UNA STRADA CHE NON PORTA IN NESSUN POSTO.

UNA STRADA CHE NON PORTA IN NESSUN POSTO.

ILVA DI TARANTO: SE PRODUCE UCCIDE, SE NON UCCIDE FALLISCE

Di giorno l’aria sembra più tersa e Tamburi una periferia normalmente degradata; a sera la ciminiera dell’Ilva sbuffa senza protervia e la si scruta con meno inquietudine. Eppure gli interventi per mitigare l’impatto ambientale sono realizzati solo a metà. «All’ambiente ci ha pensato il mercato», sospira il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. La più grande acciaieria d’Europa inquina di meno solo perché lavora a un terzo della capacità. Se produce, uccide. Se non uccide, fallisce. L’equazione resta irrisolta, a otto anni dal sequestro giudiziario e dall’esproprio statale.

Sui muri restano le scritte «Riva boia» e ogni sabato da quindici settimane 5.931 tarantini di 61 associazioni scrivono al premier per chiedere la chiusura dell’Ilva. I sindacati parlano di «fabbrica in abbandono». Il maxiprocesso con 44 imputati per disastro ambientale è ancora in primo grado. Il registro tumori non è mai stato creato. Il monitoraggio ambientale è parziale. I politici si almanaccano su ipotesi fantasiose, dall’idrogeno alla riconversione in parco giochi.

«A che punto siamo? A nessun punto», taglia corto il sindaco. Di chi sarà l’Ilva, se come e con quali continuerà a produrre acciaio, ancora non si sa. Fino al 2012 l’Ilva sfornava ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate d’acciaio, con punte di 10,5. Riva non abbassava la produzione nemmeno nei momenti ci crisi, «la competitività dipende dai magazzini sempre pieni», diceva. Sotto i 6 milioni di tonnellate, è strutturalmente in perdita: servono grandi volumi con costi fissi alti.

Oggi viaggia fra 3 e 4 milioni di tonnellate e brucia 100 milioni di euro al mese. Due altoforni su cinque, tra cui il principale, sono fermi. Si potranno riaccendere solo quando saranno completate le migliorie ambientali. Nel 2023, secondo il piano del ministero. Troppo tardi, forse.Tragedia umana e industriale senza unità di tempo, di luogo e di azione. Due anni fa è entrata in scena ArcelorMittal, che se l’è aggiudicata, dopo una controversa gara, con la formula dell’affitto d’azienda finalizzato all’acquisto. Benché sia il più grande produttore di acciaio del mondo (80 miliardi di fatturato), secondo i sindacati sta facendo di tutto per mandare l’Ilva in malora.

«Non cambiano nemmeno i bulloni», allarga le braccia uno dei 3.500 operai ancora al lavoro (4.000 sono in cassa integrazione). Sostiene Franco Rizzo, capo del sindacato di base Usb, che nell’ultimo anno si contano almeno 20 incidenti gravi: «Ormai non si fanno più manutenzioni, rischiamo di fare la fine della Thyssen». Per non dire dei quattro suicidi in tre mesi. Le relazioni sindacali sono tese. Nel primo incontro dopo quattro mesi, l’amministratore delegato Lucia Morselli si è presentata con una borsa con la scritta «Non disturbare, sto salvando il mondo» e quando il primo sindacalista ha cominciato a parlare si è messa a sfogliare un giornale. ArcelorMittal ha decapitato la prima linea di manager e verticalizzato la gestione.

Anche fatture di piccoli importi devono passare dal Cda. L’indotto (oltre 6mila addetti) attende 50 milioni per fatture che le banche si rifiutano di scontare. A Taranto sospettano che il piano fosse prendersi l’Ilva non per rilanciarla, ma per impedire alla concorrenza lo sbarco in Europa e portarsi i clienti nelle due acciaierie in Francia, recentemente potenziate del 30%. Da un anno, con diverse motivazioni (volatilità regolatoria, incubi giudiziari, mutate condizioni di mercato), ArcelorMittal minaccia di andarsene, recedendo dal contratto.

E il governo la rincorre e fa concessioni. Di questi giorni il tira-e-molla su 200 milioni di canoni di affitto non pagati, anche se rinegoziati a marzo. «Ragionano con logiche finanziarie, non industriali», sostiene il sindaco. Il ministro Stefano Patuanelli non nasconde perplessità su ArcelorMittal. Il governo lavora a una nazionalizzazione bis, con Invitalia. Possibile una chiamata alle armi anche di Eni, Saipem, Fincantieri e banche di sistema. Il governatore Emiliano vuole entrare con l’Acquedotto Pugliese. Tutte ipotesi, finora nulla di concreto.

