LA MARCETTA SU CAPITOL HILL

LA MARCETTA SU CAPITOL HILL

Non sono un analista politico, tanto meno di politica americana. Ma qualcosa va detta. Così la pensa Geppetto.

Quanto avvenuto il 6 gennaio a Capitol Hill è chiaro: una folla di “orgogliosi”perdenti, istigati dal loro egocentrico capo, hanno clamorosamente fatta la “marcetta su Washington”, infranta la legge, intimorito i rappresentanti del popolo, riuniti per confermare la vittoria di Joe Biden. La descrizione di fatti così palesi è incontrovertibile.

Ciò che deve preoccupare è riassunta nella domanda: siamo alla fine di un’esperienza politica fallimentare e pericolosa, o all’inizio di una diversa fase che, in forme ancora più virulente di delegittimazione, prepara il tramonto della democrazia americana? Uno sfregio, come dice Obama, o una ferita mortale?

Ma esiste una seconda domanda: gli USA saranno solo i primi? Oggi le democrazie non cadono in una sola volta, ma un pezzo dopo l’altro: avete presente la Russia, la Turchia, il Venezuela, e l’elenco è lungo.

Tutto si gioca nel breve lasso di tempo che intercorre da qui fino al 20 gennaio, quando Trump dovrà fare le valigie, più nolente che volente. L’atteggiamento della Guardia Nazionale e delle forze di polizia, al momento, sembra essere di lealtà e rispetto della Costituzione, come da tradizione. La presa di posizione negativa unanime del mondo dell’economia rassicura, la Borsa di N.Y. ha retto bene. Ciò non dovrebbe permettere a Trump di usare la forza e sovvertire l’ordine costituito. Ma occorre una risposta costituzionale, istituzionale, pubblica.

Vediamo due possibili scenari: una risposta forte e immediata delle istituzioni politiche a Trump e ai suoi sostenitori, con accuse che mettano il riccone fuori gioco. Oppure non prendere iniziativa alcuna, a parte le esecrazioni a mezzo social e aspettare di vedere cosa succede nel frattempo e dopo il 20 gennaio

Nel primo caso si dice che si farebbe di Trump un martire. Ma non lo è già per chi lo sostiene? Il pallino in questo caso sarebbe in mano al partito repubblicano: intenderà rimanere all’ombra di Trump e seguirlo nell’avventura, oppure (meglio tardi che mai) lo mollerà per girare pagina, sperando di conservare agli occhi degli americani moderati, ma non reazionari, un minimo di credibilità?

Non prendere iniziativa sarebbe, invece, come registrare la febbre e non volere ammettere di essere malati. E’ l’ipotesi peggiore. Non è qui il caso di ricordare fatti e storie del passato in cui chiudere gli occhi ha solo aggravato le cose.  L’inazione, il minimizzare schernendo, il pensare che la democrazia stia in piedi per inerzia, permetterebbe a un Trump impunito di provarci ancora, di continuare ad essere al centro della politica americana, condizionare la presidenza Biden e, forte del consenso di 72 milioni di americani, fagocitare il partito repubblicano, e perché no di farsi un suo partito, nazionalista e reazionario. Il tardivo riconoscimento della vittoria di Biden fatto ieri da Trump potrebbe andare in questa prospettiva. Ciò cambierebbe radicalmente lo scenario in USA e nel resto del mondo. In peggio. Vedremo come andrà a finire, incrociamo le dita.

IN IRAN IL DADO E’ TRATTO?

IN IRAN IL DADO E’ TRATTO?

Il presidente Tramp che per mesi si era opposto ai “falchi” che volevano la guerra all’Iran, uccidendo il generale Soleimani di fatta l’ha dichiarata: decisione solo sua?

CIRCOSTANZIATA E PREOCCUPATA ANALISI DA NEW YORK DI STEFANO VACCARI, DIRETTORE DELLA VOCE DI N.Y. GIORNALE IN LINGUA ITALIANA.

Il 3 gen 2020 Donald Trump dice agli americani di non voler la guerra e di non cercare il “regime change” a Theran, ma l’ha praticamente dichiarata la guerra con il suo ordine di “terminare” il generale Qasem Soleimani. A questo punto è fondamentale capire quanto abbiano pesato sulla decisione della Casa Bianca i fattori interni (impeachment e elezioni) esterni (Israele, Arabia Saudita….), se sia stato calcolato l’atteggiamento della Russia (Putin ci guadagnerebbe ancora una volta?), e se alla fine Trump sia veramente convinto che possa ancora evitare in tempo una guerra tanto imprevedibile e fallimentare quanto una puntata d’azzardo sulle roulette dei suoi casinò.

“Megghiu lu tintu conusciutu, calu bonu a conusciri ”.

(Proverbio siciliano: Meglio il cattivo che si conosce che il buono che si deve ancora conoscere).

Il generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso giovedì notte a Baghdad da un attacco di droni ordinato dal presidente Donald Trump (Foto Mahmoud Hosseini/Tasnim News Agency)

Peccato che Donald Trump non conosca il siciliano, lingua imperniata di pessimismo ma che avvolte serve. Forse lo avrebbe aiutato nel ponderare meglio la decisione di quando ha dato l’ordine di polverizzare con un drone il Generale iraniano Qasem Soleimani.

