Ho visitato l’Expo di Milano, ancora chiuso al pubblico, di soppiatto, confondendomi nella schiera degli operai. Era l’ora di pranzo e nessuno mi ha chiesto niente mentre entravo da uno dei tanti varchi. Come faccio quando vado in un ristorante ho iniziato la visita dai bagni: in ordine, tutto sommato, il distributore della carta naturalmente vuoto, ma per il resto…..bene. La mensa è un prefabbricato squallido e spoglio, alla sinistra dell’ingresso l’angolo per il caffè, davanti una lunga teoria di tavoli e in fondo il lungo bancone del sef-service. Facce stanche, abiti sporchi, lingue con accenti del sud o stranieri. Prendo degli spinaci e del prosciutto cotto, che mi sale su e giù nello stomaco per tutto il pomeriggio. Mi addentro per il decumano verso il padiglione Italia; ovunque macchine operatrici, operai e tecnici, furgoni, gru in movimento, l’agitazione dei cantieri. Alcune opere sono parecchio indietro, ma il più sembra fatto. Guardo la carta per orientarmi; il perimetro dell’Expo sembra la sagoma di un grande pesce preistorico, con cardo e decumano a fare da lische.
Il Padiglione Italia è sul cardo, ricoperto da uno strano carapace, come un vetro d’auto contorto e sgranato dopo uno sfascio. Sembra il relitto di una nave spiaggiata, ma a me fa venire alla mente i resti delle Torri Gemelle del W.T.C. di New York in quel tragico settembre del 2001. In fondo si intravede l’azzurro del lake arena, esplicita rievocazione, nell’intenzione dei progettisti, della Milano dei Navigli, prima che il fascismo li interrasse. Dal padiglione Italia qualcuno mi osserva. Posso apparire un collaudatore, forse proprio quello che aspettano spasmodicamente. Meglio declinare e allontanarsi. Sul lato opposto del lungo cardo si apre l’arena del teatro, che ospiterà eventi e spettacoli. E dopo, a Expo finita? Che ne sarà di questa spianata, addolcita da qualche albero stentato? I padiglioni dei paesi ospiti più esotici sono inconfondibili, con le loro palme o le dune false, le grandi vetrate mobili, i giardini interni con rocce e zampilli. Si sta facendo tardi e l’area da visitare è immensa. Per avere un colpo d’occhio di insieme devo raggiungere la collinetta dove stanno ultimando di piantare alberi mediterranei e le essenze dei nostri giardini o orti. Da lì il panorama è stimolante, ovunque si continua a lavorare, ma si coglie che il più è fatto, che nonostante le beghe politiche, gli scandali e gli arresti si è arrivati alla fine di un’opera ambiziosa. L’expo in passato ha portato spesso fortuna alle città che l’ospitava, salvo rare eccezioni. Quella di Roma del 1942 fu addirittura rinviata, perché l’Italia preferì scendere in guerra. Il primo Expò fu a Londra nel 1851, regnante la regina Vittoria. Poi per tutta la seconda parte dell’800 è Parigi a fare la parte del leone: 1855, 1867, la mitica esposizione nel 1889, quella con Buffalo Bill, Toro Seduto e della torre Eiffel. Avrebbero dovuto smontarla, per fortuna cambiarono idea. Durante l’invasione tedesca la Torre servì come antenna radio, poi fu consacrata attrazione turistica. Parigi, vera ville lumière si accaparra anche l’edizione del 1900, in cui i visitatori arrivano in treno nelle nuove gare de Lyon e d’Orsay.
Ma dove faremo scendere i nostri turisti, a Rho-Pero? E dove li faremo salire, sull’albero fatto di tubi in mezzo al lake, quasi fosse quello della cuccagna? Ciò nonostante uno sforzo di ottimismo patriottico è d’obbligo. Il tema è accattivante: il cibo attira, meglio se buono e se ci fa stare in salute; assicurarlo a tutti è la nuova frontiera. La Carta di Milano che è stata preparata sui temi dei cibi sani, compatibili, equi, biodiversificati, ecc., che dovrebbe essere approvata dall’ONU, può diventare un passo avanti importante. Quindi Expo Milano 2015 avrà successo. Resta il dopo: cosa ne sarà di tanto lavoro e di tanto denaro? Qualcuno può lanciare un concorso di idee?