ZELIG

28 Apr 2020 | 0 commenti

MEMORIE RETICENTI DI UNO ZELIG IMPENITENTE, CHE SI NASCONDE DIETRO L’IRONIA E BATTUTE FULMINANTI, TRA RIMPIANTI E SCETTICISMO: UNA STORIA DI VITA PIENA DI NIENTE ?


È un peccato che il libro di memorie di Woody Allen, intitolato A proposito di niente, sia stato accolto da un’attenzione mediatica focalizzata sulla controversia con Mia Farrow, perché è un testo ricco di spunti interessanti per comprendere la personalità di un grande del cinema, oggi vittima, a mio avviso, di un assurdo ostracismo. È necessario tuttavia riassumere la vicenda, dal momento che è lo stesso cineasta a scriverne nel libro, la cui dedica recita: «A Soon-Yi, la migliore. Pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno». Nel 1992 la Farrow scopre che Allen, suo compagno da dodici anni, aveva una relazione con Soon-Yi, da lei adottata insieme al precedente marito Andre Previn.

Da allora sono passati 28 anni: Allen e Soon-Yi si sono sposati e hanno avuto due figlie, mentre l’attrice ha lanciato l’accusa, gravissima, di molestie sessuali nei confronti di Dylan, altra sua figlia adottiva. Allen è stato scagionato due volte, e in occasione della seconda sentenza il giudice ha accusato la Farrow di aver plagiato i figli contro l’ex-compagno: nel libro Allen rivela che «anche l’avvocato di Mia ha dichiarato pubblicamente di non sapere se le molestie si siano verificate o siano frutto dell’immaginazione di Mia». Da 1993 non è più successo nulla, ma in occasione del caso Weinstein, Allen è diventato l’oggetto di una violenta campagna da parte del figlio avuto con la Farrow, il cui nome era Satchel ma è stato cambiato in Ronan Farrow dall’attrice, la quale ha dichiarato di averlo concepito con Frank Sinatra, altro suo marito e idolo del regista newyorkese, al punto che in Manhattan lo indica tra i motivi per cui vale la pena vivere.

La campagna di Ronan ha fatto del cineasta un «paria» al punto che Hillary Clinton rifiutò un contributo elettorale per la campagna presidenziale. All’epoca Allen rimase malissimo, ma ora replica con ironia: «con Soon-Yi non abbiamo potuto fare a meno di chiederci se con cinquemila dollari in più da spendere avrebbe potuto vincere in Pennsylvania, Michigan o Ohio».
Oggi fa impressione leggere quanto Allen sia ferito dallo stesso mondo intellettuale che lo idolatrava, in particolare quello che gravita intorno al New York Times, ma è con l’ambiente del cinema che si è aperto un conflitto irreparabile. La campagna di Ronan Farrow ha bloccato la distribuzione americana dei suoi film e generato ritrattazioni grottesche da parte di attori che hanno lavorato con lui molti anni dopo il 1992: Timothée Chalamet è arrivato a devolvere in carità il compenso ottenuto in Un giorno di pioggia a New York, e Allen racconta che l’attore ha «giurato di averlo dovuto fare perché era in lizza per l’Oscar con Chiamami col tuo nome, e lui e il suo agente avevano pensato di avere maggiori chance di vincere prendendo le distanze». Il cineasta parla con sarcasmo di «cittadini benintenzionati, infiammati di sacra indignazione: sembravano non vedere l’ora di schierarsi in una battaglia di cui non conoscevano nulla facendo a gara a chi fosse il più integerrimo». Poi conclude con una battuta che gli creerà nuovi nemici: «erano contro la pedofilia e non avevano paura di dirlo ad alta voce, soprattutto alla luce della nuova scoperta scientifica per cui la donna ha sempre ragione». La sua tesi è che la Farrow, sconvolta per la vicenda di Soon-Yi, sia accecata dall’odio al punto da trasformare l’aver tenuto sul grembo Dylan mentre guardavano la televisione in una molestia sessuale. Nella pagina meno nobile del testo, Allen racconta che Ronan è morbosamente attaccato alla madre, al punto che i due dormivano insieme nudi fin quando lui aveva undici anni.


Si tratta fortunatamente solo di un passaggio, perché il libro è in realtà il racconto vivido di una vita intensa e fortunata, che Allen offre al lettore con una profondità che nasce dalla leggerezza. Esemplare il racconto della serata in cui vinse il primo Oscar per Io & Annie, quando rimase a New York a suonare il jazz e scoprì quanto era successo dai giornali: chi lo conosce sa che non è affatto snobismo. Allen, che ha iniziato la propria carriera scrivendo testi per Sid Caesar e Mel Brooks, ha sempre avuto un notevole talento narrativo, come dimostrano gli esilaranti libri scritti in precedenza e i numerosi pezzi pubblicati sul New Yorker. A proposito di niente riesce ad essere divertente anche nel modo in cui riesce a sdrammatizzare la nuova condizione di paria: «Non nego che arrida alle mie fantasie poetiche il fatto di essere un artista il cui lavoro non viene visto nel suo paese e, vittima di un’ingiustizia, è costretto a cercare il proprio pubblico all’estero. Pensate a Henry Miller, D.H. Lawrence, James Joyce. Mi vedo al loro fianco, con uno sguardo di sfida. È a questo punto che mia moglie mi sveglia e mi dice: “Stai russando”». A cominciare dal titolo, ribadisce una concezione della vita assolutamente cupa, nella quale l’ironia, spesso geniale, rappresenta il modo di alleviare il dolore dell’esistenza.