Non era un buono Soleimani, anzi probabilmente un “tintu,” però sicuramente molto conosciuto e, quindi, più prevedibile. E’ vero, in tanti anni aveva reso un inferno la permanenza di truppe americane in Iraq. Tant’è che Trump, in campagna elettorale, aveva capito e promesso che le avrebbe riportate a casa… Ma di colpo il presidente USA, invece, decide di far fuori quel “cattivo” al quale era stato permesso per anni di entrare e uscire dall’Iraq a piacimento: perché oggi un missile lo incenerisce e non due anni fa? Forse per lo stesso motivo per cui George W. Bush, quando glielo avevano messo nel mirino già nel 2006, decise di tenersi “lu tintu conusciutu”

Trump doveva saper bene, prima di prendere la decisione, che Soleimani, anche se a capo di una forza militare messa dal Dipartimento di Stato nella lista “terroristica”, non era uno di quei capi di organizzazioni “extra-nazionali” tipo Al Qaeda o Daesh, quelle da nessuno riconosciute come entità statali. Soleimani era la figura più importante e carismatica delle forze militari dell’Iran,  uno stato sovrano, membro dell’ONU e che oltre essere tra le più antiche nazioni della terra, resta tra le più armate del mondo. Uccidere quindi il suo top general in Iraq, insieme ad un altro leader militare iracheno, non è certo come colpire con un drone il capo dell’ISIS  nascosto in Siria o di Al Qaeda in Pakistan.

Ma Trump, nella scottante roulette mediorientale, ha lanciato una puntata da giocatore d’azzardo: uccidere il generale Soleimani equivale praticamente ad una dichiarazione di guerra.

Trump e la guerra con l’Iran nell’illustrazione di Antonella Martino

La giustificazione di Trump, con l’eco del Pentagono e del Segretario di Stato Mike Pompeo, che sarebbe stata una mossa “preventiva di difesa” perché Soleimani stava pianificando attacchi contro gli americani, non cambia la sostanza:  sarebbe quindi stato un attacco di guerra “preventivo”, di quelli “a sorpresa”, come Israele fece ad esempio nel 1967 contro l’Egitto di Nasser… 

Ma quando Trump poi dichiara che “non vuole la guerra”, che a lui piace la pace, che spetta all’Iran decidere, e lo ripete davanti ai giornalisti? A noi appare un controsenso, o fumo sulla verità,  o meglio fake news: la guerra è stata già scelta dagli USA di Trump, ora agli iraniani restano solo due scelte: la resa senza condizioni (impossibile), o ufficializzarla la guerra con una ritorsione ormai inevitabile.

Chi ha “consigliato” Trump prima di prendere la decisione, ha spiegato al presidente che autorizzando l’attacco contro Soleimani, stava dichiarando guerra all’Iran? Facendo forse al claudicante regime iraniano, in questo momento, anche un favore?

A quanto pare, almeno intuiamo dalle dichiarazioni del Pentagono, non sarebbe provenuto dai militari il “consiglio”, ma sarebbe stato direttamente un “ordine” del Presidente di colpire, ordine efficacemente eseguito. Almeno questo ci sembra capire dalla dichiarazione che il Pentagono ha agito “under the direction” del presidente.

Per quanto riguarda il favore… Il regime iraniano era da tempo sotto pressione per via di proteste sparse sia in Iran che in Iraq: ora, nel “clima di guerra”,  potrà soffocarle come meglio vuole, tacciando chiunque scenda per strada a protestare il regime di convivenza col nemico.

Ma chi ha consigliato Trump, una volta che il falco Bolton se ne era andato proprio perché il presidente, mesi fa, aveva resistito di dare l’assenso ad una escalation militare per reagire agli iraniani che avevano abbattuto un drone e colpito una petroliera?

Mentre tutti gli alleati europei compresi, e fate molta attenzione, gli inglesi di Boris Johnson, fanno dichiarazione allibite per non essere stati informati dalla Casa Bianca e dichiarano che una guerra va contro i loro interessi, ecco che gli unici governi che applaudono a Trump, sono l’Israele ancora manovrata da Netanyhau e l’Arabia Saudita killer di giornalisti… Può essere stata la “strana coppia” israelo-saudita ad aver spinto Trump? O invece pesa più il nervosismo presidenziale per l’impeachment del Congresso? Quanto può aver giocato nella frenesia trumpiana di premere il grilletto per sentire “il calore patriottico” del suo elettorato, in un momento in cui è sotto accusa di essere “un traditore” degli interessi nazionali dell’America?

Ma andiamo al nocciolo della questione in cui Trump ci porta tutti all’inizio del 2020: cosa succederà ora con la guerra?

