AFFARISTA,POLIGLOTTA, AVVENTURIERO, ARCHEOLOGO: LA VITA DI SCHLIEMANN FA GIRARE LA TESTA SOLO A RACCONTARLA. A BERLINO, FINO AL 6 NOVEMBRE, UNA MOSTRA LO RICORDA.

Nell’ultimo decennio della sua vita, Heinrich Schliemann abitò la villa che si era fatto costruire ad Atene da Ernst Ziller, l’architetto sassone cui si deve il volto neoclassico della capitale greca tra Otto e Novecento. La chiamò «Palazzo di Ilio» e fece sistemare sul tetto ventiquattro statue. Aveva comprato i mobili a Vienna, i lampadari a Parigi; e da Livorno era giunta la squadra che avrebbe coperto i pavimenti di tessere musive. I saloni erano decorati in stile pompeiano; la sala da ballo grondava putti svolazzanti od operosi, intenti a disseppellire i tesori di Troia e Micene. Si notano una ragazzotta ignuda che regge una statuetta e un altro bamboccione con gli occhiali cerchiati di nero: sono Schliemann stesso e la moglie Sophia, e non si capisce se il grande archeologo si prendesse sul serio, magnificandosi oltre ogni ritegno, o volesse prendere in giro tutti.

È questa una delle tante scoperte che si fanno visitando la mostra sui «Mondi di Schliemann» presso il Neues Museum di Berlino: mostra che è soprattutto il racconto di una vita debordante di genio, di avventura, di coraggio, di avventatezza. La si percorre e si pensa che la storia di Schliemann (1822-1890), di cui ricorrono duecento anni dalla nascita, sarebbe di estremo interesse anche se non avesse scoperto Troia. È il carattere del personaggio a stagliarsi, il combinato disposto di megalomania e ingenuità che quei putti sul soffitto tradiscono.

Non è solo un’incredibile successione di fatti a comporre il ritratto dell’eroe: è la morfologia che l’accadere acquista attraverso la narrazione di sé, l’enfasi e il non detto, l’autobiografia e il nascondimento, la confessione e lo schermo. Autore di parecchi libri, epistolografo inesauribile, diarista, conferenziere: tutto in Schliemann edifica una mitografia di proporzioni, avrebbe detto lui, omeriche.

Figlio di un pastore protestante nello sperduto Meclemburgo; garzone di bottega a 14 anni, venditore al dettaglio di aringhe e distillato di patate; naufrago su una nave che mai giunse in Venezuela, raccolto su una spiaggia olandese (fu salvato ma ci rimise i denti); fattorino, apprendista, rappresentante di ditte commerciali a Amsterdam e poi a San Pietroburgo dove si mise in proprio, percorse la steppa in slitta nel gelo e fece fortuna trattando parecchi generi, soprattutto l’indaco, e dove diventò cittadino russo; salutista devoto ai bagni ghiacciati e al kumis (latte di giumenta fermentato); cercatore di fortuna nella Sacramento di metà secolo, sulle orme di un fratello morto in California; affarista capace di raddoppiare i milioni puntando sull’oro di prospezione; superstite dell’incendio che devastò San Francisco; pistolero dormiente sulla valigia dei lingotti; profugo a Panama dove se la cavò mangiando iguana e scimmia cruda; cittadino americano al momento di tornare in Russia e rilanciare la propria posizione sfruttando la guerra di Crimea (puntò sul salnitro, colorò con l’indaco le uniformi militari); principe dell’opportunismo immobiliare nella Parigi sventrata da Haussmann; esploratore della muraglia cinese raggiunta a gattoni su precipizî vertiginosi; più volte (si calcolano 559.845 chilometri percorsi e annotati) autore del giro del mondo. Tutto questo fu Schliemann, per tacer di Troia, Micene e Tirinto.

Tomba di Schliemann

Tre dati oggettivi permettono di ancorare alla realtà questo romanzo di Jules Verne. Il primo è il dominio delle lingue; il secondo è l’abilità dell’uomo d’affari; il terzo è la passione o meglio la venerazione (negli ultimi anni pregava Pallade Atena) per il mondo greco e per Omero. Schliemann capì, impiegato in una società di commercio ad Amsterdam, che solo il possesso delle lingue lo avrebbe fatto emergere. Inventò un proprio metodo, efficace e veloce per chi, come lui, avesse una memoria eccezionale. Leggeva ad alta voce, riconosceva i vocaboli, li riteneva a mente: imparò l’inglese su Ivanhoe di Walter Scott, il russo su una traduzione di Fénelon. Uno dopo l’altro, immagazzinò nel cervello i vocabolari completi di dodici lingue, e parziali di altre nove. Era un bluff? No: per scrivere pagine di diario in urdu, l’urdu bisogna saperlo. Quanto al talento commerciale, i milioni parlano per lui: aveva un tempismo, un intuito, una fiducia in sé tali da mettere a profitto qualsiasi impresa. E quanto alla passione, prima dilettantesca e poi sempre più scientifica, per Omero e il mondo greco, basti dire che usava l’Iliade, sul sito di archeologico di Troia, come noi usiamo Google Maps. Calcolava cosa e dove scavare secondo la compatibilità di spazi e tempi con il racconto omerico. Fece tanti errori, confuse stratificazioni e datazioni: ma tuttora resta il simbolo di quanto c’è di visionario e di intrepido nella ricerca del passato.

Presenta maschera di Agamennone

Aveva un punto debole? Altroché: si fidava delle donne, ne vedeva «solo i pregi e non i difetti». Si innamorava sempre di quella sbagliata: ragazzo, s’inventò un romance fiabesco con la figlia di un fittacamere, che non ne voleva sapere, e negli affreschi che decorano la villa di Atene c’è persino lei. A San Pietroburgo incappò nella russa fatale e fu un disastro: riuscì a ottenere il divorzio trasferendosi a Indianapolis e facendo valere la legge americana. Maturo, incaricò l’arcivescovo di Atene, suo amico, di trovargli la giovinetta ideale: bella, greca e appassionata dell’antico. Il prelato gli presentò una sedicenne di ottima famiglia, che venne interrogata su quando l’imperatore Adriano giunse in Atene e cui fu imposto di recitare Omero a memoria. Passata la prova, fu un matrimonio felice e complice. Lei partecipò alle imprese archeologiche; ebbero due figli, chiamati, le povere creature!, Andromaca e Agamennone.

Schliemann morì a Napoli: collassò per strada, vicino a piazza della Carità, il giorno di Natale del 1890. Era solo. Soccorso, non gli trovarono documenti e soldi in tasca, ma la ricevuta di una visita medica permise di identificarlo. Gli abiti parlavano di un povero, non di uno degli uomini più ricchi del mondo. Lo portarono a braccia nella hall del Grand-Hôtel in piazza Umberto e lì lo vide Henryk Sienkiewicz, lo scrittore, che vi alloggiava. «Poco dopo il direttore dell’albergo venne da me e mi chiese: “Lo sa, Signore, chi era?”. “No”. “Era il grande Schliemann”. Il povero grande Schliemann!».

Francesco Maria Colombo Il Sole 24 Ore domenicale