Gli ultimi pastori tra lupi e burocrazia Marta: «Non sarò ricca ma amo il mio gregge» Giovani alla ricerca di una decrescita felice.

Marta e Sara al lavoro nella stalla di Sambuco (Cuneo)

Ed è alla fine d’una giornata mai finita, stallate le duecentodieci capre e le quindici pecore, munte le meticce e smaltiti i sei balloni di fieno e spalati i dieci chili di letame, puliti gli abbeveratoi e compilato il registro degli animali, guardate le ecografie delle gravide e inviati i moduli per i contributi Pac, controllati barbazzali e bozzi sottopelo, contate una per una e senza mai prender sonno la Teppa e la Ciolina, l’Elfa e Caccola, Juve 2020 e Biancaneve, la Mulatta e la Bulla, e poi Keke, Battistina, Pungaroccia, Marilyn, la Ciolla… — «dov’è Tontarella?», la più vecchia, la più amata —, è alla fine d’una giornata così che Marta butta le pedule immerdate sulle scale di casa, due ciocchi di faggio nella stufa, un pugno di carnaroli in padella e dice che no, questa vita non la cambierebbe mai.

Capre testarde

«Io non volevo vivere così. Da ragazza avevo un po’ il mito del Che, andavo in Bolivia e in Argentina, studiavo poco e leggevo tanto, uscivo la sera, il cinema… Mio papà era pastore e a scuola mi prendevano in giro: non ho mai pensato di fare il suo mestiere. Le capre, poi, le odiavo. Perché la capra fa di testa sua. È stronza. Snervante. Non è la pecora, che non litiga mai e va dove le dici: la capra non è Stato né Chiesa, è anarchica, fa a cornate. O la ami, o la odi. Adesso che ho quarant’anni, ho capito che la amo». E com’è successo? «Quell’altra vita non m’interessa più. Non reggo il casino delle città. Oggi, se vado a Torino, scappo dopo due giorni. Mai stata a Roma, nemmeno a Milano. A Sambuco ci sono settanta abitanti, e per me son già troppi: fino a cinque anni fa, figurati, non avevo neanche il cellulare. Un giorno, davanti alla stalla di mio padre c’era un capretto che correva e la madre che lo inseguiva. Sono rimasta a guardare. Incantata. Allora sono andata là e ho detto: papà, metto su un gregge. Non ti dico le urla, le incazzature. Una iena, lui che da giovane se n’era andato via dalla Michelin, dal posto fisso: ma sei matta, a far la mia vita?…». Pecora nera: «Avevo 27 anni, ma sapevo solo cosa non volevo. Sono partita che avevo cento bestie».

Capre al pascolo a Sambuco (Cuneo)

Nevica. Niente pascolo, stamattina. Marta Fossati all’alba ha già riscaldato i caprili per inforcare il fieno, due chili a capo, e smadonna a pensare che la neve poteva aspettare un altro po’: «Io spendo poco, di mio. Ma le capre son tanti soldi. Se i prati restassero puliti, le porterei a brucare e risparmierei un buon cento euro al giorno. Invece adesso mi tocca tenerle in stalla: sessanta balloni di foraggio costano un rene, 3.780 euro al mese, tre volte più dell’anno passato!». Non c’è buon pastore di buon umore, nel presepe di quest’anno. Le bollette son da paura. E poi la siccità, che ha cambiato i prati: «Senz’acqua, l’erba s’è fatta tossica. Contiene più parassiti, meno proteine». E il risultato è l’infertilità: «Un disastro, solo la metà del gregge è gravido. Coi costi che girano, a marzo mi ritroverò ad aver mantenuto capre che han mangiato due chili al giorno. E non m’han dato neanche il capretto! Che faccio, le vendo? Boh. Sarà un inverno tosto. Non so se lo supero, stavolta».

Starci dentro

Si fa poco latte e la mungitrice automatica è lustra d’acciaio, «meglio a mano, ché non si consuma elettricità». Le mosche tardive s’appiccicano nello sciacquio della stalla, le suole affondano nel calpestio fangoso, c’è un odore acre di becco. Ah, certo: bello il chilometro zero e lo slow food, la sostenibilità e il pastoralismo… Ma a che prezzo: l’Abele 2022 ha mille Caini che lo circondano, deve difendersi, e non gli basta più cardare la lana o mestare il caglio. Oggi bisogna contare i miriagrammi e saper dare il selenio, attaccare i microchip e pagare i fornitori: «A volte vado a pascolare fra la Chiardola e Moriglione e mi metto a navigare sull’app: un clic e spendo 8 mila euro, più di certe signore che fanno shopping…».

Stagionatura del formaggio a Sambuco

Combattere le burocrazie: lo sapevate che bisogna tenere un registro telematico delle bestie? E che si piglia la multa, se si sbaglia il sale nelle tome? E che se vuoi mangiarti la tua capra, ci paghi l’Iva? E che va sempre dichiarato dove si pascola e sapere quali comuni lo permettono? E che serve un pecoraio ogni cinquanta capi, se s’attraversa una strada? E che il cane anti lupo può essere un caucasico ma non un pastore della Sila, altrimenti niente contributi? E che la legge ne fissa perfino il colore del pelo, chiaro ma non troppo, come se un cane scuro fosse capace? Che fatica, camparci: «Non diventerò mai ricca. Mungo un litro a capo, invece dei 5 che fa un allevamento intensivo. Do anche poco mangime: i miei non sono erbivori di quelli “spinti”, perché non accetto di vederli sballare come certe bestie che non sanno neanche brucare, hanno sempre le mammelle così gonfie da strisciare a terra. Io ci sono cresciuta, con gli animali. E mi fa impressione trattarli male. Anche se tutto questo costa caro. E starci dentro è dura».