Dopo tre giorni di lutto nazionale dichiarato dal supremo leader iraniano Ali Khamenei,  arriverà la risposta di Teheran. Gli obiettivi possibili della furia iraniana sono tanti, ma quello che sembra il più probabile e pericoloso, si trova davanti casa loro, nel Golfo Persico. Lì i missili iraniani potrebbero colpire obiettivi americani e occidentali  (leggi petroliere) e far schizzare ancora di più in alto il prezzo del petrolio. Tutto questo negli stessi giorni in cui la Turchia di Erdogan (che con l’Iran ha buoni rapporti) ha deciso di inviare truppe in Libia… Avete inteso quindi? Ecco che dal Golfo Persico al Golfo della Sirte, il mondo rischia tra poche settimane l’inferno, soprattutto per quanto riguarda l’industria petrolifera. E indovinate chi è il vaso di coccio che pagherà subito le conseguenze dei prezzi energetici alle stelle?

Il presidente USA Donald Trump nell’illustrazione di Antonella Martino

Già il petrolio. Ecco che una crisi tra USA e Iran, converrà a chi fa soldi col petrolio mentre si rischia di incendiare i pozzi. Quindi a perderci sicuramente sarà l’Italia e tutti quei paesi “dipendenti”, a guadagnarci subito invece ci sarebbe… Ma guarda un po’, una di sicuro sarà la Russia di Putin. Proprio quel petrolio russo così difficile da estrarre e quindi troppo caro per fare affari in tempi normali, ecco che quando il prezzo schizza in alto diventa una fonte di guadagno fondamentale per le casse bisognose di Mosca.

Ma la Russia non era una alleata dell’Iran? Alleata, che parola grossa. Diciamo che negli ultimi anni i due paesi sono guidati da regimi con “interessi” quasi coincidenti. Anche nel caso di una guerra tra Iran e Usa, Putin farebbe un sacco di affari non solo col petrolio che schizza su, ma nel vendere ancora altre armi necessarie agli iraniani per colpire le navi nel golfo e le basi americane in Iraq… Ma la guerra non sarebbe troppo destabilizzante anche per gli interessi russi in Medio Oriente? Dipende. Una grande guerra sicuro. Ma una contenuta, che non si allarghi ai suoi immediati interessi (Siria) e soprattutto una guerra dove poi la Russia possa giocare il ruolo del mediatore pacificatore indispensabile… Certo, anche la Russia rischia, tutti rischiano con le guerre. Però in questo momento è proprio Putin. potenzialmente, quello che almeno agli inizi si potrebbe avvantaggiare di più.

Ecco che quindi Trump non fa altro che aver messo nel vassoio mediorientale dello zar Putin un’altra sua decisione che rafforza lo status della Russia. Questa volta, non ci resta che sperarlo come minore dei mali, forse senza capirlo…

PS 1: Ma a Trump nessuno ha ricordato cosa accadde agli americani in Libano nel 1983?

PS 2: Il Congresso sta verificando che sia nei poteri presidenziali ordinare di uccidere un generale di un paese membro dell’ONU che sta visitando un altro paese membro dell’ONU senza che ci sia una dichiarazione di guerra?

PS 3: E il Consiglio di Sicurezza dell’ONU? Come mai, almeno la Russia non lo ha subito convocato d’urgenza ieri? Lo farà… già certo che lo farà, ma con calma…

PS 4: Intanto venerdì l’ambasciatore dell’Iran alle Nazioni Unite Majid Takht Ravanchi ha comunicato formalmente, con una lettera al Consiglio di Sicurezza e al Segretario Generale Antonio Guterres, che il suo paese si riserva del diritto “to self-defense under international law”, di difesa secondo i dettami della legge internazionale, dopo che gli USA hanno ucciso il generale Qassem Soleimani, top commander della forza  Quds della Revolutionary Guards dell’Iran.

Visti da New York di Stefano Vaccara

IL MONDO FATTO A NAZIONI

IL MONDO FATTO A NAZIONI

Una scelta coraggiosa dell’ editore Rubbettino propone finalmente ai lettori italiani la traduzione del volume Nazionalismo banale, scritto dallo psicologo sociale britannico Michael Billig più di due decenni fa. La pubblicazione colma una lacuna nello scaffale degli studi più influenti prodotti in quegli anni attorno al fenomeno storico delle nazioni, assieme alle opere di Eric Hobsbawm, Benedict Anderson, Ernest Gellner tra gli altri.

MICHAEL BILLIG

MICHAEL BILLIG

La tesi di Billig, esposta con buona dose di provocazione e humor, è che la persistenza del nazionalismo nella storia non sia da addebitare tanto alle fasi in cui esso è più rumoroso e distinguibile nel dibattito politico, quanto a quelle in cui la sua riproduzione quotidiana è affidata a simboli e rituali talmente innocui e abituali da passare ormai inosservati. È questo, conclude Billig, che fa considerare implicitamente il «mondo di nazioni» nel quale siamo abituati a vivere come un ordine naturale senza alternative.

Uscito a metà degli anni Novanta in piena dissonanza con la retorica della «globalizzazione» come cifra della storia, Nazionalismo banale acquisisce una valenza persino profetica ai nostri giorni, in cui preoccupanti espressioni di un nazionalismo oltranzista, ancorché declinato in termini differenti a seconda dei contesti, tornano a condizionare il dibattito e le scelte della politica. Dell’ attualità delle sue tesi e della nuova ondata nazionalista «la Lettura» ha discusso con l’autore.

