Ennio Flaiano. Scomparso cinquant’anni fa, lo sceneggiatore di capolavori firmati da maestri come Rossellini, Monicelli e Fellini riusciva a mettere in rilievo, con gli occhi del provinciale, i vizi della Capitale e dell’Italia che finivano nei film

Ennio Flaiano (di cui ricorre in novembre il cinquantenario della morte) faceva parte di quel gruppo di giornalisti e intellettuali che nella Roma del Dopoguerra “la sera andavano a via Veneto”, e contro i quali, in privato – posso testimoniarlo -, ma anche in pubblico Ignazio Silone (“Silone il rustico” lo chiamava il sodale Chiaromonte) lanciava i suoi strali, detestando la loro aurea di intelligenza e distanza borghesi. Quel gruppo e quegli anni sono stati narrati egregiamente da Giovanni (“Giovannino”) Russo, che faceva parte del gruppo del «Mondo» raccolto attorno a Pannunzio, direttore, e coordinato da Flaiano capo-redattore. Quando Russo venne chiamato al «Corriere della sera» dopo le sue inchieste meridionali su Baroni e contadini, Flaiano scrisse per lui una poesiola rimasta a lungo inedita e che circolava oralmente: «Alle cinque della sera / sulla piazza di Matera / da una Millecento lusso / scende Giovannino Russo / del Corriere della sera./ (Coro di contadini lucani:/ Che successo! che carriera!)»

Flaiano, Fellini. Ekberg

Sul «Mondo» facevano inchiesta, per esempio, anche Anna Maria Ortese e il giovane Arbasino… Bei tempi, no? E c’erano in giro molte altre riviste – tutte più o meno influenzate dal modello Vittorini o dal modello Longanesi – a dimostrare la vitalità della nostra cultura, «Tempo presente» e «Nuovi Argomenti», «Il Ponte» e «Nord e Sud», «Ragionamenti» e «Il contemporaneo» e più tardi i «Quaderni rossi» e i «Quaderni piacentini»; e ne dimentico… Flaiano era indiscutibilmente il “ferro di lancia” del «Mondo», l’arguto e disincantato ma tutt’altro che freddo “spettatore critico” (lui sì, non Chiaromonte!) della vita sociale – e politica, e culturale – del suo tempo. Rinunciò per questa vocazione a quella di narratore – e sì che aveva vinto il primo Strega con un romanzo, Tempo di uccidere (1947), un capolavoro degno di Camus o di Orwell, sulla guerra d’Africa in cui aveva combattuto sapendo di trovarsi dalla parte sbagliata.

Ennio Flaviano con Sophia Loren

Esplodeva intanto il cinema, con due stagioni di immensa vitalità: quella del Dopoguerra (perno il Neorealismo, ma per Flaiano quello di Rossellini, non quello di Zavattini) e, con i successi della Commedia all’italiana, quella del boom. Flaiano fu instancabile, anche perché era con il cinema che si guadagnava davvero bene e non con il giornalismo. E con Roma città libera (ma il suo titolo era La notte porta consiglio) si agganciò a René Clair, narrando la Roma della “occupazione alleata” attraverso notturne storie intrecciate. Bisognava raggiungere la verità, diceva, attraverso la commedia e sempre con un un’ironia che passasse dall’affetto allo humour, anche crudele. Non se l’era sentita – e mai ci provò – di essere anche un regista e Marcello Pagliero, più sensibile come attore, non fu all’altezza di quel rutilante copione.

Roma, via Veneto ai tempi della Dolce Vita

L’opera di Flaiano è fatta di racconti e diari, pezzi brevi, e di soggetti e sceneggiature, queste perlopiù elaborate in gruppo, come allora era lodevolmente d’uso. Non sono poi tanti i libri con la sua firma, e si tratta sempre di raccolte di articoli, ritratti, scenette, racconti. Forse i suoi capolavori sono proprio le sue sceneggiature, ché a Soldati, Rossellini, Pietrangeli, Blasetti, Monicelli e a Totò, ma anche a Zampa e a Paolella, artigiani di peso, dette idee – suggestioni situazioni battute – fondamentali per il successo dei loro film. Non si finirebbe di elencare titoli, a dimostrazione della sua curiosità per le piccole e grandi mutazioni sociali, della sua capacità di veder subito il nuovo e le sue ambiguità… Ma è ovviamente a Fellini che Flaiano mise a disposizione – in un sodalizio che comprendeva Pinelli e accessoriamente il contorto Rondi – il meglio della intelligenza critica e professionale, da subito, da Lo sceicco bianco e su fino a Otto e mezzo. La rottura di questa collaborazione non avvenne, come si è detto, perché Flaiano fosse geloso del successo di Fellini, ma – secondo la testimonianza di Rosetta, moglie di Flaiano, – per l’imbarazzo e la freddezza di Fellini nei confronti della loro figlia, ritardata mentalmente e fisicamente deforme. Nonostante che Fellini sia sempre stato affascinato – nei film, non nella vita – da piccoli e grandi “mostri”, narrati con massima sensibilità e rispetto…

Flaiano fu sempre, in sostanza, il pescarese in città, il provinciale di ottima cultura letteraria che sapeva vedere da Roma i cambiamenti dei modi di vivere e di pensare degli italiani, anche un po’ spaventato ma soprattutto divertito. E probabilmente la creazione che più lo rappresenta rimane Il marziano a Roma – che è poi un avatar del Persiano di Montesquieu… Era lui, quel marziano, mentre non si identificò di certo col Gesù di un suo breve testo che Scheiwiller farebbe bene a riprendere, che calava a Roma nel pieno della “dolce vita” affrettandosi a ritornarsene in cielo con l’unico successo di aver “convertito un prete”, ma non prima che un tale (ovviamente Flaiano) gli presentasse una figlia malata chiedendo a Gesù non di guarirla ma di volergli bene… Un fondo religioso si fece più presente in Flaiano nei suoi ultimi anni, con l’ostinato lavoro per un film dai Vangeli, di sorte confusa o inadeguata. Averne, oggi, di “marziani a Roma” o dovunque, che ancora pretendessero non solo di osservarci ma anche, inquietandoci, di mutarci…

Goffredo FOFI per Internazionale (https://www.internazionale.it/tag/autori/goffredo-fofi)