Più che l’ateismo, a vincere in Occidente è l’indifferenza per il sacro. Cronaca di un declino che viene da lontano. Come porvi rimedio?
E ’sufficiente entrare in qualche chiesa italiana, soprattutto lontano dalle grandi città, e osservare il parterre che partecipa alle celebrazioni per avere una conferma delle ricerche sociologiche. Età media avanzata, qualche giovane e pochissimi bambini, che i genitori non mandano a messa per i più svariati e naturalmente legittimi motivi, siano essi lo sport e le gite, o la stanchezza dopo le fatiche scolastiche della settimana appena conclusa. Ecco il punto: la crisi che viviamo oggi non è legata alla situazione contingente, non è determinata dal “fattore Francesco” come vorrebbero far credere combattivi ambienti del conservatorismo cattolico nostalgici di tempi gloriosi e andati, anche se non si capisce bene a quali ci si riferisca. Di certo non a dieci anni fa, neppure a venti o trenta. Oggi, molto più semplicemente, emergono in superficie i frutti di quanto seminato nei decenni scorsi, da quando la svolta antropologica ha cambiato tutto, imprimendo una svolta radicale al senso religioso.

Negli anni Cinquanta c’era ancora un popolo cristiano, era l’epoca delle grandi processioni religiose che giungevano fin sotto la finestra del Papa in piazza San Pietro. Era percettibile una sensibilità permeata dalla fede. Fede che entrava nel dibattito pubblico, ai livelli più alti e a quelli più bassi. Era ancora, quello delle nostre campagne, il mondo dell’angelus dipinto da Jean-françois Millet nell’ottocento: i contadini che interrompono il lavoro nei campi al rintocco della campana per raccogliersi in preghiera. Alla fine di quel decennio il mondo cambia, arriva la televisione, l’american way entra nella cucina della massaia che prima si divideva tra le faccende domestiche, l’accudimento dei figli e il vespro serale. Il mondo in cui si teneva buono nell’armadio il vestito per la domenica, quando dopo essersi alzati ci si preparava per andare alla messa. Cambiano la mentalità e l’approccio alla realtà “e la Chiesa non si dimostrò all’altezza, limitandosi a un messaggio di tipo morale e moralista. Tralasciando così una proposta cristiana che arrivasse al cuore delle persone e che, soprattutto, potesse diventare proposta di vita capace di accompagnare i laici nella vita normale e non solo in quella domenicale” sostiene il filosofo Massimo Borghesi.
Il cardinale Giovanni Battista Montini, da Milano, dove Pio XII l’aveva mandato a succedere a Ildefonso Schuster nel 1954 come arcivescovo, va nelle disordinate periferie che stavano crescendo in modo impetuoso e frenetico, inaugura una chiesa dopo l’altra e avverte che la società sta cambiando, la gente sta iniziando a evitare il contatto con il sacro, non partecipa più come un tempo alla messa, appare distratta e mossa da una frenesia che fa preferire altro rispetto alla preghiera e agli altri tratti della vita cristiana. Montini, lasciata la curia romana, arriva nella città più moderna d’Italia, ed è lì che – come dirà in seguito, una volta eletto papa – la Chiesa “vive e lotta”.

Il futuro Paolo VI, lasciate le ovattate stanze vaticane, coglie subito i segni di quella che definirà una crescente “irreligiosità”: la catechesi è pressoché disertata, la partecipazione alla messa festiva scarsa, i parroci distanti e affaccendati (già allora) in mansioni burocratiche, le celebrazioni approssimative.
Qual è la risposta da dare davanti a questo quadro compromesso? La pura e orgogliosa militanza cattolica non funziona più, non scalda i cuori e non va alla profondità del problema, di quella “questione religiosa” che si pone con forza davanti a una Chiesa in cui inizia a soffiare impetuoso il vento del rinnovamento. Serve lavorare sulla pastorale per far sì che dall’irreligiosità non si passi alla scristianizzazione, percettibile nel contesto cattolico dell’Europa centrale e settentrionale. In Olanda e Belgio già nella prima metà del Novecento i vescovi guardava- no con preoccupazione i segnali di una crisi che solo qualche decennio dopo avrebbe assunto i contorni del dramma spirituale: “Avevamo un surplus di sacerdoti, ordini religiosi e congregazioni. Ma presto si è capito che le fondamenta di quella orgogliosa colonna cattolica erano molto meno solide di quanto sembrasse. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, la vita della Chiesa in Olanda si è rivelata essere basata soprattutto su costumi sociali e poco su un rapporto personale tra le persone e Cristo. Questo problema era stato avvertito già prima: anche negli anni Venti e Trenta, alcuni preti erano preoccupati dalla limitata profondità che aveva la vita religiosa in molti loro parrocchiani” confidava il cardinale Wim Eijk, arcivescovo di Utrecht e primate d’olanda.
Montini capisce che l’evangelizzazione non può limitarsi a comunicare la fede a chi non ce l’ha: serve un percorso di avvicinamento, un’azione “tesa a ravvivare la dimensione religiosa che in molti appariva smarrita”. Parole d’ordine sono dinamismo e uscita, andando alla radice del messaggio evangelico: non un complesso di precetti e dogmi, bensì una buona novella, attraente, capace di “riunire Dio all’umanità”. Tutti elementi che torneranno con forza durante il suo pontificato, pochi anni più tardi, in piena epoca conciliare, i tempi dell’evangelii nuntiandi, appunto, che Papa Francesco ha citato più volte – anche nel corso della trasmissione televisiva “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio – come il faro che deve illuminare la Chiesa pellegrina. Dalla dimensione cittadina, Paolo VI sposterà l’attenzione sul mondo. Ma le direttrici sono le medesime.