MICHAEL BILLIG - NAZIONALISMO BANALE

La copertina di Nazionalismo banale di MICHAEL BILLIG

Professor Billig, quando «Banal Nationalism» fu pubblicato più di vent’anni fa, Francis Fukuyama e altri come lui presentavano la «globalizzazione» come fine della storia, e dunque anche del nazionalismo. Il suo libro al contrario avvertiva non soltanto come quest’ultimo stesse sopravvivendo sotto la superficie, ma che proprio le nuove divisioni sociali generate dalla globalizzazione rischiavano di alimentarlo. L’attuale rinascita del nazionalismo conferma la sua tesi o siamo di fronte a un fenomeno nuovo e imprevedibile?

«La tesi di Banal Nationalism era che, finché continueranno a esistere gli Stati nazionali, esisterà anche il nazionalismo, perché l’ideologia del nazionalismo include quelle credenze e pratiche che fanno sembrare il mondo degli Stati nazionali come assolutamente normale. Quel mondo ha continuato a esistere; di conseguenza, non dovrebbe sorprendere che altrettanto abbia fatto il nazionalismo.

Certamente quest’ ultimo può assumere forme diverse, dai movimenti improntati a un “nazionalismo caldo”, votati a cambiare le frontiere o a perseguire un’ interpretazione aggressiva dell’ interesse nazionale, alle forme “fredde” che all’ apparenza sembrano meno ortodosse, ma si fondano comunque sugli interessi degli Stati nazionali.

trump e obama

I presidenti USA Trum e Obama

Dunque non direi che il fenomeno sia rinato, dal momento che non è mai scomparso. È sempre stato sul punto di erompere, ad esempio durante l’invasione statunitense dell’Iraq o nei conflitti per dar vita a nuovi Stati nazionali in seguito al crollo dell’impero sovietico. Donald Trump può aver guadagnato elettori con lo slogan make America great again, ma i suoi predecessori, incluso Barack Obama, hanno normalmente definito gli Stati Uniti come “una grande nazione” e hanno appuntato piccole bandiere sulle loro giacche. Indubbiamente la situazione odierna è imprevedibile, ma questo non significa che siamo di fronte a qualcosa di interamente nuovo. Di certo possiamo prevedere che lo Stato nazionale non sia destinato a scomparire. vent’anni fa alcuni “globalisti” ci credevano: oggi sono davvero in pochi».

Lei insiste sull’origine dialettica del nazionalismo, sulla «tradizione dell’argomentare» che lo sostiene, sul discorso politico come elemento fondamentale della sua riproduzione quotidiana. I nuovi media e l’informazione digitale hanno cambiato questi processi di costruzione dialettica e in generale l’espressione del nazionalismo?

«Ogni ideologia si fonda su una tradizione dell’ argomentare. Nel caso del nazionalismo, ciò include una fede professata apertamente nel carattere della “nostra” nazione come delle altre. Il nazionalismo include anche assunti che sono dati talmente per scontati da venire raramente giustificati o criticati.

Oggi il mondo degli Stati nazionali è considerato normale, “naturale”. I movimenti politici possono dichiarare che alcuni specifici Stati nazionali debbano esistere o meno, ma raramente oggi qualcuno sostiene che non debbano esistere gli Stati nazionali in quanto tali. Questo è il contesto nel quale operano i nuovi media.

Certamente essi hanno un’influenza enorme sulla comunicazione moderna e ne hanno promosso il carattere transnazionale. Tuttavia, non credo che essi stiano erodendo gli stessi confini nazionali e che stiano favorendo l’emersione di un tipo completamente diverso di universo politico, fondato su comunità globali. Certamente non si può escludere che in futuro le comunicazioni globali spingano gli Stati nazionali a scomparire, ma al presente i due fenomeni sembrano coesistere».

«Populismo» è la categoria oggi più discussa da scienziati politici ed esperti in generale per inquadrare l’ ascesa in Occidente di nuovi movimenti fondati su una retorica identitaria, etnica ed escludente («noi contro loro»). Che rapporto c’è tra il nazionalismo tradizionale e il populismo odierno?

populisti d europa riuniti

Populisti europei riuniti

«È facile considerare il populismo come qualcosa di completamente nuovo, ma ci sono continuità con il passato. Trump, ad esempio, sembra avere uno stile molto diverso dai predecessori e fa appello a chi si sente escluso dalle cosiddette élite. Eppure ha dei precedenti. Per esempio Trump condivide molte caratteristiche personali e politiche con Silvio Berlusconi.

In Europa abbiamo visto una crescita di antieuropeismo, ma certamente in Gran Bretagna ce n’ era molto anche cinquant’ anni fa, soprattutto a sinistra. Ciò a cui assistiamo può essere pericoloso, ma non interamente nuovo, almeno nello specifico dei singoli casi. Tuttavia, ciò che può essere diverso è la crescita simultanea di politiche populiste in così tanti posti diversi – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svezia, eccetera. Ovunque volgiamo lo sguardo nel mondo economicamente sviluppato, vediamo l’ esistenza di movimenti populisti che danno voce ostentatamente a richieste nazionaliste».