In campagna elettorale, a parte Boccia (Pd), i ministri hanno pensato bene di non farsi vedere a Taranto. In primis Di Maio, che pure ha girato i paesi della provincia. Il M5S, che prometteva di chiudere l’Ilva, è passato in due anni dal 45% al 10%. Di questo passo, l’Ilva lentamente muore. Non un delitto con un carnefice, non un atto politico rivendicato, non un piano ma una inesorabile consunzione. «Sarebbe una follia, perché l’Ilva è ancora una Ferrari», si scalda Federico Pirro, economista pugliese che la studia da anni e fece parte anche del pensatoio creato da Riva («Gratis, però»).

E non solo perché «nonostante tutto è ancora la fabbrica italiana con più addetti diretti, più di Mirafiori», con 8.277 dipendenti a libro matricola e circa 20 mila famiglie coinvolte in tutta Italia. L’Ilva vale almeno un punto di Pil, fornisce l’industria del Nord, fa girare un porto invidiato sin dal terzo secolo avanti Cristo, quando Taranto era capitale del Mediterraneo occidentale.

«Qualcuno – dice Pirro – ha pensato al danno devastante sulla bilancia commerciale e all’impatto fiscale di una chiusura?». Benché governo e sindacati ripetano il mantra «esuberi zero», qualunque piano industriale credibile dovrà contarne almeno 2.500. Ma nessuno vuole intestarseli, e allora meglio guadagnare tempo. A spese del contribuente: oltre 6 miliardi già iniettati dal 2012, altri 3 (almeno) per il nuovo giro di giostra. Taranto vive sospesa e osserva le convulsioni romane con la sindrome dell’abbandono.

«La pazienza sta finendo», ha detto il vescovo Filippo Santoro. Nel frattempo, c’è vita oltre l’Ilva. Le aziende prendono commesse all’estero e si emancipano dal giogo della monocommittenza. I tarantini ripopolano il centro storico abbandonato da decenni. Spuntano b&b e gli stranieri ciabattano sul ponte girevole anche durante la pandemia. Arrivata dalla Toscana, in cinque anni la direttrice Eva Degl’Innocenti, oltre a far crescere visitatori del 50% e incassi dell’80%, ha reso il museo archeologico parte di una nuova identità culturale. Ha convinto bambini e nonni a disegnare, raccontandosi, le mappe della città che è «la più disprezzata d’Italia dai suoi abitanti». Com’ era prima dell’Ilva, per immaginare come potrà essere dopo.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa”

LUCIA D’ACCIAIO

LUCIA D’ACCIAIO

UN OSSO DURO, UNA AMAZZONE IRRESISTIBILE CHE NON PERDONA- NON CONOSCE FEDELTA’, NE’ SCONFITTE, MA SOLO INCARICHI- A VOLTE IRRIVERENTE, SEMPRE FUORI DALL’ORDINARIO: ECCO CHI E’ LUCIA MORSELLI, A.D. ALL’ACCIAIERIA DI TARANTO.  

Intanto nuvole minacciose si addensano sulla Ancelor-Mittal e i suoi responsabili.  Le procure di Taranto e di Milano, hanno ordinato il sequesto di documenti per accertare ipotesi di reato che vanno dalla distrazione dei mezzi di produzione, alla appropriazione indebita e all’aggiotaggio.

«Non esiste forse oggi in Italia una sfida industriale più grande e più complessa di quella degli impianti dell’ex Ilva. Sono molto motivata dall’opportunità di poter guidare ArcelorMittal Italia, e farò del mio meglio per garantire il futuro dell’azienda e far sì che il suo contributo sia apprezzato da tutti gli stakeholder». La supermanager Lucia Morselli, da ieri  nuovo presidente del Cda e Ad di ArcelorMittal Italia, non si sarebbe mossa per meno. Morselli è una donna fuori dagli schemi, una a cui non sfiora nemmeno l’idea di poter perdere, che spiegava in un libro dedicato a chi voleva far carriera: «Se a 35 anni non l’hai fatta, sei un fallito». Era a capo di Acciaitalia, la cordata che ha perso la gara per l’Ilva di Taranto? Per Morselli non c’è problema. Nel giro di qualche mese, stupisce tutto il mondo industriale e sindacale (probabilmente meno quello finanziario, dove lei si muove con grandissima agilità) facendosi nominare a capo della cordata vincente. Laureata in Matematica alla Normale di Pisa con il massimo dei voti e lode, comincia la sua carriera nel 1982 in Olivetti, poi è tra i soci fondatori della Franco Tatò e partners.