E’ in questi anni che avviene il distacco, prima lento e poi sempre più veloce, tra le campagne e le città. E’ allora che inizia il declino, acuito da una secolarizzazione che spezza inesorabilmente il ritmo della quotidianità scandito dal campanile. La Chiesa perde progressivamente le campagne, i giovani emigrano nelle città, nel cui ritmo folle sfuma la forza del focolare domestico che tutti, per secoli e secoli, riuniva. Arrivano gli anni del Concilio Vaticano II, delle enormi speranze riposte in esso, della ricerca affannosa ma entusiasta di un contatto con la modernità che sembra sopraffare la Chiesa ancorata alle sue antiche liturgie e a un mondo che ormai non è più quello di prima. Una Chiesa chiamata a rifarsi missionaria, ad andare al largo abbandonando fasti e gloria. E’ la constatazione che la cristianità è entrata in crisi; la crisi di un mondo mosso dalla tradizione e dalla dottrina che però non riescono più a far sussultare il cuore dell’uomo contemporaneo.
Se n’erano già accorti grandi padri della Chiesa tempo prima. Il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi nato nel 1874, quando Roma era stata da poco espugnata dal- le truppe sabaude e sul trono di Pietro sedeva ancora Pio IX, poco dopo la fine del Secondo conflitto mondiale scrisse un libro nel cui titolo infilò la parola “declino”, il declino della Chiesa. Domandandosi, altresì, se la sua Francia fosse diventata ormai una terra di missione al pari di quelle sterminate regioni del sud del mondo che da Parigi s’andava a evangelizzare con eserciti di religiosi e religiose. Attenzione, diceva Suhard: noi ci concentriamo sull’oltremare, sui popoli “giovani” da portare alla causa di Cristo, ma intanto stiamo perdendo il nostro.
Insomma, il problema era ben avvertito oltralpe mentre in Italia le folle ancora gremivano le chiese e le piazze. Ma era un’illusione. Si trattava, e la storia l’ha dimostrato, di una ritualità che diveniva sempre più fine a se stessa, certamente sostenuta da una fede vera e convinta, ma che al primo colpo giunto da un mondo in rapido mutamento iniziava a cedere. Mancava una proposta cristiana capace di intercettare lo sguardo dell’uomo che si vedeva catapultato in una realtà diversa da quella in cui era nato e cresciuto, la realtà dei suoi nonni e dei suoi genitori. Crollavano gli ordini religiosi, i gesuiti passavano dai 36.000 stimati nel 1966 ai 28.000 di dieci anni dopo, le monache benedettine calano numericamente del 37 per cento. Il tutto mentre si parlava, negli anni Sessanta, di una nuova primavera per la Chiesa, di un tempo nuovo favorevole che recepiva le istanze dell’uomo contemporaneo. Cos’è accaduto, allora? “Il rinnovamento post-conciliare dava più spazio ai singoli religiosi, a forme di vita meno conventuali, alla vicinanza alla gente, a sperimentazioni, al recupero delle intuizioni di fondazione […] si trattava di un passaggio, più che della nascita di una nuova stagione di vita religiosa, ma tale passaggio non fu senza conseguenze su opere, istituzioni e strutture gestite dai religiosi, che rappresentavano un patrimonio importante, in larga parte costruito con l’aiuto dei fedeli: queste realtà venivano talvolta chiuse, delegate ai laici, cedute, in certi casi svendute con poco controllo e senza una visione complessiva” ha osservato Andrea Riccardi. Ha preso forza quello che il filosofo Giovanni Fornero ha definito “lo scisma sommerso”, la separazione sempre più evidente e concreta fra la dottrina ufficiale espressa dalle gerarchie e la vita concreta dei fedeli. Non è una novità degli ultimi anni, basti pensare ai grandi dibattiti sull’aborto e sul divorzio e ora, seppure in maniera meno partecipata, la discussione sul fine vita: secondo un sondaggio del 2019, in epoca prepandemica, realizzato da Swg, il 45 per cento degli intervistati cattolici si è detto favorevole a una legge sull’eutanasia, il 43 favorevole “ma dipende delle condizioni”, solo l’8 per cento è nettamente contrario. Si pensi che nel 1997, venticinque anni fa, le percentuali erano ribaltate: il 58 per cento a favore, il 42 contrario.
Massimo Introvigne osserva che il crollo della partecipazione alla messa domenicale, i cui primi scricchiolii come detto s’erano visti negli anni del boom economico, mostrò la propria forza tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, epoca di radicali cambiamenti, per poi proseguire ineluttabile nei decenni a seguire. Man mano che le vecchie generazioni lasciavano spazio alle nuove, l’appartenenza scemava. Alla fine degli anni Sessanta, un giovane professore bavarese profetizzava nel corso di alcune trasmissioni radiofoniche che il destino del cattolicesimo in Europa sarebbe stato quello di una minoranza. Colta, autorevole, abbastanza ascoltata, ma pur sempre minoranza. Era Joseph Ratzinger, che non a caso – una volta divenuto Papa nel 2005 – punterà il proprio “programma” sulla necessità di procedere a una nuova evangelizzazione del Vecchio continente, istituendo addirittura un pontificio consiglio ad hoc. L’Italia, terra di papi e santi, ha resistito ai marosi della secolarizzazione che altrove avevano travolto tutto. O meglio, a guardare il bicchiere mezzo pieno, qui il declino è stato più lento e gli effetti della secolarizzazione mitigati dal substrato culturale che resta cristiano. Fino a quando?
Matteo Matzuzzi, il Foglio Quotidiano
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