Populismo webLei esorta il lettore a notare «lo sbandieramento costante del nazionalismo», anche in tempi in cui il fenomeno è dissimulato. Oggi i simboli del nazionalismo sono mostrati in modo aggressivo contro l’immigrazione, la «tecnocrazia europea», i complotti di nemici invisibili e quant’ altro. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento delle élite culturali o semplicemente dei cittadini consapevoli per affrontare questa tendenza?

«In realtà, la tesi di Banal Nationalism non è che i simboli del nazionalismo siano dissimulati, ma che al contrario essi siano sempre apertamente visibili – come lo sono sugli edifici pubblici, sui francobolli, sulle banconote che spendiamo. Questi simboli sono talmente evidenti da non essere nemmeno più notati, in quanto costituiscono lo scenario comune del mondo in cui viviamo indipendentemente dalla nostra appartenenza nazionale. Oggi le forze populiste sventolano consciamente e deliberatamente le bandiere nazionali, specialmente quando fanno campagna contro immigrati e stranieri.

populismoChiedersi cosa possano fare le “élite culturali” ci porta forse a confrontarci con una parte del problema: forse le élite non possono risolverlo perché potrebbero essere parte del problema stesso. Il senso di disaffezione di chi si sente trascurato è reale. Talvolta la disaffezione ha una dimensione regionale, in quelle aree in preda al declino industriale e agricolo che si sentono dimenticate dalle cosiddette élite metropolitane.

Potrebbe non essere un caso che la crescita del populismo e il nazionalismo apertamente aggressivo prendano piede in una fase di incremento delle diseguaglianze sociali ed economiche. Le nazioni dell’ Occidente sono sottoposte a tensioni nel momento in cui i super-ricchi lo diventano ancora di più mentre i poveri vivono tempi di crescente insicurezza. È un processo che non sembra limitarsi a poche nazioni».

Esistono soluzioni praticabili per uscire da queste difficoltà delle democrazie contemporanee?

«Se questa analisi è corretta, allora possiamo concludere che il neoliberismo globale sta producendo la reazione del populismo nazionale. La soluzione è almeno in parte economica. Il divario tra ricchi e poveri dovrebbe essere fortemente ridotto, innanzitutto con la tassazione, con una distribuzione più equa della proprietà e con una sicurezza lavorativa ben maggiore per chi è più indifeso. Se questo dovesse accadere, allora le società o piuttosto gli Stati nazionali diventerebbero più omogenei economicamente e quindi socialmente. A quel punto, le tensioni che oggi sembrano così pericolose potrebbero iniziare a scemare».

Articolo di Giovanni Bernardini per “la Lettura – Corriere della Sera”

 

 

LA CORONA DI MONÒMACO

LA CORONA DI MONÒMACO

ALLA RICERCA DELL’IDENTITA’ RUSSA, IN UN IMMENSO TERRITORIO ABITATO DA CENTO POPOLI- I CONFINI DELLA RUSSIA RESTANO UN PROBLEMA APERTO- IL POTERE DI PUTIN MAI COSI’ ASSOLUTO MINACCIATO DALLA STAGNAZIONE ECONOMICA -IL SUMMIT FRA PUTIN E TRUMP DEL 16 LUGLIO RESTITUIRA’ ALLA RUSSIA IL RUOLO DI GRANDE POTENZA CUI AMBISCE? COSI’ LA PENSA LUCIGNOLO.

 

“Ovunque ci troviamo, c’è sempre una Russia, a est , a ovest , a nord o a sud – ma ci abita l’orso russo . Non è un caso se l’orso è il simbolo di questo sterminato paese. Vive là, a volte in letargo, a volte ringhioso, maestoso, ma feroce “.

 

Caterina II

La Russia è il paese più grande del mondo (due volte gli Stati Uniti o la Cina, cinque volte l’India , venticinque volte il Regno Unito ), ma ha una popolazione limitata a 144 milioni di persone – meno della Nigeria o del Pakistan. Pur con un’economia grande come quella della Spagna, continua però ad essere una superpotenza militare e mondiale.

La Russia, “un rebus avvolto nel mistero che sta dentro un enigma. Ma forse c’è una chiave: l’interesse nazionale russo” a detta di Churchill.

Quali allora le chiavi per capire la Russia?

La geografia è la prima ed assoluta chiave di spiegazione della Russia.

È tutta una pianura, e quindi indifendibile.

Incendio di Mosca nel 1812, durante l’invasione napoleonica

La Russia come concetto risale al IX secolo ed a una prima federazione di tribù della Slavia orientale, nota come Rus ’ di Kijev nell’odierna Ucraina. I mongoli attaccavano continuamente la regione da sud e da est, per poi occuparla nel XIII secolo. Allora quella Russia embrionale si trasferì a nord – est e intorno alla città di Mosca.

