La riscoperta di Rosa Bonheur: pittrice famosa quando le donne nell’arte erano poche e mal viste, indossò i calzoni in pieno ’800, diventando icona dell’emancipazione femminile.
La riscoperta di Rosa Bonheur, pittrice francese icona dell’emancipazione femminile.
Prima che animalier diventasse, nel 1947, il sorprendente tema della passerella a stampa leopardata di Dior, il termine francese indicava quegli artisti “di genere” specializzati nel ritrarre soggetti del mondo animale. La definizione era stata coniata dalla critica nel 1831. Quegli artisti realizzavano bronzetti che raffiguravano cavalli, tori, leoni o bestie che sbranavano leprotti, molto apprezzati nell’800. Più il bestiario era finemente tratteggiato, più il peintre animalier o lo scultore raggiungevano una vasta platea di compratori.
CELEBRE, MA DIMENTICATA.
E poi arrivò lei, Rosa Bonheur (1822-1899), pittrice francese di cui quest’anno ricorre il bicentenario dalla nascita, ricordata in due importanti mostre, una a Bordeaux, la sua città natale, e l’altra a Parigi, al Museo d’Orsay.
«C’è chi parla di genio, soprattutto nel disegno. Era capace di disegnare un animale a memoria o a partire da foto che lei stessa scattava. Gli esperti dicevano che sfidava i dagherrotipi. I suoi disegni erano in effetti così vicini al reale che oggi sono usati per studiare le caratteristiche di specie animali ormai estinte», racconta la sua biografa Marie Borin, autrice di Rosa Bonheur, une artiste à l’aube du féminisme (Pygmalion). Ma soprattutto era «una grande artista e una grande personalità. Le sue esperienze di vita di donna e pittrice sono indissociabili». Eppure, negli anni, di Rosa Bonheur si era persa ogni traccia.

La peintre animalière venne al mondo il 16 marzo 1822. Sua madre, Sophie Marquis, era figlia adottiva di un ricco commerciante bordolese, Jean-Baptiste Dublan de Lahet. Suo padre, Raymond Bonheur, pittore paesaggista, era amico di Francisco Goya, il più grande artista di Spagna, che viveva in esilio proprio a Bordeaux.
Fu il papà ad avviare Rosa all’arte fin da piccola, così come fece con gli altri tre figli e con l’ultimo figlio di secondo letto. Questo fece la fortuna di Rosa, che si ritrovò giovanissima con la prospettiva di un mestiere in mano. La cosa le sarebbe tornata utile, perché presto la famiglia avrebbe conosciuto la miseria e a 11 anni la ragazzina avrebbe perso la madre.
Il padre di Rosa era un seguace delle teorie di Saint-Simon, il filosofo pioniere del socialismo che aveva benedetto la manifattura, gli operai e gli imprenditori, insomma i ceti produttivi, come unico elemento di salvezza nella società della Restaurazione, contro il retaggio dell’Ancien Régime costituito dagli oziosi nobili, preti e cortigiani. Il sansimonismo aveva prodotto, oltre a una società segreta, l’esaltazione del ruolo femminile, una vera novità, e Rosa se ne era nutrita nel corso delle lunghe letture di scritti liberali cui il padre la sottoponeva.
Quando però la setta sansimoniana era approdata a un “nuovo cristianesimo” comunitario, Raymond Bonheur si era ritirato per due anni, con gli altri apostoli di questo credo per spiriti coltivati, nel convento parigino di Ménilmontant. Il loro obiettivo era la presa del potere in modo non violento, con la diffusione di una dottrina alla cui base c’era l’attesa di un messia donna. Ma mentre papà pregava mistiche figure femminili, la famiglia cadeva nella povertà estrema, affidata alle sole forze di mamma Sophie. Infatti era venuto meno anche il sostegno economico del nonno Dublan de Lahet, che sul letto di morte, nel 1830, aveva confessato a Rosa di essere il suo vero padre. Il dramma era servito.

