Quando lo skipper britannico Robin Knox-Johnston terminò la prima regata intorno al globo in solitaria e non stop della storia, resisteva ancora il mito letterario del giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne. Era il 1969, lui aveva trent’anni, la sua barca era un ketch di nemmeno 10 metri di lunghezza e la madre di tutte le regate si chiamava Sunday Times Golden Globe, una maratona degli Oceani che nel suo caso partiva e arrivava da/a Falmouth, nel sud-ovest dell’Inghilterra passando per mille tempeste e per il temibile capo Horn, lo spauracchio di Buona Speranza e l’infido Leeuwin in Australia. I tre Capi, insomma, che sono le bandierine da traguardare quando si parla di regata intorno al pianeta.

Knox-Johnston compì l’impresa in 313 giorni, guadagnandosi il titolo di Sir per meriti sportivi e avendo la meglio su altri otto concorrenti, alcuni dei quali a dire il vero si persero per strada: il francese Bernard Moitessier abbandonò («forse anche per salvare la mia anima», scrisse) e diventò un’icona, mentre l’inglese Donald Crowhurst probabilmente impazzì e scomparve nel nulla.

Vista dalla rete che tiene uniti i tre scafi della barca-monstre di François Gabart, sulla quale saltiamo ad ogni passo, quell’epopea sembra una di quelle leggende che si perdono nei secoli lontani, popolate da draghi, principi e principesse. Perché in poco più di cinquant’anni, la storia della vela ha disintegrato quel record. E una grossa parte del merito la si deve proprio all’uomo che ci ha fatto salire a bordo di SVR-Lazartigue, un gigante dei mari dalla livrea azzurro intenso che rappresenta la punta più estrema delle competizioni a vela oceaniche. Un trimarano lungo 32 metri e iper-tecnologico la cui “famiglia” di appartenenza (classe) si chiama non a caso Ultim. Di più di questo, non c’è.

François ha 39 anni, è biondo, ha un volto da ragazzo, è ingegnere e ha una passione per le storie di Corto Maltese. Ci accoglie a bordo in pantaloncini corti, polo e ciabatte, mentre noi siamo imbardati come se dovessimo attraversare l’Oceano – ma siamo nel golfo di Genova -: cerata, giubbotto salvagente. A guardarlo, per niente colosso e dal sorriso aperto, meraviglia pensare che abbia sfidato le acque più pericolose del globo. Non bisogna però lasciarsi ingannare dal suo aspetto e dai modi gentili. Inizi sull’Optimist, la “bagnarola” per bambini e adolescenti, poi sul Moth che è già “volante” e dopo sul più “spinto” Tornado, classe in cui diventa campione del mondo junior e quindi l’Oceano, dove infila nella sua sacca da marinaio regate su regate sino ad accedere all’Olimpo dei solitari, il Vendée Globe, il giro del mondo non stop.

Il debutto, nell’edizione 2012/13, è stratosferico. La barca è un Imoca60, i bolidi di 18 metri disegnati per questa regata al limite, si chiama Macif e lui la fa correre – da solo, va sottolineato: altra cosa i primati in equipaggio – come un dannato. Con 78 giorni e rotti infrange i record precedenti e relega nella letteratura l’impresa letterario di Phileas Fogg. Non pago, quattro anni dopo sbaraglia di nuovo tutti, “bevendosi” il mondo in 42 giorni e 16 ore con un trimarano di 30 metri, battezzato Macif 100, ma dotato di foil, appendici che lo sollevano dall’acqua. È la vela “volante”, la nuova era.

A proposito di bere. Una nota di colore. Nel 2017, dopo aver tagliato la linea d’arrivo immaginaria di Ouessant, l’isola bretone dove l’Oceano è tempesta e naufragi, Gabart dice di non aver fatto una doccia da quando è partito, di non dormire da settimane e di essersi alimentato con cibo liofilizzato da un mese e mezzo. Tornando al 1969 e all’impresa di Knox-Johnston, invece, si narra che durante le burrasche lo skipper e futuro baronetto si chiudesse sottocoperta e si facesse un bicchiere di gin.

Certo, quella era un’altra vela rispetto a quella con la quale avanziamo adesso, a sei-sette nodi anche se non c’è un filo di vento, tanto che sembra che la barca aspiri l’aria intorno. Il confronto è spaziale. Immaginatevi tre lunghi scafi azzurri in fibra di carbonio, dalle line fluide e aerodinamiche. Il boma della vela principale abbassato sulla coperta, una rivoluzione che avevamo visto anche su Luna Rossa. I grandi bracci che uniscono trasversalmente gli scafi carenati con tessuto per ridurre la resistenza all’aria, un pozzetto a poppa con una ruota di timone, dove bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi, per non intaccare tubi e cavi.