Il Gran Principato di Moscovia – si chiamava così – era indifendibile. Non c’erano montagne, non c’erano deserti e i fiumi erano pochi. Era tutta una pianura, e al di là della steppa, verso sud e verso est, bivaccavano i mongoli. L’invasore poteva avanzare a suo piacimento, e c’erano poche postazioni difensive naturali in cui trincerarsi

Senza parlare dei mongoli (e dei turchi loro parziali successori) non è andata meglio al confine occidentale.  I russi sono stati invasi dai polacchi a inizio ‘600, dagli svedesi agli ordini di Carlo XII ad inizio ‘700 , da Napoleone ad inizio ‘800, e dai tedeschi due volte  in entrambe le guerre mondiali. Considerando tutti i conflitti i russi hanno combattuto mediamente ogni trentatré anni nella pianura nordeuropea o nelle sue vicinanze.

Da qui l’esigenza e poi l’imperativo, perseguito per secoli, da Ivan il terribile in poi, dell’attacco come difesa. Prima cementare in modo assoluto il potere in casa e poi espandersi all’esterno per creare delle zone di difesa sempre più ampie intorno a sé. Spietatezza e visione strategica.

In quest’ottica di sopravvivenza e di imperialismo i Romanov (a prescindere dalla tragica fine del loro ultimo discendente) sono stati la dinastia di maggior successo della storia. L’ ultimo zar regnava su un sesto della superficie terrestre. Si stima che dopo la loro ascesa al trono l’impero si sia ingrandito di 140 km quadrati al giorno, ossia di 50.000 km quadrati all’anno. Dove veniva versato sangue russo, quella doveva diventare Russia.

Lenin in campagnia dello stato maggiore bolscevico a Mosca

Solo la sua espansione ha reso la Russia inattaccabile. Il confine occidentale è largo più di 3000 chilometri, ed è tutto pianeggiante fino a Mosca e anche oltre; anche con un grande esercito sarebbe quasi impossibile difendersi in forze al suo interno. Ma la Russia non è mai stata conquistata grazie alla sua profondità strategica. Quando un esercito arriva in prossimità di Mosca, ha già linee di rifornimento insostenibilmente lunghe: un errore che commise Napoleone e che ripeté Hitler. Analogamente nell’Estremo Oriente russo è la geografia che protegge il paese. È difficile portare un attacco dall’Asia alla Russia asiatica; non c’è molto da attaccare tranne la neve, e si potrebbe arrivare solo fino agli Urali.

Come tutte le grandi potenze, la Russia ragiona nella prospettiva dei prossimi cento anni.

Così si può comprendere la perdurante diffidenza nei confronti dell’Europa e l’interesse a dividere le fila dei nemici occidentali con ogni mezzo, in passato coi matrimoni dinastici ed alleanze variabili, oggi anche foraggiando i populismi e l’antieuropeismo.

San Pietroburgo

La mancanza di un porto in acque temperate affacciato direttamente sugli oceani è poi sempre stato l’altro tallone d’Achille della Russia e la sua fissazione, perché riveste la stessa importanza strategica della pianura nordeuropea. Nel proprio testamento Pietro il Grande suggeriva ai suoi discendenti di avvicinarsi il più possibile a Costantinopoli e all’India. Le rotte marittime a nord, quando non gelate, costeggiano tutti stati nemici. L’imperativo era avere un porto a sud per la marina navigabile tutto l’anno. Da qui l’assoluta importanza della Crimea, la sventurata guerra in Afghanistan, e la guerra in Siria per avere un porto nel Mediterraneo.

Lo spirito di sopravvivenza si è sostanziato, come detto, in due imperativi: espandersi all’esterno e cementare il potere all’interno (perché una nazione divisa non avrebbe avuto scampo).

Quanto all’accentramento del potere la Russia ha sempre incarnato la parabola del potere più assoluto.

Presso tutti i governi un sicario non può mai mancare, e la storia russa in proposito ne è l’esempio massimo. Ma non tanto la brutalità viene addebitata al tiranno quanto la brutalità incoerente.

Putin in un fotomontaggio in compagnia di Hitler

Il potere assoluto ha le sue controindicazioni. Non essendoci un’opposizione ufficiale, il prezzo del fallimento è sempre stata la morte. Ciò fa sì che i tiranni longevi siano personalità eccezionali o addirittura geni politici, come Pietro il Grande e Caterina.

L’imperatore deve infatti contemperare tutti gli interessi, perché un pugnale alle sue stesse palle è sempre pronto. Dovevano essere contemperati gli interessi della nobiltà, dell’amministrazione e dell’esercito dagli zar ( csar, da Caesar, imperatore) in passato.  Gli interessi dell’esercito, dell’amministrazione e del partito dai segretari del Pcus. E di nuovo gli interessi dell’esercito, dell’amministrazione e della corte di oligarchi da Putin ora.

Oligarchi che hanno preso il posto della nobiltà di un tempo e delle élites del partito, perché la vicinanza al sovrano si tramuta sempre in potere. L’imperatore non ha una dimensione personale, tutto è pubblico, e chiunque entri in contatto con la corte viene avvolto in un filo d’oro, indissolubile e potenzialmente strangolante.