AL LAVORO DA PICCOLA.
Il mondo dell’accademia la accolse dove si mangiava, si riceveva, si studiava. In questo processo di proletarizzazione della famiglia Bonheur, qualche vantaggio comunque c’era: frequentando i sansimoniani Rosa era entrata in contatto con un ambiente di banchieri e industriali, medici e ministri, fondatori di compagnie ferroviarie e segretari di gabinetto del Secondo Impero che Napoleone III avrebbe instaurato di lì a pochi anni. Erano tutti seguaci del filosofo socialista, ma ben introdotti nei gangli del potere. Un milieu colto e di larghi mezzi, in grado di apprezzare la sua arte.
“A ciascuno secondo le sue capacità, a ogni capacità secondo le sue opere”, predicava Saintsimon. E Rosa prese questi dettami alla lettera, tirando fuori pennelli e colori.
Figlia amata e coccolata, finché c’erano stati i soldi, aveva trascorso l’infanzia come un maschiaccio, giocando con i fratelli e rifiutando i libri. La sua meta preferita erano le fattorie piene di bestiame dove la famiglia passava le domeniche. Per aiutarla a leggere, sua madre le faceva associare le lettere dell’alfabeto all’immagine degli animali, che la bambina riproduceva sulla sabbia. E questo fu la sua fortuna, combinata all’unica disciplina che la legava a un impegno quotidiano, la pratica casalinga del disegno, la copia ripetuta e ossessiva di modelli forniti dal padre. Come disse la stessa Rosa alla sua ritrattista e biografa Anna Klumpke, i soli insegnanti che aveva avuto erano stati “il padre e la natura”.
A PARIGI.
Il trasferimento nella capitale nel 1829, aveva aggiunto qualcosa alla sua formazione, dando modo a Rosa di studiare dal vivo le opere dei grandi maestri esposte nelle sale del Louvre. La giovane subiva il fascino dei dipinti nordici del ’600 a tema animale, leggeva trattati di storia naturale e cercava di riprodurre con precisione l’anatomia delle bestiole di cui si circondava. La misero a lavorare come sartina, ma non funzionò. Lei voleva disegnare, e il padre si vide costretto a prenderla nel suo atelier. La incitava a fare sul serio e superare in bravura le grandi ritrattiste del Settecento, come Élisabeth Vigée-Lebrun. Lei gli diede retta e nel 1841, a 19 anni, fece il suo ingresso al Salon, la maggiore istituzione artistica francese, con un paio di tele: una riproduceva i Deux lapins, due conigli (oggi al MUSBA, Musée des Beauxarts di Bordeaux). Erano opere la cui minuzia quasi fotografica meritò subito ottime critiche e riconoscimenti nel mondo della pittura accademica. In capo a qualche anno, fu chiaro agli esperti che la Bonheur aveva superato i maestri. Da allora divenne una delle figure maggiori della scena artistica dell’epoca.

La Seconda repubblica, nata sulle barricate di Parigi nel 1848, le fece una commessa importante, un soggetto rurale: Aratura nelle campagne di Nevers (oggi esposto al Museo d’Orsay), acclamatissimo al Salon del 1849. Era l’epoca del Neoclassicismo, dei grandi soggetti storici, della peinture d’histoire – che riproduceva le scene bibliche e le grandi battaglie, i cavalieri medievali e i miti antichi –, considerata allora il vertice dell’arte. La Bonheur voleva portare i suoi animali allo stesso livello, e ci riuscì.
TRAVESTITA.
Rosa aveva assistito alla morte della madre, che nel 1833 si era spenta per consunzione lavorando come una bestia per sopperire al mancato sostegno del marito. Marie Borin riporta così le parole dell’artista: “Mia madre, questa donna cresciuta come una principessa, morì di povertà e di fame, mentre mio padre predicava il bene dell’umanità tra i sansimoniani”. Quindi, aveva maturato la convinzione che una donna doveva contare solo su se stessa, senza aspettarsi nulla da un uomo. Eppure c’era un luogo dove, pur con tutta la sua grinta, Rosa aveva bisogno di prendere in prestito gli abiti maschili. Stava preparando studi sui cavalli, ma per ritrarre la loro potenza e i muscoli guizzanti doveva approfondirne l’anatomia.

