Una nuova epidemia minaccia il pianeta. Il suo nome è globesità. Cioè l’ obesità globale che sta facendo aumentare inesorabilmente la taglia del mondo. È una vera e propria apocalisse lipidica, che rivoluziona parametri e valori della fame e della sazietà.
Ormai il flagello colpisce senza eccezioni paesi ricchi e paesi poveri. Perché la sua distribuzione non è geografica, ma sociologica. Non dipende dal luogo dove si vive, ma dal ceto cui si appartiene. Infatti è nelle periferie dello sviluppo, nei retrobottega del consumismo, negli scantinati del progresso, che la malattia mostra i sintomi più inquietanti.
Le sconvolgenti immagini del progetto fotogiornalistico Globesity, in mostra al festival FotoLeggendo di Roma, suscitano al tempo stesso timore e orrore, oltre che pietà e solidarietà. Perché anticipano, come in un fantasy nero, il futuro che attende la salute mondiale.
Questi scatti ai confini del mondo extralarge, nei suburbi di Mexico City, nelle township di Città del Capo, ma anche nei nostri quartieri popolari, sono un catalogo di corpi in mutazione. Carni tremule che restituiscono l’ ologramma dolente di un corpo sociale sempre più sofferente. Dove l’ aumento vertiginoso dell’ indice di massa corporea medio è diventato il crudele indicatore di una società sempre più iniqua.
Che ha perso il senso della misura per effetto della bulimia consumistica. È come se l’ idea dello sviluppo infinito avesse prodotto corpi a sua immagine e somiglianza. Obesi da un lato e sottopeso dall’ altro. Entrambi malnutriti, o per eccesso o per difetto. Col risultato di trasformare il sovrappeso in uno stigma dell’ immobilità sociale, nella segnatura di un destino zavorrato. A tutti gli effetti gli oversize sono i nuovi paria del sistema mondo.
Prima presi per la gola dall’ industria del junk food, di cui sono gli insaziabili sponsor. E poi additati al pubblico ludibrio come mangiatori compulsivi, come persone senza volontà, come costo insostenibile per la sanità. Insomma umiliati e obesi.
Evidentemente nella società della velocità e della performatività, non c’ è posto per i chili di troppo. Fitness e fatness sono incompatibili, come il bene e il male. La religione della magrezza e della bellezza non tollera la grassezza. La considera alla stregua di una colpa da emendare, di un peccato da espiare.
Se il corpo è l’ indicatore del rapporto tra individuo e società, grasso e magro sono i fratelli-coltelli che rappresentano il basso e l’ alto della piramide. È così da sempre. La differenza è che una volta essere pasciuti e panciuti era un segno di potere, di ricchezza e anche di bellezza.
Peso sociale espresso in peso corporeo. Ed è ancora così in tutte quelle parti del mondo dove l’ emergenza alimentare non è ancora finita. Come nel caso dei lavoratori indiani che emigrano dalle regioni più povere del subcontinente e fanno fortuna a Dubai. Nuovi ricchi che hanno l’ obesità come mission.
Perché i loro clienti misurano il loro successo e la loro solvibilità sulla stazza, più che sui report delle agenzie di rating. Insomma il peso non è un valore assoluto. Ma fluttuante. E anche recente.
Oggi ci sembra obbligatorio sapere e far sapere quanti chili “siamo”, che è un modo per pesare l’ essere. Ma, fino agli anni del miracolo economico, quasi nessuno montava sulla bilancia. Di fatto siamo passati dal mondo del pressappoco all’ universo della precisione.
Tanto che negli Stati Uniti il peso viene scritto nella pagelle e determina il voto di condotta dei ragazzi. Come dire che l’ autocontrollo a tavola viene assunto a strumento di valutazione dei corpi e delle anime. Diventando il riflesso di una distribuzione di opportunità e chance ineguale.
Con i ricchi sempre più magri e i poveri sempre più debordanti. Devastati da cibi di cattiva qualità che fanno da placebo contro una marginalità senza consolazione, al di fuori di una sovralimentazione coatta. Che del piacere alimentare è solo l’ ombra deformante. Il ricalco infelice.
Articolo di Marino Niola per la Repubblica
In copertina un’opera di Antonio Bueno