Birgit e Francesca

20 Ago 2015 | 0 commenti

Birgit Jürgenssen: voglio uscire di qui

Birgit Jurgenssen: voglio uscire di qui

Presso le sale di Merano Arte fino al 20 settembre sono in mostra le opere di due artiste che hanno caratterizzato con i loro lavori gli ultimi decenni del secolo scorso: Birgit Jürgenssen  e Francesca Woodman.

Nel catalogo di presentazione, si motiva l’accostamento fra le due artiste con queste parole: “ Nonostante non si siano mai incontrate, numerosi sono i parallelismi possibili tra le loro opere: la messa in scena del soggetto, la fragilità dell’esistenza umana e soprattutto il confronto critico con la tematica del corpo femminile nell’espressione artistica. Le fotografie performative realizzate dalle due artiste sono state scattate nella sfera protetta dell’atelier, solitamente utilizzando l’autoscatto. Entrambe si sono avvalse di pratiche di matrice surrealista per emancipare il loro linguaggio espressivo e hanno utilizzato il corpo come strumento formale per interrogare e mettere in discussione il proprio essere e la propria identità, ma anche per delineare una nuova immagine della donna. Il corpo nella loro opera è concepito tutt’altro che come “natura” o “oggetto sessuale”, è opera d’arte in sé.”

In realtà, fra le due artiste il parallelismo è forzato, sia per storia personale, sia per profondità  e modernità di linguaggi, sia per esiti artistici.

Birgit è austriaca, nata alla fine degli anni quaranta, con studi a Berlino e New York, moglie di uno scultore, diventa insegnante di arti applicate e poi docente di lungo corso all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Apprezza l’opera di Antonin Artaud, dei surrealisti e studia l’etnografia di Lévi-Strauss, movimenti  e studi in voga negli ani ’70. Nel 1988 fonda un gruppo di  artiste donne con il quale espone in numerose mostre.  Nel 2001 si scopre un cancro al pancreas, che l’anno dopo la porterà alla morte. Artista eclettica, ha adottato molti linguaggi e tutte le tecniche espressive, ivi  compresa la fotografia, producendo una mole impressionante di opere (oltre 3 mila), non sempre di qualità. Come lei stessa dichiara, alla fine “ciò che conta è un buon disegno, una buona foto, il buon lavoro”. L’opera antologica permette uno sguardo d’insieme da cui emergono delle singolarità, che non sono legate alla tematica del femminismo, oramai desueta chiave di lettura, quanto alla ricorrenza ( in particolare negli acquarelli o nelle tempere) un poco ossessiva di oggetti, al limite del feticismo, quali scarpe e scarpine di ogni foggia e colore, con tacchi a spillo, fibbie, cinturini e borchie. Il tratto, un poco infantile, i colori pastello, l’assenza di ogni elemento espressivo che non sia la semplice riproduzione, ne fanno una galleria di oggetti da “stanza delle bambole”,  illustrazioni adatte per un libro di bambine.  Ben altro messaggio comunicano i quadri e le foto dove l’ambiguità del disegno riporta alla esibizione di parti anatomiche, in particolare il pene, o alla giustapposizione dell’immagine femminile ad un teschio posto in primo piano. Sempre nelle serie delle opere “ anatomiche” o che si rifanno a parti del corpo, mai visto intero, come nell’opera della Woodman, degne di nota sono le rappresentazioni di labbra, fessure, orifizi sigillati o cuciti, in cui il gioco grafico passa in secondo piano e il significato si carica di dolente seppure muta denuncia.

Francesca Woodman in un suo autoscatto

Francesca Woodman in un suo autoscatto

Tutt’altra storia quella di Francesca Woodman, nata una decina di anni  dopo, ma morta giovanissima, suicida, nel 1981. Americana di Denver, Colorado, figlia di artisti amanti dell’Italia, con casa in Toscana. Francesca passa i primi anni dell’infanzia nel nostro paese, in cui ritorna del 1977, gli anni che in Italia si ricordano per il terrorismo e le stragi di stato. Veronica Vituzzi, nel suo articolo Vita, avventure e morte di Francesca Woodman,  ricorda i suoi primi passi a Roma, alla libreria Maldoror. (vi consiglio di leggere il blog di Veronica Vituzzi Lo sguardo di Orlando https://veronicavituzzi.wordpress.com/)

“ Un giorno qualsiasi del 1977 una ragazza entra nella libreria romana Maldoror e porge al proprietario, Giuseppe Casetti, una scatola grigia esclamando “Sono una fotografa”. La giovanissima donna, nemmeno ventenne, si chiama Francesca Woodman.”  Cinque anni dopo la sua morte,  “viene organizzata la sua prima mostra postuma, e presto la critica femminista del tempo si appropria della figura della giovanissima e geniale artista suicida – come feticcio ideale per un discorso critico incentrato sull’esposizione del corpo femminile nudo utile a decostruire lo sguardo maschile…… Negli ultimi anni la figura della fotografa in Italia ha avuto un gran ritorno di interesse, e questa [Roma] è solo l’ultima di una serie di esposizioni monografiche dopo quelle di Siena e Milano nel 2009-10. Che questo sia indice di una volontà di ritornare su un’esperienza che in parte si è realizzata proprio in Italia, o al contrario il segno di una crescente mitologizzazione della sua figura artistica, è un dubbio non ancora chiarito.”