E poi, le vere postazioni di guida, che sono ricavate a centro-prua, una per lato, in “buche” con un volante dotato di sistema force feedback e coperte da una cupola in plexiglass che protegge lo skipper, appollaiato lì sotto su un sedile sospeso nel vuoto, dalle ondate, dal vento, dal freddo e dal pericolo per la sua incolumità che deriverebbe da un cappottamento. Sottocoperta c’è anche il centro di comando, con computer e altre diavolerie elettroniche, e due grandi manovelle (winches) per le manovre. Tutto al chiuso, o quasi. Una soluzione, quest’ultima, che è stata di recente contestata dalla classe Ultim (e da alcuni avversari di François), tanto che non voleva ammetterlo alla Route du Rhum, la transatlantica che salpa il prossimo 6 novembre da Saint-Malo: è finita con una battaglia legale e con un verdetto dalla Corte di Parigi, che il 23 luglio scorso ha dato ragione a Gabart, il quale sarà alla partenza della regata col suo SVR-Lazartigue (il nome è quello di due dei tre marchi della cosmetica che fanno capo al gruppo Kresk, il suo sponsor) e chiede anche 18 milioni di euro in danni. Meglio parlare d’altro. Ci sediamo in coperta, ad ascoltare il sibilo del vento sui cavi, sempre più lieve. È l’ora delle domande.

François, ma a quanto può correre questa barca? Cinquanta nodi?

«Direi di sì. SVR-Lazartigue decolla con 11-12 nodi di vento e si alza sull’acqua quando raggiunge i 22-24 nodi di velocità».

Che vede in futuro? Barche sempre più veloci?

«La vela sta vivendo una rivoluzione incredibile con i foil. Una rivoluzione interessante per chi compete come me. Non so dire se le barche del futuro saranno più lunghe o più corte, ma più veloci di sicuro. E per fare questo, bisogna aumentare l’efficienza e il controllo. Non vedo limiti, se non quello dell’impatto ambientale».

Impatto ambientale?

«La vera sfida è quella di ridurre sempre di più la resistenza della barca all’acqua. Questo significa che puoi aumentare la velocità, ma che puoi anche diminuirla un po’, per consumare molto meno energia. Ed è questo quello su cui dobbiamo lavorare, perché il futuro deve vederci consumare meno. Barche come la mia aiutano a sperimentare e penso che questo sia lo scopo dello sport, imparare e fare meglio».

Qual è il Gabart pensiero sull’ambiente?

«La salvaguardia dell’ambiente è un qualcosa che ciascuno di noi deve capire. È chiaro che per un velista il mare è importante, è parte della mia vita. Ma lo è per tutti gli esseri che vivono sulla Terra: non è possibile avere una buona vita se il mare non sta bene. Si parla molto dei cambiamenti climatici, ebbene l’equilibrio climatico si basa anche e soprattutto su quello del mare. Sono ambassador di un progetto, Kresk4Oceans, che è proprio quello di spiegare a tutti l’importanza del mare, dell’impatto che ha sulle vite di tutti gli esseri viventi l’inquinamento, la plastica, le emissioni».

Cambiamo tema. Che sogna?

«Sogno da sempre di navigare su una barca come questa e di correre il più veloce possibile intorno al mondo e prima ancora sull’Atlantico. Questo è stato il mio sogno dall’età di sette anni. Quello che voglio fare, però, è anche quello di far sognare gli altri. Il senso di navigare è anche quello di far sognare insieme con te e col tuo team la gente che ti segue. È un modo per regalare un po’ di libertà, di ossigeno nella mente di chi non può farlo. Io sogno e condivido con gli altri il mio sogno. Non si tratta solo di vela: molti mi dicono che seguendo la regata vivono la mia avventura e questo dà loro la forza di sognare magari altro che vogliono fare».

Ha rimpianti?

«No, né rimpianti né rimorsi. Non avrei voluto fare altro. Vivo la vita che ho voluto e penso che questo sia davvero un grande privilegio».

Ci vuole anche fortuna.

«Certo. Ma servono anche tanto lavoro e tanti sacrifici. Navigare, trovare gli sponsor, mettere insieme il team, costruire la barca: dietro tutto questo c’è moltissima fatica».

Ha già girato il mondo il 42 giorni. Può battere se stesso?

«Si può andare ancora più forte. Ci proverò con questa barca, all’Arkéa Ultim Challenge, che salperà da Brest nel 2023. Si può scendere sotto i 40 giorni».

La metà degli 80 giorni. Phileas Fogg e Jules Verne risucchiati dal maelström della modernità.

Articolo di Fabio Pozzo per La Stampa