E da lì comincia una carriera via via sempre più rapida: fino al 2010 cambia 17 incarichi, acquisisce esperienze nel campo delle comunicazioni, mettendo a segno un colpo dietro l’altro. Guidò la cordata che acquistò Telepiù da parte di Stream, con la successiva nascita di Sky. Quando negli anni 2000 era Cfo di Stream surclassò una manager come Letizia Moratti diventando lei capo di News Corporation in Italia (gruppo Murdoch). Entrò anche nel merito della programmazione televisiva: fu lei, quando era a Stream, a licenziare, dalla sera alla mattina, disattivandogli il badge, Giovanni Minoli. Fu sempre lei a ideare e concordare con Mediaset la diretta ventiquattr’ore su ventiquattro del Grande Fratello. Sua anche l’idea dell’home banking che anticipò prevedendo il servizio sui decoder Stream. Quando i diritti televisivi del calcio erano soggettivi, lei puntò sul Napoli, che allora era in serie C e contribuì alla sua scalata fino alla serie A.

Poi, dopo un intermezzo in cui si dedicò alla telefonia, è passata al settore metalmeccanico. Fino al 10 gennaio 2014 Morselli era amministratore delegato dell’azienda della Thyssen Berco che sta a Copparo di Ferrara ed è stata protagonista di una durissima trattativa che ha portato a drastici tagli del personale e a un braccio di ferro estenuante con sindacati e istituzioni. Un operaio, Simone Pavanelli, scrisse un libro sulle proteste in cui lei non veniva certo raffigurata come una santa. Morselli comprò i diritti per farne un film.

Ma è a Terni che Lucia Morselli diventa un personaggio pubblico, una manager che tutta l’Italia comincerà a conoscere. Arriva nell’estate del 2014, con la fama di tagliatrice di teste, nel mezzo di una crisi delle acciaierie che Thyssen non riusciva a rilanciare. Fama confermatissima. La testa dell’ad di allora, Marco Pucci fu la prima rotolare, seguita poi da quella di decine di altri manager.

Contro il suo piano di tagli, che inizialmente dovevano essere sui 400, scesi poi a 290 e incentivati, e il progetto di chiudere uno dei due forni a caldo, orgoglio di Ast, scesero in piazza a Terni in 30mila, lavoratori che venivano da mezza Italia: un corteo così non si era mai visto nella città dell’acciaio che di scioperi ne ha ospitati tanti. Gli operai delle acciaierie misero in atto lo sciopero più lungo nella storia della fabbrica dal dopoguerra: durò 36 giorni, quasi fino a Natale. Lucia Morselli non fece un frizzo. Quei giorni diventarono epici: cortei sull’autostrada, fermando il traffico per ore con la gente che scendeva dalle auto e, anzichè arrabbiarsi per i ritardi, andava a stringere la mano agli operai. Manifestazioni a Roma, anche a suon di manganellate e al grido di “Caricate! caricate!” e a Terni, l’allora sindaco Leo Di Girolamo colpito da una bastonata alla testa e poi una lunga, lunghissima trattativa al ministero.

Lucia Morselli non diede un segno di cedimento. Quando gli operai circondarono il suo ufficio e dovette intervenire il Prefetto Gianfelice Bellesini per calmare le acque, si narra che lei lo ricevette con i piedi sulla scrivania e fu il Prefetto a dover dire “Metta giù i piedi, io sono lo Stato”. Per tutta risposta, pochi giorni dopo, Morselli fece rinforzare tutte le porte dei dirigenti.

Una sera scese da sola, in piena notte, al picchetto che gli operai facevano davanti ai cancelli delle acciaierie per convincerli a smontare. Un gesto che fece alzare dal letto il capo della Digos che si precipitò con una squadra a “protezione” della manager. Quella notte andò bene, furono gli stessi operai che stavano intorno a lei a fare una sorta di cordone a quelli con l’animo più surriscaldato, che stavano più indietro.

Forse quella notte la salvò il fatto di essere una donna. Una donna fuori dall’ordinario ma, soprattutto, fuori da ogni categoria. Una che prima di dormire legge qualche pagina di libri di matematica pura ma a cui piace cucinare per il marito.