Allen con Soon-Yi

Allen non cede alla disperazione, ma sa che la vita regala poche consolazioni, e le ha elencate nel finale di Manhattan: «Frank Sinatra, Groucho Marx, Marlon Brando, Joe Di Maggio, Louis Armstrong, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, i film svedesi, le pere e le mele dipinte da Cezanne, l’Educazione Sentimentale di Flaubert, i granchi mangiati da Sam Woo e il volto di Tracy», che in quel film era la donna amata e, bisogna ricordarlo, ancora una liceale. Allen mescola l’highbrow e il lowbrow e avvisa che è fondamentale saper cogliere ogni momento, altrimenti la vita appare nella sua realtà tragica. Manhattan si concludeva con le parole «bisogna aver fiducia nella gente», ma quell’anelito di speranza arrivava dopo che aveva dichiarato di raccontare «la gente a Manhattan che si crea problemi inutili e nevrotici per non occuparsi delle più insolubili e terrificanti questioni universali». Anche in A proposito di niente Allen conferma di avere uno sguardo che nega ogni trascendenza, e suggerisce di adattarsi a sopravvivere con poche cose: «basta che funzionino», per citare il titolo di un altro suo film.

Woody con Mia Farrow


Il libro consente di approfondire il suo rapporto con Manhattan: nativo di Brooklyn, Allen la celebra come un luogo idealizzato, e, non diversamente dal film che le ha dedicato, dichiara di amarla sproporzionatamente. Il realismo delle ambientazioni evita che divenga l’isola che non c’è di Peter Pan, tuttavia sembra che voglia preservala dal dolore e dalla solitudine: è un approccio simile a quello della protagonista della Rosa Purpurea del Cairo, dove la città adorata è un sogno in bianco e nero nel quale fuggire prima di tornare a una quotidianità grama. È una tragedia buffa, quella che ci propone ancora una volta Woody Allen, dominata dall’ingiustizia e dal caso, dove soltanto l’amore può offrire la possibilità di riscatto, o quanto meno l’illusione. Giunto al tramonto della vita, sceglie la tenerezza di Broadway Danny Rose sulla cupezza di Crimini e Misfatti, ma i passaggi esilaranti non stemperano la mestizia dell’assunto: invece di considerare il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto afferma di vedere «la bara mezza piena».

Una scena del film Provaci ancora Sam con  Diane Keaton


Sono molti i retroscena sui film e sui legami sentimentali, ma Allen rifiuta l’aneddoto fine a se stesso preferendo le battute fulminanti: durante la cerimonia matrimoniale ha detto alla prima moglie Harlene Susan «sì lo voglio» con lo stesso tono con cui Orson Welles pronunciava Rosebud (nella versione italiana Rosabella) in Quarto Potere. Illuminante il seguito: «mi sembrò di sentire una porta blindata chiudersi sulla mia vita. La porta di un sepolcro. Sì, amavo Harlene, ma non avevo idea di cosa fosse l’amore». Tra le pagine migliori ci sono quelle dedicate a Diane Keaton, che gli è stata fedele nel momento più difficile, ma forse le più rivelatorie sono quelle relative alla famiglia. Apprendiamo che il padre, «un ebreo piccolo di statura che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno» rubò un anello a una cugina della madre in vista del matrimonio: aveva frequentazioni inquietanti e amava sparare, al punto che in guerra fece parte di un plotone di esecuzione che fucilò un commilitone che aveva violentato una ragazza.

Una scena del film Pallottole a Broadway con John Cusack, Dianne Wiest

Come succede a molti protagonisti dei suoi film la madre lo malmenava ogni giorno: «non era una gran bellezza. Quando anni dopo ho detto che assomigliava a Groucho Marx, tutti hanno pensato che scherzassi». Degne di Prendi i soldi e scappa le pagine in cui li descrive insieme: «non c’era nulla su cui andassero d’accordo, a parte Hitler e le mie pagelle. Eppure, malgrado i massacri verbali, rimasero sposati per settant’anni – giusto per farsi dispetto, immagino. Ciò nonostante, sono sicuro che a loro modo si amassero – in un modo forse noto solo ad alcune tribù di cacciatori di teste del Borneo». Nelle ultime pagine il tono mescola la leggerezza alla malinconia, come era successo nel finale di Io & Annie, dove diceva «così guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di infelicità… e disgraziatamente dura troppo poco». A distanza di più di quaranta anni il sentimento è rimasto analogo, e Allen saluta i lettori componendo una lista delle persone che avrebbe voluto essere, che vanno da Bud Powell a Fred Astaire, o «chi ha scritto Un tram che si chiama desiderio». Ma poi dichiara di preferire la vita rispetto a quello che lascerà come artista: «vivere nel cuore e nella mente del pubblico non mi importa niente, preferisco vivere a casa mia». —

Articolo di Antonio Monda La Stampa

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