L’IO NARRANTE

L’IO NARRANTE

Ho scritto su queste pagine la mia ammirazione per la cosiddetta generazione Alpha (sarebbero quelli nati nel XXI secolo, per chi, come me, faticasse a orientarsi) travolta in pieno dalla pandemia. Grazie a loro ci siamo salvati. Anziché pensare che il Covid li avrebbe risparmiati comunque dalle conseguenze più gravi, e che il viurs era un guaio soprattutto per adulti e anziani, si sono prima chiusi in casa e poi vaccinati. Per noi, e perché questo disastro finisse prima possibile. In questi due anni abbiamo visto menti eccezionali vorticare su se stesse, intelligenze prodigiose affannarsi, sbavare fiele. Cervelli che sembravano lavorare solo per mantenere la macchina accesa. Come un motore immobile, che produce solo gas di scarico. E poi abbiamo visto persone, la stragrande maggioranza, esercitare una forma superiore di ragionamento, quello basato sull’empatia. Persone che non si sono occupate solo del proprio cervello e delle sue strabilianti prestazioni, ma degli altri, della comunità. Vogliamo ringraziarli, questi ragazzi e ragazze, anziché prenderli a
manganellate in testa? Vogliamo cercare di capire come stanno prima che sia troppo tardi, dal momento che, prevedibilmente, i ricorsi a cure psichiatriche si stanno già moltiplicando? Per questa ragione, e perché non so fare nient’altro, ho deciso di proporre a Elisabetta Sgarbi, e alla casa editrice La Nave di Teseo, una collana di romanzi under 20. E a questo giornale di aiutarmi a lanciarla.

Pier Vittorio Tondelli

Nel 1985, lo ricorderete, Pier Vittorio Tondelli lanciò il progetto Under 25. Con due articoli pubblicati su Linus. «Scaveremo nei weekend, nelle sottoccupazioni, nei doppi lavori. Andremo presso i ladri di polli, i giovani artisti incantati, scenderemo sulle strade provinciali e comunali, incontreremo finalmente una marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, ubriaconi e struggenti». Si rivolge a loro, agli scarti come lui stesso le definisce. È una chiamata alla quale segue una spiegazione su quello che si aspetta da loro: «Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate. Astenetevi dai giudizi sul mondo in generale (ci sono già i filosofi, i politologi, gli scienziati ecc.), piuttosto raccontate storie che si possano oralmente riassumere in cinque minuti. Raccontate i vostri viaggi, le persone che avete incontrato all’estero, descrivete di chi vi siete innamorati, immaginatevi un lieto fine o una conclusione tragica, non fate piagnistei sulla vostra condizione e la famiglia e la scuola e i professori, ma provate a farli diventare dei personaggi e, quindi, a farli esprimere con dialoghi, tic, modi di dire. Descrivete la vostra città, esercitatevi a fare degli schizzi descrittivi su quel che vedete dalla finestra, dall’autobus, dall’automobile. Raccontate le vostre angosce senza reticenze piccolo borghesi, anzi «spandendo il sale sulla ferita». Dite quello che non va e quello che sognate attraverso la creazione di un “io narrante” che non deve, per forza di cose, essere in tutto e per tutto simile a voi. Iniziate a fingere, a dire bugie, a creare sulla carta qualcosa che parta dal vostro mondo, ma che diventi poi il mondo di tutti, nel senso che tutti noi che leggiamo possiamo comprenderlo». Scovò abbastanza scrittori e scrittrici da farne tre antologie Under 25. Tra loro, Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Gabriele Romagnoli, Andrea Canobbio, Romolo Bugaro. Rispetto ai consigli di Tondelli ho poco altro da dire, né intendo occupare il suo posto (quest’ultima frase, pleonastica, è a beneficio della frangia rintontiti sui social, ai quali è sempre meglio specificare con chiarezza, anche se questo, ovviamente, non eviterà che pavlovianamente mi insultino). La collana si chiamerà Tuffi e pubblicherà tre, quattro romanzi l’anno. Chi ha meno di 20 anni e un romanzo, o un racconto da cui partire, può mandarlo a me, presso la casa editrice La Nave di Teseo. E io lo leggo e, se mi interessa, chiamo. Facilissimo. Accanto a me ci sarà, come sempre, l’associazione Piccoli Maestri. Con loro – gli scrittori e le scrittrici con cui da dieci anni vado in giro per le scuole a parlare di libri – ragionerò sulle storie che mi manderete. Molti mi dicono che è una follia, che 20 anni sono troppo pochi per sapere scrivere un romanzo. Io penso di no.