Una che, durante la trattativa al Mise, si sedeva sotto al tavolo per non far ascoltare ai sindacalisti le telefonate che le arrivavano. Una che a volte, anzichè uscire con la borsa griffata usciva con un sacchetto della spesa in cui teneva un numero imprecisato di cellulari, sicuramente più di tre. Una che mentre parlava con l’allora ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, sistemava contemporaneamente il ricambio degli abiti per la notte piegandoli sulla scrivania, sotto gli occhi allibiti dell’allora Presidente della Regione Catiuscia Marini.

Ha messo a dura prova la pazienza e le abilità dei sindacati e molti oggi le rimproverano ancora il fatto che quella vertenza si sarebbe potuta chiudere in meno tempo e con meno fatica e sudore da parte di tutti.

«Quella non è una donna», sibilavano i dirigenti quando uscivano dal suo ufficio dopo l’ennesima riunione ad alta tensione. Errore, Lucia Morselli è una donna ma una donna pazzesca. Una a cui piace esclusivamente vincere, probabilmente molto più che a un uomo, come nel caso della sua personale scalata ad Arcelor Mittal. Come abbia fatto se lo stanno chiedendo ancora gli analisti di mezzo mondo ma sicuramente lei sa navigare nel mondo delle banche come pochi sanno fare e dietro c’è la spinta del potentissimo gruppo finanziario Elliot, che lei aveva incontrato in Tim.

Ovviamente intorno a una donna così, di pochissime parole, che per non farsi scovare dai giornalisti, non fidandosi di nessuno, faceva le riunioni nei posti più impensabili, inviando ai manager le coordinate gps del posto all’ultimo minuto, sono nate anche tante leggende: una casa a Montecarlo dove va a prendere il sole durante le uniche vacanze che si concede (probabilmente vero), una collezione di moto Ducati; una partecipazione finanziaria al film “La grande bellezza”; la sua presenza, nascosta fra il pubblico, alla prima del film sullo storico sciopero fatto a Terni, senza essere riconosciuta dagli operai che erano andati a vederlo. Di sicuro, tra le sue molteplici attività, è azionista del Chievo e quando era a Terni organizzò una partita di beneficenza a Rossano calabro, città Natale dell’allora questore Carmine Belfiore, con il ricavato devoluto alle popolazioni alluvionate.

Anche i suoi più feroci detrattori (e non sono pochi) le riconoscono almeno una qualità: incorruttibile. Morselli non accetta regali e non vuole che il suo staff familiarizzi con i politici di turno. Pubblicamente si concede pochissi vezzi: probabilmente solo un bellissimo paio di orecchini d’oro lunghi. Una volta, però, in cui fu pubblicata una foto in cui non era venuta bene inviò in redazione una decina di immagini in posa, da capitano d’azienda.

Alla fine l’accordo per le acciaierie fu trovato. Lasciò le acciaierie in buona salute – meno le aziende dell’indotto – ma, soprattutto, quasi del tutto svincolate dal potere locale, scardinando tutti gli appalti che erano in odore di legame con la politica. E, tutto sommato, alle successive elezioni amministrative, ci fu chi propose di chiedere a lei la disponibilità di fare il sindaco di Terni. Troppo poco per una insaziabile supermanager come lei. Che però, ora a Taranto, (dove troverà alcuni dei manager di Ast che in contrasto con lei avevano preferito lasciare Terni. Chissà cosa succederà!) si trova a gestire forse una delle crisi industriali più impegnative drammatiche e dolorose per il paese. E Taranto non è Terni.

Articolo di Vanna Ugolini per il Messaggero

MILENA DATAROOM

MILENA DATAROOM

ilva taranto 9

Ora che l’ Ilva ha una nuova proprietà, si può tirare una riga e fare i conti: qual è stato il «prezzo» del commissariamento? La storia dell’ azienda è piena di crocevia, colmi di speranze, poi

quasi sempre disattese.

Il primo bivio fu la scelta del quarto polo siderurgico italiano: dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli, si aprì Taranto. Il secondo bivio risale all’ inizio degli anni 90, quando il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert costrinse l’ Italia a scegliere fra Bagnoli e Taranto. Chiuse Bagnoli. Erano i tempi dell’ Ilva pubblica, quella che si chiamava Italsider.

gabanelli ilva 5Messa in liquidazione nell’ 88, diventa privata nel 1995. Se l’ aggiudicano i Riva con un’ offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superando i rivali del gruppo Lucchini.

L’ attività marcia fino al 26 luglio del 2012, quando l’ acciaieria viene messa sotto sequestro e i Riva arrestati. Le accuse della magistratura di Taranto per i vertici aziendali sono, a vario titolo, di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose.