Mosca, piazza Rossa in un fotomontaggio fiabesco, dai colori irreali

Può essere questa una rappresentazione aliena a menti come le nostre, nutrite di democrazia rappresentativa. Ma il contratto politico che ogni governante russo ha inderogabilmente dovuto rispettare è stato sempre questo: sicurezza all’interno e grandezza all’esterno, in cambio del predominio di un solo uomo e della licenza per lui e per la sua corte di arricchirsi enormemente e di condurre vite al di là di ogni limite.

Wladimir Putin e Donald Trump: il loro incontro ad Helsinki è assai atteso e potrebbe cambiare l’assetto geopolitico del mondo

Quindi dal Gran Principato di Moscovia, passando attraverso Pietro il Grande e Stalin per arrivare a Putin, ogni leader russo si è dovuto misurare con gli stessi problemi. Non conta se l’ideologia di chi guida il paese è zarista, comunista, o neocapitalista: le acque dei porti continuano a gelare, e la pianura nordeuropea è sempre piatta.La cartina geografica che aveva sotto gli occhi Ivan il Terribile nel XVI secolo è la stessa che ha di fronte oggi Vladimir Putin, ed i ragionamenti che ne conseguono sono sempre gli stessi.

Ed ancora il contratto politico stipulato con la nazione russa, ed i modi di adempiere ad esso, continuano ad essere gli stessi di sempre.

Bibliografia:

Tim Marshall. Le 10 mappe che spiegano il mondo. Garzanti.

Simon Sebag Montefiore. I Romanov. Mondadori.

In copertina: Marc Chagal: Villaggio russo sotto la luna (1911)

 

Guida o gendarme del mondo?

Guida o gendarme del mondo?

Obama-Putin

Incontro di vertice Obama e Putin

 

Geppetto aveva già commentato a caldo (intra: Guerra o non guerra, questo è il problema?) il discorso del presidente USA Obama alla nazione americana, l’ultimo della sua seconda presidenza. Le cose che ora scrive Ida Dominijanni si muovono sulla stessa linea di apprezzamento di quanto fatto da Obama in questi anni, ma soprattutto sono motivo di riflessione (o dovrebbero esserlo) per i governati europei, mai apparsi così inermi e divisi, inadatti per deficit di statura politica ed etica, a fronteggiare i gravi problemi che attraversano il mondo. La verità sta tutta lì: per anni abbiamo demonizzato l’imperialismo americano, oggi che esso mostra una faccia diversa, quella della speranza e della fiducia, che sostiene un mondo multipolare, più equilibrato e biopoliticamente più pulito, ci rammarichiamo che non faccia risuonare a nostra difesa i suoi scarponi militari in giro per il mondo. E tremebondi ci inventiamo una guerra di civiltà e di religione che non esiste. Così, la crisi delle democrazie occidentali appare sempre di più non l’effetto di eclissi dei valori fondanti, ma della rinuncia a volerli riaffermare. Per inciso: è significativo l’articolo in quanto proviene da una donna, filosofa e politica, da sempre di sinistra. Segno che, quando si tolgono i paraocchi, si riesce a ragionare anche da quelle parti. Magari mettendo a frutto la lezione di storici rigorosi come Lucio Villari, di cui Dominijanni è stata allieva.

 

Ida Dominijanni

La giornalista Ida Dominijanni

Lo sguardo lungo della storia e degli storici renderà prima o poi più giustizia alla presidenza di Barack Obama di quanta ne abbia ricevuta fin qui dalla cronaca e dai contemporanei. Ed è alla storia più che alla cronaca che Obama guarda nel suo ultimo discorso sullo stato dell’unione, tutto volto a lasciare dietro di sé – a contrasto con l’aggressività rancorosa di Donald Trump – una scia di speranza e di fiducia in un presente-futuro tanto carico di incognite quanto ricco di promesse. Niente di più riduttivo, tuttavia, che vedere in questa scia solo un appello all’ottimismo, magari traendone ispirazione per perseverare, qui in Italia, con la retorica governativa della nave che va malgrado gufi e jettatori. Nel testamento che il primo presidente nero degli Stati Uniti consegna al suo paese e al mondo c’è tutt’intera la rotazione che egli ha imposto, o proposto, al discorso pubblico occidentale durante il suo doppio mandato. Una rotazione che, se sette anni fa convocava un’America devastata dalla reazione neoliberista e neocon al trauma dell’11 settembre, oggi convoca con altrettanta forza, o dovrebbe, un’Europa che, sotto i colpi del terrorismo, dell’immigrazione, della crisi economica, si disfa e si immerge nella stessa retorica dello scontro di civiltà già sperimentata e consumata sull’altra sponda dell’Atlantico.