Dove trovare cavalli sezionati per copiare dal vero tendini e garretti, colli e dorsi arcuati? La soluzione era il mattatoio pubblico. Così, per frequentarlo senza rischiare offese o peggio, vere e proprie aggressioni, scelse di indossare pantaloni e casacca, la stessa mise che aveva usato in campagna da bambina.
Peccato che a Parigi i calzoni fossero vietati alle donne, pena l’arresto immediato. Dovette quindi chiedere un “permesso di travestimento” alla polizia. Permesso che arrivò: la Bonheur fu autorizzata a mettersi in calzoni per un periodo di sei mesi, “per ragioni di salute” e a condizione che non usasse il travestimento per andare a “spettacoli, balli e altri luoghi di riunione aperti al pubblico”. L’ex maschiaccio arrivò così a vestirsi da uomo in ossequio alla pittura. E finì per non abbandonare più quella pratica tenuta.
Questa determinazione nell’affrontare il lavoro le portò in fretta grandi risultati. Il suo Mercato di cavalli (oggi al Metropolitan di New York) le valse fama mondiale. Nel 1865 l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, visitò il suo studio, nel castello di By a Thomery, per conferirle la Legion d’onore. Era la prima artista a riceverla.
Oggi il castello è sede del museo a lei dedicato. Si trova vicino a quella foresta di Fontainebleau dove gli impressionisti avrebbero imparato a dipingere en plein air. Ma Rosa lo faceva già prima di loro: aveva riempito i suoi giardini di animali e si era fatta costruire piccoli atelier nel bosco, quasi casine delle fate, che le servivano per ritrarre da vicino il suo zoo. Morì in quella casa all’età di 77 anni.

IL RAPPORTO CON LE DONNE.
Per i biografi del Novecento non c’erano dubbi: Rosa Bonheur era una femminista ante litteram; ed era omosessuale, cosa che invece lei negò sempre. Questa voce, secondo l’artista era «una falsa interpretazione della sua vita e un’incomprensione totale», come riferisce la biografa Marie Borin.
Femminista lo fu di certo, perché il suo obiettivo era “relever la femme”, come diceva lei stessa, ovvero spingere la donna, aiutarla a rialzarsi, a raggiungere l’emancipazione sociale e l’indipendenza finanziaria: “Voglio guadagnare tanti soldi, perché non c’è null’altro che possa fare per fare quello che voglio”, diceva dopo aver conosciuto la miseria. La drammatica fine dell’amata madre, umiliata e morta di fatica o di malattia – forse di colera, poco importa – ma comunque sepolta in una fossa comune nel cimitero di Montmartre, aveva portato Rosa a scegliere il lavoro. E il nubilato.
AMICHE E SODALI.
Si sentiva più vicina agli animali, suoi compagni di vita fino alla fine, che non agli uomini, fonte di grandi delusioni. Ma ebbe comunque al suo fianco una grande amica, Nathalie Micas, che conobbe a Parigi nel 1836, all’età di 14 anni. Abbandonò la famiglia per andare a vivere a casa dei Micas: il padre dell’amica la spinse ad aprire un suo atelier, la mamma la trattò come figlia e ne curò gli interessi. Nathalie fu la sua compagna? Può darsi. Dopo 53 anni di convivenza, solo la morte di lei le separò. Ma il loro fu soprattutto un progetto di lavoro (anche Micas era pittrice), di sorellanza ed emancipazione. Con una motivazione in più. Nathalie era figlia illegittima: sua madre Henriette era stata cacciata di casa a 17 anni e sposando Micas era sfuggita al triste destino delle ragazze madri, la prostituzione. Anche per questo Nathalie aveva la stessa missione di Rosa: migliorare il destino delle donne.
Quando Anna Klumpke, validissima pittrice, fece il suo ingresso nel castello di Thomery per ritrarre l’anziana artista, questa la incaricò anche di prendere appunti per scrivere la sua biografia (Rosa Bonheur, sa vie son oeuvre, pubblicata in Francia nel 1908). In capo a un anno, la pittrice era morta, ma aveva destinato alla sua giovane sodale un lascito importante di opere e una missione da portare avanti.
Lidia Di Simone per Focus Storia
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