Galerie de L’Effort Moderne in cui furono principalmente esposte opere cubiste. Come ha notato Arnauld Pierre,[11] i “costruttori” sono per Picabia i rappresentanti di un cubismo divenuto ormai accademia sui quali in quel momento l’artista concentra le proprie invettive. Qualche settimana più tardi Picabia non mancherà di aggiungere una precisazione: avrà cura di escludere Picasso dalle sue critiche. Per di più, la mostra si dichiarava “sotto il patronato di Ingres”, referente pittorico obbligato del coevo ambiente artistico parigino. Nonostante Picabia inveisca brutalmente contro tale sudditanza, i suoi disegni per Littérature non sono esenti da citazioni del maestro, così come da rimandi all’antichità. Se guardano a Ingres le copertine dei nn.10 e 11/12, in alcuni progetti troviamo citazioni anticheggianti: Leda e il cigno, Omero ispirato ad un celebre frammento de Partenone, Apollo con la sua lira. Un gioco di rimandi e citazioni associato ad uno stile aggressivo e lineare che costituisce senza dubbio la risposta ironica di Picabia alla moda del disegno, in voga allora tra i partigiani del Ritorno all’Ordine in un ambiente di nazionalismo artistico.

Picabia litterature

Picabia, copertina per la rivista Litterature

Tra i disegni realizzati per Littérature, conservati da Breton, figurano due composizioni particolarmente interessanti che non presentano il titolo della rivista e non possono perciò essere considerate progetti per la copertina. Devono piuttosto essere assimilate a due altri disegni appartenuti a Simone Kahn, la prima moglie di André Breton. Anche se questi ultimi si presentano in orizzontale – al contrario dei disegni del Centre Pompidou, che si sviluppano in verticale – le quattro illustrazioni hanno, infatti, due elementi in comune: una piccola ruota, il cui significato ancora non è chiaro, e il colore nero che caratterizza buona parte dello sfondo dividendo in due i riquadri dei disegni. In queste illustrazioni, come già nella copertina del n. 6 della rivista, Picabia rappresenta un buon numero di braccia e mani nude. In particolare le mani acquistano una certa autonomia, come a voler rappresentare una misteriosa lingua dei segni. Possiamo ragionevolmente supporre che i quattro disegni con la ruota siano stati concepiti da Picabia per figurare in Littérature come opere indipendenti, slegate dai contenuti testuali della rivista.[12] In realtà i soli disegni, scelti da Breton per essere pubblicati «hors-texte»,[13] sono quelli di Max Ernst apparsi nel n. 8 del gennaio 1923 e intitolati La Mer, la côte et le tremblement de terre e Baudelaire rentre tard. Ernst ha già pubblicato due opere nella prima serie di Littérature e ha accompagnato un testo di Paul Éluard con qualche disegno nel numero precedente. Le illustrazioni di Max Ernst presentano dei caratteri differenti rispetto a quelle di Picabia: sono sicuramente più in linea col gusto di Breton per l’onirismo, molto presente nella rivista, che sarà uno degli imperativi del Surrealismo. Contrariamente a quelli di Picabia, i disegni di Ernst ricordano l’estetica del collage, pur essendo realizzati con penna e inchiostro. Così Baudelaire rentre tard introduce semplicemente l’elemento straniante di una “lampe-veilleuse” – una grossa lanterna – in un’illustrazione ottocentesca che mostra un gentiluomo in procinto di salire le scale. Max Ernst illustra anche il n. 11/12, pubblicato a metà ottobre 1923, con quarantaquattro vignette in stretta relazione con le poesie cui sono associate; gli originali sono purtroppo andati perduti. Anche in questo caso i suoi piccoli disegni mostrano personaggi o frammenti di corpi come estrapolati da un incubo, molto più adatti di quelli proposti da Picabia considerati da Breton un po’ troppo prosaici e affini alle illustrazioni di un catalogo di vendita, coerentemente con la passione dell’artista per il linguaggio pubblicitario [fig. 5]. L’incomprensione delle vignette accelera probabilmente la fine della collaborazione tra Breton e Picabia, che nel maggio 1924 si prende gioco sulle pagine di 391del «Superréalisme» del poeta: le illustrazioni concepite hanno, infatti, lo stile di quelle edite su Littérature riutilizzando anche alcune figure, come la donna col vaso – ora ribattezzato Rimbaud, uno degli autori apprezzati da Breton che compare in caricatura – o l’uomo-serpente. Queste nuove immagini, di fattura e contenuto più liberi, per non dire audaci – come Classicisme o Lever du soleil – non sarebbero mai state scelte da Breton perLittérature. La chiusura della rivista bretoniana, e presto anche di 391 – i cui ultimi due numeri non includono disegni – segna l’eclissi di uno stile grafico di Picabia indissolubilmente legato ai rotocalchi. Di fatto le illustrazioni ideate per Littérature hanno un seguito limitato nella stessa opera dell’artista.