Nel 2013 torna in mano pubblica con il commissariamento, nel 2015 arriva l’ Amministrazione straordinaria. Solo nel 2016 arriva il decreto per la vendita e nel 2017 l’ aggiudicazione alla cordata Am Investco, guidata da ArcelorMittal, nata dalla fusione della francese Arcelor e dell’ indiana Mittal, con quartier generale in Lussemburgo. E la storia si ripete: Ilva è di nuovo privata.

Per prendere possesso dell’ Ilva, però, ArcelorMittal ha dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’ offerta vincente, così articolata: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali, e un’ occupazione per 9.407 unità.

ilva taranto 8L’ accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ ultimo, arriva a 10 mila assunzioni, ma il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore, Luigi Di Maio.

La trattativa si è chiusa il 6 settembre scorso: ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i 3.100 lavoratori che nel frattempo restano in cassa integrazione sotto l’ Amministrazione straordinaria di Ilva. Se non accetteranno l’ incentivo all’ esodo (100 mila euro lordi) il costo complessivo potrà arrivare attorno a 400 milioni. Mentre l’ Amministrazione, entro i prossimi 5 anni, dovrà terminare i lavori di bonifica nell’ area fuori dallo stabilimento. Ma per fare questo basteranno non più di 400 lavoratori.

gabanelli ilva 6Quanto sono costati gli oltre 6 anni dell’ Ilva senza padrone in cui sono cambiati 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), 4 commissari (Enrico Bondi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi) e un subcommissario (Edo Ronchi)?

Nel 2015 Ilva ha perso 600 milioni, nel 2016 ne ha persi 300, nel 2017 di più, 360, e 200 nei primi otto mesi del 2018. In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’ Amministrazione straordinaria, a oggi, l’ Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Solo i due anni di ritardo per il passaggio ad ArcelorMittal (inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016) hanno pesato per circa 700 milioni.

Le perdite relative agli anni 2012-2014 ammontano invece a 2,18 miliardi, ed emergono dai numeri della data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’ interesse. Complessivamente, quindi, le perdite del dopo Riva sono state di 3,6 miliardi. Un salasso dovuto alla riduzione dell’ attività a seguito della chiusura dei forni più inquinanti, e una conseguente perdita di mercato.

ilva taranto 1Rimane il tema da cui tutto è partito: il disastro ambientale. In questi sei anni si è risanato pochissimo perché non c’ erano i soldi. Oggi a disposizione ci sono circa 2,2 miliardi. Chi li mette? Per metà la nuova proprietà, per l’ altra i Riva. La Guardia di finanza, grazie al filone milanese dell’ inchiesta, nel 2013 trova 1,7 miliardi, frutto di evasione e plusvalenze, nascosti in Svizzera, nell’ isola di Jersey e Lussemburgo.

Riesce a sequestrare 1,3 miliardi. Denaro che avrebbe dovuto essere investito nella copertura dei parchi minerali e nella gestione dei fanghi velenosi. I fondi, però, arrivano effettivamente nella disponibilità di Ilva solo a giugno 2017: 230 milioni vengono utilizzati per la gestione corrente, mentre i restanti 1.083 milioni sono vincolati al risanamento aziendale.

ilva taranto 7Il più urgente è proprio la copertura di quelle montagne di polvere di carbone e ferro all’ aria aperta che, nei giorni di vento, coprono il quartiere Tamburi di Taranto. Per evitarlo, l’ Autorizzazione integrata ambientale del 2011 prevedeva che i parchi minerali venissero coperti. I lavori sono partiti solo nello scorso febbraio e si concluderanno nel 2020.

Il costo previsto è di 300 milioni ed è a carico della nuova proprietà, ma la somma è stata anticipata dall’ amministrazione straordinaria di Ilva con i fondi sequestrati ai Riva. Si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’ azienda? La risposta è sì.

La responsabilità, in prima istanza, pesa sulle spalle dei ministri dell’ Ambiente, della Salute, i governatori della Regione Puglia, Arpa, magistrati, sindacati, che a partire dal ’95 (anno in cui lo Stato ha venduto l’ Ilva ai Riva) avrebbero dovuto imporre l’ adeguamento alle norme. Invece, mentre la proprietà accumulava soldi nei paradisi fiscali e a Taranto si moriva, hanno fatto finta di niente. Fino a quando non è più stato possibile.

ilva taranto 6                    ilva taranto 5

 

Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli per “Corriere della Sera – Dataroom”

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