TRUMP? …. ANALISI SBAGLIATA!!

20 Lug 2025 | 0 commenti

Riconosciamolo: in sei mesi analisti, studiosi, osservatori non ne hanno azzeccata una su Donald Trump e dintorni. Certo, non era semplice fare meglio. Le oscillazioni, gli annunci, le scelte, le retromarce del presidente americano hanno mandato in tilt anche le capacità interpretative dei governi e delle diplomazie. Così ci ritroviamo in piena estate ancora più confusi di quanto fossimo a gennaio, quando Trump è tornato alla Casa Bianca. Per cominciare: in molti, sia in Europa che negli Stati Uniti, avevano previsto l’avvento di una spartizione del pianeta in vaste zone di influenza.

Una «nuova Yalta», con Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping pronti ad accordarsi soprattutto alle spalle degli europei. Uno dei passaggi chiave era, ed è, la fine della guerra in Ucraina. Il leader americano ha subito cercato un’intesa con il Cremlino, scavalcando Volodymyr Zelensky ed emarginando il Vecchio Continente. Poi ha dovuto prendere atto che Putin non cercava un compromesso, ma la disfatta militare e la bancarotta politica dell’ucraina. Un obiettivo inaccettabile sul piano del diritto internazionale, ma compatibile con l’idea di un accordo complessivo tra Stati Uniti e Russia sulle rispettive aree di competenza. Invece, questo schema, e quindi il disegno di Putin, si sono rivelati irricevibili anche per Trump e per l’establishment politico, economico e militare di Washington. Pur tra tante contraddizioni, il presidente Usa ha di fatto cancellato l’ipotesi di una «nuova Yalta», decidendo di consegnare, a pagamento, i missili Patriot a Kiev. Lo scenario militare e il destino dell’ucraina, tuttavia, restano incerti. Trump non dà punti di riferimento, né rassicurazioni a nessuno, a cominciare da Zelensky.

Anche l’altro lato del triangolo non funziona. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, il rapporto tra Trump e Xi Jinping resta ruvido. I governi dei due Paesi si stanno confrontando duramente sul commercio, sulle relazioni economiche. Gli americani stanno cercando di spostare a proprio favore il punto di equilibrio di una convivenza obbligata. Ma in questi mesi, sul tavolo dei negoziati non sono mai comparsi piani di spartizione. I cinesi continuano imperterriti la loro avanzata. Ovunque: nella parte asiatica del Pacifico, con la mina vagante di Taiwan sempre innescata, in Africa, nel Sud America e tutto lascia pensare che ora ci riproveranno in Europa.

In sostanza non sembra di vedere all’opera alcun triumvirato, alcun oligopolio mondiale. Putin, Trump e Xi Jinping si muovono solo sulla base del proprio interesse particolare, che quasi mai coincide con quello degli altri.

È la regola che sta mettendo in discussione anche un secondo teorema piuttosto in voga nell’ambito geopolitico: l’esistenza di un patto di mutuo soccorso tra le autocrazie, in particolare tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. La prova più evidente sarebbe fornita, ancora una volta, dal conflitto in Ucraina. Pechino sta appoggiando lo sforzo bellico di Putin, vendendo a Mosca materiale tecnologico «dual use», cioè con applicazioni sia nell’industria civile che in quella militare. L’iran ha consegnato, dall’inizio del conflitto, più di 8 mila droni Shahed all’armata russa. Il dittatore nord coreano Kim Jong-un ha inviato 11 mila soldati a combattere nella regione russa del Kursk e ora pare sia pronto a dislocarne altri 25-30 mila. Ma una vera alleanza dovrebbe funzionare anche a parti invertite. L’occasione si è presentata il 22 giugno scorso, quando i bombardieri americani hanno colpito tre impianti nucleari in territorio iraniano. Un’operazione progettata da anni e, quanto pare, sempre accantonata per il timore della reazione di Russia e Cina. Invece non è successo praticamente nulla. Il Cremlino ci ha messo una settimana per chiedere una riunione, per altro inutile, del Consiglio di sicurezza dell’onu. Da Pechino è giunta solo qualche protesta formale. Tutto qui. Nessuna rappresaglia contro gli Stati Uniti o Israele, nessun appoggio militare a Teheran.

Infine, una terza formula ci riporta a Washington. Dopo la vittoria di Trump avevamo pensato e scritto, anche noi del «Corriere», che negli Stati Uniti si sarebbe insediato un governo degli «oligarchi digitali». Il coinvolgimento di Elon Musk nell’amministrazione sembrava la conferma degli scenari più inquietanti. Poi è arrivata la prova dei fatti: la manovra di bilancio voluta da Trump e dal partito repubblicano, l’azione di politica interna finora più rilevante. È il «Big Beautiful Bill»: una legge di vecchio stampo liberista, un imponente trasferimento di risorse che premia sostanzialmente il ceto medio-alto, coloro che guadagnano più di 200 mila euro all’anno, e penalizza, tra l’altro, i programmi di assistenza medica per i più bisognosi. Il provvedimento ha suscitato malumori anche tra una parte degli elettori repubblicani, ma chiaramente non ha segnato il primo passo verso un allarmante regime tecnocratico. Certo la lobby digitale resta influente a Washington anche dopo la rumorosa rottura tra Trump e Musk. È un polo di interessi e di potere che si affianca agli altri gruppi più tradizionali: petrolio, armi, finanza, grande distribuzione. Con risultati alterni sugli orientamenti di Trump cui spetta l’ultima, imprevedibile, parola. Forse dovremmo rassegnarci a mettere da parte i canovacci, i modelli di previsione e a seguire, semplicemente giorno dopo giorno, ciò che la Casa Bianca produce nel concreto.

Articolo di Giuseppe Sarcina per Il Corriere della Sera

0 0 voti
Article Rating
Notificami
0 Commenti
Vecchi
Più recenti Le più votate
Feedback in linea
Visualizza tutti i commenti

Potrebbero interessarti

Contact Us