Elena Stancanelli, La Stampa

RIMINI, RIMINI!

RIMINI, RIMINI!

Nell’anno delle vacanze autarchiche e distanziate, che nessuno ha ancora capito se saranno veramente vacanze, sulle orme di illustri predecessori letterari (Pasolini in primis), abbiamo deciso di raccontare questa strana estate italiana con un viaggio a tappe lungo le spiagge e i luoghi più famosi della costa della Penisola, in un periplo che partirà dalla Liguria e arriverà al Friuli Venezia Giulia. Qui le puntate precedenti.

E finalmente, dopo oltre duemila chilometri, eccoci nella nostra “Nashville patriottica e poliglotta”, dove un tempo si celebrava, parole di Pier Vittorio Tondelli, «la più ardente, improvvisata e autogestita carnevalata rabelaisiana cui sia possibile partecipare in patria. Per questo ogni anno si torna a Rimini: perché questo è l’unico luogo in cui è ancora possibile vivere e innestarsi nel continuum del romanzo nazionalpopolare». Oggi forse meno romanzo e più nazionalpopolare, meno effimera trasgressione nord europea più turismo di famiglia lombardo-veneto, con la pragmatica speranza – molto romagnola – di tamponare i danni e salvare una stagione.

Pier Vittorio Tondelli

«Non è per tutti, non è per tutti», grida una signora un tantino su di giri, attaccata alla grate del cancello che affaccia sul giardino del (fu) mitico Grand Hotel neanche fossimo a un concerto rock. Intorno una discreta folla di curiosi, i più morbosi con la speranza di visitare la suite 315, quella con le finestre affacciate sul giardino dove il regista romagnolo ammirava una “Rimini che non finisce più”. A Rimini il mito di Fellini resiste nell’immaginario, non sempre glorioso: l’hotel La Gradisca, la spa la Dolce Vita, il negozietto Amarcord e via a scendere. Quasi nessuno si ricorda che il ragazzone fuggì con una valigia di cartone appena dopo la maggiore età e che nella sfavillante riviera non girò neanche un fotogramma. Il mare d’inverno? A Ostia. La stazione di Rimini in Amarcord? L’ingresso di Cinecittà. Non era un capriccio, semplicemente il dato emotivo contava più della realtà. Quando Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia, osò posizionare un getto d’acqua davanti alla prua del Rex per dare l’impressione del movimento della nave, Fellini lo interrogò preoccupato: «Non sembrerà vera?».

Pier Vittorio Tondelli

Rimini però è sempre stata la città dell’accoglienza. Se l’era inventata quasi dal nulla, con il determinante contributo dei marchi tedeschi, Piero Arpesella, che negli anni del boom aveva trasformato il Grand Hotel, in passato anche alcova segreta degli amori del duce e Claretta Petacci, in un tempio di raffinata eccentricità, dove le signore «non prendevano mai l’ascensore ma scendevano le scale fino alla hall, esibendo i loro gioielli come in una passerella di Wanda Osiris».

Grand hotel Rimini

Il cavalier Arpesella fu uno dei primi a comprendere le potenzialità del turismo congressuale e a ragionare intorno al concetto di destagionalizzazione, a quei tempi poco più di una parolaccia. A lui e a suo figlio Marco, che alla fine dei Sessanta fondò “Promozione Alberghiera”, la più grande cooperativa turistica d’Italia, il Comune intitolerà a novembre, dopo qualche polemica con la famiglia, un giardino proprio dietro al Grand Hotel.

