La brutalità russa che ci provoca sgomento ha radici lontane. Nelle pianure d’occidente la forza trovò i suoi argini, in Russia ha continuato a scorrere in una piramide di paura. L’armata multietnica dell’impero sfasciato di Putin.

Una storia di violenza. Che gronda sangue dalle strade infangate e dagli scantinati e schizza fino ai nostri occhi. Davanti alla quale ci professiamo increduli (com’è stato possibile?) per non dover ammettere di essere atterriti. Perché la ratio della guerra, della politica, persino del male autocratico può essere incanalata in qualche zona della mente, delle parole. La violenza invece spaventa. Non è più, da tempo, una componente censita del nostro mondo. Se non per la cronaca, per le proxy war che orecchiamo distratti o per residui sociali magari nemmeno marginali, ma perimetrabili. Là invece no. “Prima li interrogate, poi li uccidete”. Se è vera – ma perché non dovrebbe essere vera? – la comunicazione intercettata tra un comando russo e i soldati che occupavano Bucha non ha nulla della guerra. E’ solo una storia di violenza. Giovedì l’assemblea generale dell’onu ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. Dei diritti umani: perché un conto è la guerra, ma questa ai nostri occhi è una faccenda diversa. E’ una storia di violenza.

Da giorni il profilo mongolo e il nome di Omurekov Asanbekovich, tenente colonnello comandante a Bucha e indicato come responsabile del massacro dei civili, sono entrati nella nostra sfera di conoscenza. Fotografie di corpi martoriati; testimonianze di giornalisti che hanno visto corpi martoriati; testimonianze di donne stuprate, racconti su donne stuprate e poi ammazzate; bambini ammazzati mentre cercavano di fuggire; immagini di scantinati adibiti a mattatoi. Servirebbe la penna dura e incalzante di Agota Kristóf per rendere l’idea dell’orrore: l’orrore di chi sta qui, da questa parte. Noi. Non abbiamo mai visto da vicino una storia di violenza? Certo che sì, fa parte delle nostre conoscenze, del nostro retaggio storico. Di Sant’anna di Stazzema dovrebbe ricordarsi persino l’anpi. Di bastardi con le stellette che amano l’odore del napalm al mattino è piena la Storia universale della complessità. Ma per noi la ferocia insana resta comunque una cosa misurabile e distanziabile – è successo allora, è accaduto lontano. Sebbene fosse accaduto anche a Srebrenica, che era più vicina. Com’è che l’orrore che ci ha investito, il suono e l’odore di quella violenza, ci appare adesso così incombente, minaccioso?

Omurbekov Asanbekovich

…..Oggi all’etnia burjati appartiene il boia di Bucha, Asanbekovich, comandante dell’unità militare 51460, 64esima brigata di fucilieri motorizzati: praticamente un esercito etnico della più grande minoranza di origine mongola della Siberia. Come etnico è l’esercito quasi privato dei ceceni di Ramzan Kadyrov. E’ lì, in quelle radici profonde, in quella storia di popoli guerrieri, che nel lunghissimo medioevo russo e fino alle soglie del Novecento la violenza bellica non ha mai conosciuto una vera limitazione statuale, un ordine se non feudale, gli eserciti come forze private degli zar. E’ lì che bisogna cercare l’inizio di quella storia di violenza e del nostro terrore sgomento.

La prima parte del libro di Anna Politkovskaja La Russia di Putin (riproposto da Adelphi) parla dell’esercito russo: “L’esercito del mio paese”. O, si potrebbe dire, parla di uno dei cerchi concentrazionari in cui sprofondano le radici dell’ex impero. Primi anni Duemila (il libro è del 2004), oggi. Le guerre cecene ancora in corso, ma quasi dietro le spalle. E’ un racconto agghiacciante, storie di violenze indicibili. Perché parla di “operazioni di pace”, non di zone di guerra.

Anna Politkovskaja

Ma ci sono 500 soldati di leva morti ogni anno, scrive. Di cui quasi solo le madri (sempre le madri) tengono la contabilità effettiva. Perché non sono morti in battaglia, ma per le sevizie subite dai superiori in caserma. Perché si sono suicidati. Perché sono stati lasciati morire senza cure, in condizioni subumane, da chi doveva aver cura della sua truppa. Provincia di Mosca, 4 maggio 2002: il soldato Cesnokov è interrato fino al collo nel cortile. Il maggiore Simakin urla che “quello è il solo modo per educare il soldato Cesnokov”. Quasi lieto fine: “Una volta fuori dalla fossa il soldato Cesnokov disertò”. I soldati russi che muoiono oggi in Ucraina, invece, rischiano di non tornare mai più a casa. Quello che Politkovskaja racconta è un sistema piramidale, animalesco più ancora che tribale. Una catena alimentare. I vertici depredano le risorse, impongono con brutalità e punizioni e ricatti il loro dominio, garantiti da un rapporto col potere politico cui interessa solo la stabilità nella ruberia generale delle risorse dell’esercito. Vi stupite dei racconti dei soldati ucraini, che quasi ridono dell’inefficienza di carri armati che si rompono, di bombe che non scoppiano, di fucili che non sparano? Gli ufficiali, a loro volta, si rifanno sui gradi inferiori e predano la loro parte di bottino, di fureria. E i sottufficiali sfogano la rabbia e la violenza belluina sui soldati, sui ragazzi di leva. I disgraziati. E’ mai esistito, nella storia della Russia, un sistema diverso? Forse un po’ sì, ma il degrado degli ultimi decenni ha sommato i metodi della brutalità antica con l’assoluta mancanza di controllo. La già scarsa efficienza è finita con l’armata rossa. E la gerarchia è la stessa violenta che conosciamo dall’Afghanistan, dalla Cecenia, dalla Siria.