Gli attacchi

Su e giù, zampettano nervosi dieci cani: il più bello e disperante è Gérard, un kangal anatolico sguardo di ghiaccio, «inutile come gli uomini troppo belli: non è un pastore, non fa la guardia, si mette in mezzo al gregge invece che di lato e mi spaventa tutte le capre… Lo chiamo “il cog…”. E me lo tengo solo perché ha questi occhi pazzeschi». Senza pascolo, anche i cani bisticciano sfaccendati, nemmeno un lupo da scacciare: «Voi non sapete cos’è la paura del lupo! Quest’estate ho avuto tre attacchi in due giorni. A volte stai a duemila metri, da sola, e capisci che loro sono lì intorno a scrutarti. Non è mica come in Francia, che il gregge è sacro e puoi perfino sparare. No, qui non puoi far nulla, il pastore non è rispettato. Ti dicono: “Povero lupo!”. Ma a me hanno sbranato la Zampina e avrei voluto la vedessero gli animalisti, mentre moriva aperta in due! La gente non si rende conto. Vengono in valle dalla città coi loro barboncini incappottati, s’avvicinano al gregge e t’insultano perché il tuo cane pastore è troppo aggressivo e santo cielo, perché lo tiene così al freddo?… Ma lo sanno che i lupi negli ultimi tre anni si sono moltiplicati? E sono diventati molto più aggressivi? Macché. Se ne fregano tutti. So che è brutto dirlo, però io aspetto solo che attacchino un turista. Prima o poi succederà. Così poi si correrà ai ripari».

Fuga dalle città

I primi anni, Marta era sola. Solissima. D’un giovane marito che l’aiutava, sono rimaste le capre dipinte a murales sulla stalla: «Due anni fa l’abbiamo costruita assieme al caseificio, 330 mila euro, un terzo di contributi Ue, avevamo un progetto e poi le cose sono andate in un altro modo, pazienza…».

Capre al pascolo, Sambuco

Ora, ecco Matteo e Sara. In Italia ci sono duemila pastori under 40 e loro sono due di quelli. Un piccolo movimento cinquestalle, giovani in cerca d’una decrescita felice. In fuga dall’anonimato metropolitano. A riscoprire un mestiere che è la vita quotidiana di 200 milioni di persone in tutto il mondo e ora si torna a rifare anche qui: 60 mila allevamenti, formaggi per 60 milioni di chili, sette milioni e mezzo di bestie da crescere, 200 mila pecore in più solo negli ultimi cinque anni, salvate una quarantina d’antiche razze come la sambucana o il demontino, la transumanza che è diventata un patrimonio Unesco… «Sì, noi pastori siamo tornati un po’ di moda. Ma è un lavoraccio. E bisogna selezionare. Perché arriva di tutto: i no vax, lo sballone che poi scappa dopo due giorni, il ragazzino con le sneaker che sale in taxi mandato dal paparino. Mi ricordo uno che in stalla dava l’acqua nelle ciotoline, come si fa col chihuahua…».

Gli alpeggi

Con lei Sara (filosofa) e Matteo (clarinettista) «Il cane è inutile ma bello, come certi uomini»

Matteo e Sara sono un aiuto serio: lui ha fatto il liceo musicale e sarebbe un clarinettista classico, se a 22 anni non avesse scelto d’essere un wwoofer (da World-Wide Opportunities on Organic Farms, come si chiamano adesso i braccianti: vitto, alloggio e niente paga in cambio di un’esperienza di vita rurale); lei s’è laureata in filosofia a Bologna, ha disobbedito agli agi d’un padre notaio e s’è fatta assumere per mungere, pasturare, pulire, vendere i formaggi sui banchetti di Cuneo e Damonte, infine ritrovare pace monticando quassù. Le van bene i 1.100 euro di stipendio coi contributi, un giorno di vacanza l’anno, il supermercato più vicino a 40 km, niente bar o tv, gli alpeggi da maggio a ottobre, per pranzo formaggio e pomodoro con un pezzo di pane.

Giornate nella solitudine della Valle Stura, fra asperità occitane dove non passano nemmeno i clandestini diretti in Francia, trenta chilometri in là. Ogni tanto viene la tentazione — dicembre, è tempo di migrare! — e c’è chi scende in pianura, a cercare prati demaniali e abbattere i costi. Marta, no: «La pastorizia vagante è il mestiere più antico del mondo, come la prostituzione, e a volte ha gli stessi pericoli…». Se lo ricorda ancora, quando a Castelrosso due rumeni transumanti furono ammazzati a bastonate dai chivassesi e solo perché avevano sconfinato. «Meglio stare quassù, mi sento più protetta…». Il buon pastore, si sa, dà la vita per il suo gregge. Per Marta vale anche il contrario: è il gregge che ha dato una vita a lei.

Francesco Battistini, Corriere della Sera