Ma a Rimini, e più in generale in riviera, l’industria principe è da sempre legata al popolo della notte. «La chiamano l’industria del sesso», scriveva Pier Vittorio Tondelli in Rimini, polifonico viaggio in una Romagna balneare trasformata in una sorta di Disneyland casereccia. Per cercare di capire cosa sia cambiato da allora Stefano Lucciola mi dà appuntamento al Garden bar di Riccione alla sette di mattina. Io appena sveglio, lui appena tornato da una serata di lavoro. «A Misano, al Villa delle Rose, oggi forse il miglior locale in Italia», racconta, «C’erano duemila persone, per via delle norme anti-Covid. Musica commerciale ma sopratutto trap, perché quest’anno gli italiani sono la maggioranza».

Misano, pista Villa della rose

Nonostante l’alba sia spuntata da poco qui è già tutto un gran baccano, come fossimo a Trastevere all’ora dell’aperitivo. Ci sono i buttafuori che hanno appena terminato il turno, tutti rigorosamente dell’est Europa – in questo lavoro la selezione è darwiniana – sedicenti Pr che discutono di strategie davanti a un caffè e ragazzi appena usciti dai locali e indecisi se tirarla ancora per le lunghe. Una ragazza che sta servendo al bar, ma che lavora anche alla discoteca Biblios, sentendoci conversare ci aggiorna che il Cocoricò, luogo simbolo della disco commerciale anni Ottanta, riaprirà a settembre.

Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti

Stefano è un veterano, uno dei pochi della vecchia guardia che è riuscito a rinnovarsi e a stare al passo con gli stravolgimenti dell’industria del turismo. «Il lavoro è cambiato completamente. Prima era un divertimento, tutto era semplice, oggi devi essere un professionista, curare ogni singolo aspetto alla perfezione, non basta più aprire un locale e aspettare che la gente entri». Negli anni è molto cambiata anche la gente della notte, la tipologia di clienti che si muove per locali in base a determinati interessi. Lo spiega più esplicitamente Stefano, a cui è rimasto un filo di accento romano: «Sono stato per anni davanti alla porta di un club. Un tempo, prima di entrare, ti chiedevano “C’è fica?” Oggi “Chi suona?”». Dà il segno del cambiamento, in effetti.

Maurizio Zanfanti, detto Zanza

Il club dove ha lavorato per una vita, prima come buttafuori poi in qualità di proprietario, era il Blow Up, l’ultima luce di Bellariva, leggendario locale dove nei gloriosi Ottanta centinaia di ragazze scandinave dopo aver attraversato mezza Europa si mettevano ordinatamente in fila pur di avere la chance di conoscere Maurizio Zanfanti, in arte Zanza, mitologico playboy romagnolo con oltre seimila donne conquistate, secondo la vulgata. Rigorosamente straniere, tendenzialmente svedesi. A uno sventurato che aveva osato chiedergli  se in questi rapidi incontri di amorosi sensi avesse l’abitudine di utilizzare il profilattico, aveva risposto con una curiosa metafora calcistica: «O si sta in campo o in tribuna».

«A Rimini dopo Fellini c’è Zanza. È sempre stato il numero uno, come Pr e come latin lover», racconta Stefano, facendosi scappare un sorriso, «Ha interpretato alla perfezione il prototipo del vitellone romagnolo. Ma non era uno che amava vantarsi, non gli piaceva la conta delle sue conquiste, erano gli altri a raccontare queste storie leggendarie». Una delle più quotate narra di un riminese in trasferta svedese che alla fine di una serata si ritrovò in camera di una giovane pulzella locale che teneva, sul comodino, una foto del nostro. «Una volta, era il ’95», ricorda Stefano, «con il Blow Up facemmo una promozione sulla Vicking Line, una nave da crociera che faceva la spola Svezia-Finlandia. Non appena salii a bordo trovai la fila di ragazze che ci tenevano a dirmi che erano amiche del Zanza». Maurizio Zanfanti se ne è andato due anni fa, e lo ha fatto – tutti a Rimini ne sono convinti – nell’unico modo in cui uno come lui se ne poteva andare. Forse meritava anche un premio, per la sua indiretta attività di promozione turistica, invece in un Paese bigotto e paternalista come il nostro, perennemente avvolto dal senso di colpa cattolico, gli fu di fatto impedito il funerale in Chiesa. Per aver passato la vita a fare il vitellone. A rendergli omaggio ci pensò la Bild, con un grande e articolato pezzo che titolava cosi: “Italienischer Papagallo machte amore mit 6.000 fräulein”. Non c’e’ bisogno di traduzione.