“Quello che ha colpito l’immaginazione del mondo, nelle guerre russe degli ultimi decenni, è stata quella spietatezza indiscriminata, lo sfoggio di brutalità inutile, senza alcun criterio non soltanto di umanità, ma di ragionevolezza nell’utilizzare la forza bellica”, ha scritto sulla Stampa il 4 aprile Anna Zafesova. “La distruzione come metodo di conquista, lo sterminio come metodo di sottomissione di un popolo”. Cita il politologo Abbas Galyamov, secondo cui la strage di Bucha “è stata una violenza spontanea dei soldati e ufficiali russi per vendicarsi della propria umiliante sconfitta”.

Anna Zefesova

C’è indubbiamente, scrive Zafesova, il senso dell’umiliazione che è montato nei russi da quando hanno scoperto, trent’anni fa, che gli sconfitti della Guerra patriottica, i tedeschi, gli italiani, vivevano mille volte meglio di loro. Ma ovviamente non basta, la Russia resta un paese “dominato dai forti, le leggi sono riservate ai deboli”. I sistemi dittatoriali – ma anche lo zarismo era un sistema dittatoriale – si reggono sul mancato controllo che, seppur in modo imperfetto, le società civili e la politica possono esercitare. Più ancora, si reggono sulla piramide di violenza di cui ognuno accetta di subire la sua quota in cambio della possibilità di scaricarla su altri. Questa piramide di ingovernato sopruso che domina la società, le caserme, le carceri che sono ancora una derivazione del Gulag, ha una radice antica.

….Ma ne Ivan né gli altri zar, né Stalin e tantomeno Putin il pietroburghese sono mai risusciti a plasmare attraverso l’esercito un diritto della forza ben temperato. I cosacchi rimasero per secoli una sorta di esercito di ventura, a volte alleato a volte duramente perseguitato; sono gli stessi cosacchi dell’orda bolscevica di Babel’, che ne raccontò la ferocia molto più che rivoluzionaria, e mal gliene incolse. Lo stesso vale per i ceceni che affascinarono l’eroe del nostro tempo di Lermontov. Che tutto questo si rifletta sull’oggi, è un’altra scoperta che aumenta il nostro spavento. L’ambasciatore Stefano Pontecorvo, ex rappresentante civile della Nato in Afghanistan, ha analizzato su Repubblica il mistero poco misterioso di un aspetto della ferocia che sta alla base della piramide militare russa. Ed è proprio la sua mai governata componente multietnica. Nell’esercito l’etnia russa è volutamente una minoranza, pur essendo grande maggioranza nella nazione. Il 65 per cento dei soldati russi feriti censiti a Rostov, osserva Pontecorvo, non sono russi etnici. Eppure i russi (ortodossi) sono l’80 per cento, solo l’8 per cento i turcomanni, il 5 i caucasici mentre le altre 47 minoranze rappresentano spiccioli. Ma nell’esercito ben oltre la metà delle truppe appartiene a queste minoranze.

“La carne da macello dell’esercito russo, ma anche il grosso delle sue forze”, dice l’ambasciatore, è costituito “da queste minoranze che non sentono come propria la guerra dei russi”, poco disciplinabili al di fuori di un’obbedienza interna di clan. “Molti soldati provengono dal Daghestan, dall’Ossetia, la Buriatia”. Altro bacino di reclutamento importante è l’Astrachan, sono i discendenti dei tatari dell’orda d’oro che Mosca sottomise e si fece alleati militari e che ora sono parte di un esercito il cui tasso di ferocia è documentato persino dalle intercettazioni radio e dagli slogan scritti a vernice sui razzi sparati sulle teste dei civili del Donbas.

…. “Nel corso degli ultimi decenni”, scrive Pontecorvo, “del maggior benessere ha beneficiato la popolazione di etnia russa”. Mentre alle minoranze periferiche è rimasto il maggior risentimento e la leva militare come valvola di sfogo alla miseria.

….Oggi non possono non impressionare le facce dei giovani soldati ucraini, i ragazzi civili che stringono un fucile per difendere le case, le facce da adolescenti imberbi e spaventati dei soldati russi. E sempre l’infanzia di Ivan, il connubio mortale di giovinezza e guerra che la nostra cultura ha rimosso, o nascosto dietro a un monte di tabù e di parole. E’ in queste radici storiche, in questa separazione antropologica tracciata dai fiumi, che è madre anche della piramide della paura del potere russo, che risiede parte del nostro sgomento. E’ come se il mondo russo sia transitato nella contemporaneità attraverso il grande incubo rosso del totalitarismo senza aver mai incontrato un principio di moderazione della forza. L’ultimo romanzo di Tolstoj e il più politico, Resurrezione, può essere letto come un manuale di fine Ottocento per aspiranti rivoluzionari e descrive alla perfezione una catena che non si è mai spezzata. Dal sopruso sociale a quello della giustizia malata, al sistema carcerario a quello politico e militare al ruolo gregario e mistificatorio della chiesa ortodossa.

Sembrano le cronache di Anna Politkovskaja. Quella catena rimane inalterata, pronta a scaricare a terra la propria ferocia incontrollata in un impero etnico sfaldato in cui l’esercito continua a essere predatorio. Una donna, davanti alla sua casa bruciata, ha raccontato all’inviato del Corriere: “Sono diventati crudeli, ladri e assassini. Uno dei primi giorni uno di loro mi ha detto di stare attenta che sarebbero arrivate le squadre della polizia politica e sarebbe stato molto peggio per noi”….

Stralci dell’articolo di Maurizio Crippa, Il Foglio Quotidiano