Per Obama il punto da ribadire è ancora come gli Stati Uniti ‘possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme’

Donald Trump

Il miliardario americano Donald Trump, sfidante per la Casa Bianca

Dunque non è per caso se tra riforme rivendicate e compiti da portare a termine, tra un richiamo all’America di sempre e un’esortazione all’America che verrà, Obama affronta di petto il punto che nemici e amici, negli Stati Uniti e in Europa, gli rimproverano: il declino della potenza americana e della sua forza ordinatrice sulla scena internazionale, un declino di cui Obama stesso sarebbe complice se non responsabile. Strano rimprovero, in verità. Non era precisamente questo – la gestione della fine dell’unilateralismo americano – uno dei pilastri dichiarati del suo programma originario? Non si trattava di accompagnare un ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo? Eppure è proprio questo che non gli viene perdonato, quasi fosse un lutto insostenibile per gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale.

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Perciò per Obama il punto da ribadire è ancora quello: come gli Stati Uniti “possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme”. Tra le due condizioni, quella della guida e quella del gendarme, c’è di mezzo la rotazione di cui sopra sull’interpretazione del presente. Un tempo “carico di pericoli”, eppure occasione di un cambiamento decisivo di prospettiva. Perché su una cosa non ci piove: gli Stati Uniti restano “la nazione più potente sulla terra. Punto”. Ma non può continuare a esercitare questa potenza lanciando bombe sui civili, o ricostruendo paesi distrutti: “Questa non è leadership, è la ricetta per finire nel pantano, come insegnano il Vietnam e l’Iraq”. C’è un altro approccio possibile, multilaterale e globale, l’approccio che Obama rivendica su questioni non solo geostrategiche (Iran, Cuba, Siria, il mutamento epocale in corso in Medio Oriente, l’espansione cinese e le nuove ambizioni russe), ma anche biopolitiche (la lotta contro il cancro, l’aids, l’ebola, il cambiamento climatico, l’investimento nella ricerca e nelle tecnologie), su una scala di priorità che comporta non la sottovalutazione ma il dimensionamento del terrorismo internazionale: fanatismo criminale da estirpare anche con l’uso della forza, ma non religione, o civiltà, cui contrapporre politiche identitarie basate sulla razza o sul culto. Lo scontro di civiltà è da archiviare, “non in nome del politicamente corretto ma della pluralità e dell’apertura che fanno la forza e la diversità dell’America”. Piuttosto che rimpiangere il gendarme del mondo, l’Europa dovrebbe drizzare le orecchie.

Salvini

Matteo Salvini, segretario della Lega

Non solo su questo, del resto. Non si è ancora sentita, nel vecchio continente ostinatamente attaccato alla precettistica ordoliberale, la voce di un leader in grado di nominare uno per uno e senza infingimenti gli effetti devastanti di una crisi che la sua politica economica pure ha avuto l’indubbio merito di contenere: disuguaglianze, concentrazione della ricchezza, precarizzazione del lavoro e della vita. Obama può ben rivendicare che negli Stati Uniti il peggio è alle spalle, l’economia ha ripreso a girare ed è salda, la disoccupazione è scesa ai minimi storici e il lavoro si moltiplica. Ma sa e dice chiaro che perché “la nuova economia” crei più che distruggere sono necessarie scelte politiche di parte: creazione di nuovi posti di lavoro contro la delocalizzazione, investimenti – non bonus – nella scuola e nell’università pubblica, nuovi sistemi di formazione e tutela per chi è costretto a passare da un lavoro all’altro, aumenti dei salari a scapito dei profitti (“non è colpa degli immigrati se i salari sono fermi”). In politica economica come in politica estera l’ottimismo di Obama, malgrado i ripetuti appelli all’unità del suo popolo e dei suoi rappresentanti, è un ottimismo che sceglie, divide, taglia: non è una retorica comunicativa, è una scommessa politica che sfida le ambivalenze e le contraddizioni di un presente a rischio.

Martin Luther King

Il leader nero Martin Luther King

Così pure, infine, sulla concezione della democrazia e della politica. A Washington il vento del disincanto, del rancore di tutti contro tutti e della degenerazione del conflitto politico soffia non meno che a Roma o a Bruxelles, ma dalla crisi della democrazia non c’è modo di uscire se non riattivando la democrazia: “Non basta cambiare un deputato o un senatore e nemmeno un presidente: dipende da voi, dalla vostra capacità di essere cittadini non solo il giorno delle elezioni, di esigere diritti e prendere parola dalla parte dei più vulnerabili”. Dipende dalle voci tacitate in una sfera pubblica che ascolta solo chi sa gridare di più, dai Trump ai Salvini di turno. “Le voci della verità disarmata e dell’amore incondizionato” in cui confidava Martin Luther King. Se quelle voci sono riuscite o riusciranno a farsi sentire, se l’America è riuscita nella sua storia o riuscirà nel prossimo futuro a rispondere alle sfide del cambiamento “senza aderire ai dogmi di un tranquillo passato” ma spostando la frontiera sempre in avanti, non è stato e non sarà grazie a una dote antropologica, né, si potrebbe aggiungere, a uno scongiuro ripetuto ogni sera in tv. È stato e sarà “grazie alle scelte che facciamo insieme”.

Ida Dominijanni, giornalista, articolo apparso sulla rivista Internazionale

 

 

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