Dai documenti recuperati e messi a disposizione dai suoi amici, emerge il modo di lavorare di Francesca. Scrive sempre Vituzzi: “ la fotografa, solita a scattare solo dopo una minuziosa pianificazione di ogni singola immagine, racconta e disegna agli amici passo per passo le proprie idee…. volumi d’arte, antiche stampe, fotografie surrealiste allora inedite ritrovate nella Libreria Maldoror, costituirono un background che influenzò attivamente la sua opera a metà tra esercizio scolastico ed elaborazione indipendente.”

Quali le idee chiavi del lavoro di Francesca Woodman, secondo la Vituzzi?: “ ..in primis l’attenzione alla costruzione formale dell’opera che si traduce in “un’equazione” da risolvere. Non a caso il libro Some Disordered Interior Geometries è composto da una serie di fotografie che si relazionano ai precetti di un vecchio libro scolastico di geometria in forma di elaborazioni concrete di concetti ideali. Nelle sue fotografie Woodman non espone il corpo nudo in quanto sovrastruttura culturale; piuttosto, lo utilizza sempre e solo in relazione con l’ambiente naturale o architettonico circostante, che lo confonde – alberi, carta da parati, la deformazione derivante dall’immagine sfocata nel movimento – o come lei stessa dice, lo assorbe. Concetto di basilare importanza per rivedere il legame tra Woodman e il femminismo, poiché, malgrado questa sia tuttora l’analisi più popolare, quasi uno standard interpretativo, nel tempo guardando con maggiore attenzione al suo lavoro l’associazione diretta dell’artista alla lettura femminista è apparsa sempre più una eccessiva semplificazione, motivo per cui si è poi gradualmente sviluppata una visione alternativa rivolta maggiormente ai valori formali e alle influenze surrealiste presenti nella sua opera.”

Un'opera di Francesca Woodman

Un’opera di Francesca Woodman

Il richiamo al surrealismo o al femminismo, giustamente, vanno relegati ad antecedenti culturali che solo marginalmente hanno interessato l’opera di Francesca Woodman. Il richiamo alla Body Art, movimento nato negli anni ’60 negli Stati Uniti, che pone il corpo come mezzo di espressione artistica, se non addirittura come opera d’arte in sé, è sbagliato per due motivi. Il primo, riposa nel dualismo fra corpo e mente, o se volete coscienza, che il cattivo maestro Spinosa ha introdotto nella cultura Occidentale.  Nelle fotografie di Francesca non ce n’è traccia, anzi. Parlare di sogno o inconscio, se questo vuole dire andare oltre la realtà, è altrettanto sbagliato. E’ semmai vero il contrario, e questo è il secondo motivo.

Francesca Woodman Untitled

Francesca Woodman Untitled

Le ambientazioni di Francesca (si veda dalle poche sue immagini che pubblico a corredo di questo articolo) realizzano una fusione fra corpo e ambiente. Non è mimesi, una epidermico diaframma, non è esposizione nuda e cruda, è una simbiosi dove non c’è un dentro e un fuori, ma una fusione che ci fa sentire parte del tutto. Anche quando questo tutto è una stanza disadorna o squallida, un riflesso in uno specchio o un’orma su un pavimento, il segno di un passaggio senza volto né nome. Da qui l’attualità del lavoro di Francesca Woodman: una visione olistica sconosciuta o poco frequentata dalla cultura artistica dominante anche oggi. Altro che il corpo inteso come “segno formale”,  come recita il catalogo della mostra meranese.

“Alcune disordinate geometrie interiori” è il titolo dato ad  un libro di geometria per le scuole elementari su cui Francesca aveva inserito 15 sue fotografie. Disordine sì, forse lo stesso che l’ha portata a porre fine prematuramente alla sua vita, ma inserito in una geometrica bellezza, confuso nelle regole  auree che reggono quanto ci circonda e che ci appartiene, come noi apparteniamo a lui.

Sul tema delle strane coppie, della pratica degli autoscatti, nonché alcune considerazioni critiche sull’opera di Francesca Woodman potrete trovarle nell’interessante e documentato articolo di Marco Pinna, nel suo blog Fuori fuoco, all’indirizzo http://pinna-national-geographic.blogautore.espresso.repubblica.it/tag/nan-goldin/

 

 

 

 

 

 

 

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