Riguardo al carattere effimero di quest’esperienza, avvertito dai suoi stessi protagonisti, è interessante riportare quanto affermato da Breton:

J’ai accepté bien volontiers de collaborer à Littérature. Nous avions le désir d’y faire disparaître certain chapeau haute de forme berlinois… Pourvu que nous ne remplacions pas par celui d’un croque-mort! J’aurais voulu une revue aussi bête qu’un quotidien, une revue semblable à la vie, semblable à nous et finissant dans une corbeille à papiers.[14]

 


[1] Man Ray, Picabia et la revue Litérature (1922-1924), catalogo della mostra, Christian Briend, Clément Chéroux (a cura di), Parigi, Centre George Pompidou, 2 luglio-8 settembre 2014, Editions du Centre Pompidou, Paris, 2014.

[2] Jules-François Dupuis, Histoire désinvolte du surréalisme, Editions Paul Vermont, Paris, 1977. Edizione italiana: Jules-François Dupuis, Storia disinvolta del surrealismo, AAA Edizioni, Bertiolo, 1996, p. 12.

[3] Man Ray, Autoritratto, SE, Milano, 1998, pp. 215-216.

[4] Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna 1770-1970 – L’Arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze, 2002, p. 185.

[5] Le prime opere riprodotte saranno quelle di Max Ernst nel n. 19.

[6] Lettera di Breton a Picabia, marzo 1922, in Michel Sanouillet, Dada à Paris, CNRS, Paris, 2005, p. 505.

[7] Nel corso dell’evento era stato chiesto ai congressisti: «Entre les objets dits modernes, un chapeau haut-de-forme est-il plus ou moins moderne qu’une locomotive?».

[8] Nel disegno originale destinato al tipografo compare infatti un piccolo rettangolo di colore rosso in basso a destra, che doveva segnalare il colore della stampa. In queste illustrazioni troviamo spesso indicazioni come «en noir», «tel» o «enlever le cadre» riportate da Picabia all’esterno del riquadro tracciato a matita.

[9] «Non c’è nessuna scusa per ignorare… Littérature», tr. dell’autrice.

[10] «L’impalcatura presso qualche costruttore», tr. dell’autrice.

[11] Arnauld Pierre, Francis Picabia, la peinture sans aura, Gallimard, Paris, 2002, p. 186.

[12] Questa è l’opinione di Christian Briend, Christian Briend, op. cit., p. 24.

[13] Christian Briend, op. cit., p. 24.

[14] «Ho accettato ben volentieri di collaborare a Littérature. Avevamo il desiderio di fare così sparire certi cappelli a cilindro berlinesi… A patto però di non rimpiazzarli con quelli di un becchino! Volevo una rivista banale come un quotidiano, simile alla vita, simile a noi e che finisse in un cestino per la carta», tr. dell’autrice in Francis Picabia, “La Vie moderne”, 25 febbraio 1923, in idem, Ecrits critiques, Carole Boulbès (a cura di), Mémoire du livre, Paris, 2005, p. 166.

 

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