Giuliano Malatesta

Articolo di Giuliano Malatesta per rivistastudio.com

LA PAZZA GIOIA

LA PAZZA GIOIA

 

Paolo Virzì fonde ironia, buonumore e dramma in un on the road movie che guarda al mondo femminile con una sensibilità non usuale. La fuga strampalata e toccante di due ospiti di una comunità terapeutica, socialmente pericolose.
 

 

LA pazza gioia (paolo Virzì)

 

Le pazze non sono simpatiche, le pazze sono pericolose. Agli altri e a sé stesse, e lo sanno. La notte si rigirano, telefonano alle solite persone sbagliate, ingollano valium clandestino, tengono lontani i cattivi ricordi a botte in testa. Le pazze, potendo scegliere, guarirebbero stasera. Ci fosse una terapia, un lavoro socialmente utile, una scossa a centoventi volt – o tornare da papà, o tornare dal bambino, tornare indietro. Le pazze vorrebbero solo essere felici.

Da quand’è che Virzì non sbaglia un film? Una volta capitava anche a lui. Ma dopo N è come se avesse ingranato una marcia diversa: da lì in poi una serie positiva che fa quasi sgomento. Persino La pazza gioia, quante possibilità aveva di raccontare la malattia mentale senza indulgere al pietismo, senza inveire contro strutture coercitive che in effetti non esistono più, senza trasformare le sue matte in eroine depositarie di una Verità Più Profonda, sconosciuta ai sani di mente? I trailer alimentavano i peggiori timori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti che fanno le matte, scappano in decappottabile e si divertono. Sta a vedere che Virzì ha sbagliato un film – beh, prima o poi doveva succedere. Via il dente, via il dolore.

“Il cinema italiano, non so se si rende conto”.

Salvo che, ovviamente, La pazza gioia non è quel tipo di film. È una storia di matte che cercano la felicità, perché l’alternativa è l’elettrochoc, o buttarsi di sotto. Non sono simpatiche, non cercano la tua pietà, se potessero metterti le mani nella borsetta non ci penserebbero due volte. Se avessi letto di loro nelle pagine di cronaca, avresti scosso la testa e invocato il manicomio criminale; se stai piangendo da mezz’ora, è perché Virzì, maledetto, ci è riuscito anche stavolta. Con un senso dell’equilibrio che non ha paragoni in Italia, una mano mai tanto salda – sarebbe bastata una sbavatura, una parola di più, una caratterizzazione appena appena più marcata, una concessione a quei bozzetti grotteschi che una volta erano il suo punto di forza. Il confine tra commedia e tragedia è una lama su cui le protagoniste saltellano senza cascare veramente mai.

 

Si intuisce, dietro, un lavoro di osservazione quotidiana, di riflessione sulla malattia, che solleva il film di svariate lunghezze sopra ogni altro recente tentativo di fare cinema intelligente. Quando a un certo punto compare, in un mezzo secondo, il volumetto Einaudi di Un tram chiamato desiderio, più che una strizzata d’occhio ha tutta l’aria di un’ammissione: Virzì e Francesca Archibugi non hanno bisogno di citar nomi importanti per ricordare al pubblico di essere colti, ma nemmeno possono fingere che nel personaggio della Bruni Tedeschi non riviva il fantasma di Blanche. La Ramazzotti invece è una nuova Maria Farrar, l’infanticida di Brecht che nessuno ha voluto aiutare. Intorno a loro le figure maschili sono più evanescenti del solito: ex amanti, padri e mariti non hanno più nulla da dare, se mai hanno dato qualcosa. Per Virzì e per le sue attrici era forse il film più difficile, il passo falso che gli avremmo perdonato. Niente da fare, neanche stavolta. Tocca aspettare il prossimo.

Articolo di LEONARDO TONDELLI, apparso il 20/05/2016 sul sito ww.piueventi.it/blog/post/256721/le-pazze-non-sono-simpatiche#1

 

 

 

 

Contact Us