UNA VOCE DEL PASSATO

9 Nov 2023 | 0 commenti

Consegnare le chiavi di una stanza che contiene i tuoi ricordi a un filmmaker è un atto di coraggio e forse di abbandono. Lasciarsi riprendere mentre quella porta «mai varcata» si apre e le chiavi passano di mano suggella un patto. Joan Baez quel patto l’ha sottoscritto e, sostiene, non se n’è pentita. «Lì dentro c’era una miniera d’oro» dichiarerà, a film finito, Karen O’Connor, una delle tre registe di Joan Baez. I am a Noise, presentato nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale, appena uscito nelle sale americane e, il 4 novembre, a Firenze ad aprire il Festival dei Popoli.

Centinaia di pagine di scritti e lettere, filmati e fotografie di famiglia, schizzi, registrazioni audio, sedute di psicoterapia e ipnosi comprese. Se la vita pubblica della musicista che ha incarnato la coscienza sociale di un Paese e la spinta contro culturale della generazione del dopoguerra appartiene a chi l’ha seguita in 60 anni di musica e battaglie politiche (quaranta album, quasi tutti gli onori musicali compreso, nel 2017, l’ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame), la donna che Joan Didion, nel reportage scritto durante la Summer of Love del 1967 e contenuto in Verso Betlemme, definì «priva di astuzia», solo oggi, a 82 anni, ha scelto di consegnare al mondo aspetti inediti del suo privato e fragilità profonde: quel «su e giù» continuo con cui ha convissuto dall’adolescenza, «quando l’espressione attacco di panico non esisteva». Ma anche il sospetto («non ho le prove» confermerà) che il padre abbia molestato lei e la sorella Mimi quando erano bambine.

Joan Baez e Bob Dylan, agosto 1963 – Washington, DC, United States of America

Il film contiene una lettera scritta ai suoi genitori, in cui parla del «compito sconvolgente di ricordare». Quegli abusi in realtà non fanno parte dei suoi ricordi, sembrano basarsi su sensazioni più che su fatti.

«Non ho cercato di provare niente. E ho voluto aspettare che tutta la mia famiglia se ne fosse andata per parlare. Ne sarebbero stati devastati, come lo sono stata io. L’ho fatto a nome di tutte le persone che hanno vissuto esperienze simili, perché spesso sono marginalizzate, non vengono credute, e so che questo mio passo le aiuterà. Siamo state molto caute, non volevamo che questa rivelazione dominasse il film, fare sensazionalismo. Sentire la voce di mio padre registrata dire: “I love you” ancora mi spezza il cuore. Perché so che è vero, mi amava».

Come pensa reagirà chi lo conosceva quando vedrà il film?

«Credo che proverà orrore. Oppure troverà quelle scuse che si formulano in questi casi: “Era diventato pazzo”. Ma nel film si parla anche di perdono».

È sempre il desiderio di condivisione che l’ha spinta a parlare candidamente della sua fragilità?

«A 16 anni mi sembrava di essere l’unica al mondo a soffrire di qualcosa di sconosciuto. E più tardi mi è anche capitato di sentirmi schiacciata dal terrore prima di uno spettacolo. Allora chiedevo: “Spingetemi sul palco”. Una volta lì, me la cavavo».

Dopo due memoir aveva ancora desiderio di raccontare. Come si sente dopo avere rievocato ricordi dolorosi?

«Sollevata, felice che il risultato sia questo. Restava un grande periodo della vita ancora da esplorare, il primo memoir l’ho scritto quando avevo vent’anni, il secondo risale agli anni Ottanta».

Ha rappresentato un simbolo per i Sessanta e Settanta non solo in America. Come si convive con quella sensazione e come s’accetta il cambiamento?

«È così diverso quel tempo da quello in cui viviamo. Io allora ero come caduta dal cielo. Erano gli anni giusti, i decenni giusti. E ho avuto la fortuna di essere lì. Sono consapevole di quello che rappresento rispetto a quel periodo, e non solo per chi l’ha vissuto. Un ragazzo una volta mi ha detto: “Avrei davvero voluto vivere quella fase fantastica. Avevate tutto, la musica, la guerra in Vietnam (sorride). E avevate la glue” (letteralmente colla, in gergo è la capacità di creare una comunità intorno a un ideale, ndr). Aveva ragione. Qualcosa ci univa, c’era un senso di partecipazione che ora non vedo in America. Ci sono persone in gamba dappertutto, succedono un sacco di cose interessanti, ma non c’è più la consapevolezza di far parte di un movimento comune. Siamo stati ingannati dalla propaganda e dalle bugie, e non avrei mai creduto che questo potesse succedere in America».

È possibile smettere di essere una creatura politica?

«Impossibile. Ma non mi sento un’attivista. È un termine che fa subito pensare a qualcuno che scende in strada con una bandiera. Gli esseri umani sono più importanti del nazionalismo, più importanti di una bandiera. Allora ero abbastanza intelligente da sapere che We Shall Overcome (“ci riusciremo”, l’inno del movimento per i diritti civili, ndr) non si sarebbe realizzato, che io non lo avrei visto. Non puoi aspettarti che una marcia risolva tutto. Ma anche se ho lasciato le scene, continuo a ritrarre chi lavora per il cambiamento non violento (col progetto Mischief makers, joanbaezart.com, ndr)».

Non è più tempo per le grandi battaglie delle idee?

«Credo nelle piccole vittorie, che sono importanti per ridimensionare la grandi sconfitte. Lo scenario è cupo, ma ogni piccola organizzazione onesta può fare la differenza».

C’è un ritratto di Bob Dylan sopra il pianoforte nella sua casa di Woodside dove si apre il film. Su di lui, sul suo abbandono, aveva scritto la canzone «Diamond and Rust». Eppure nel film a un certo punto dice che eravate solo amici: un ridimensionamento?

«No (ride), non era così. Quando ho fatto il ritratto di Bob l’ho dipinto ascoltando la sua musica. Ricordo che, dopo aver versato una buona dose di lacrime, mi sono resa conto che in me non era rimasto alcun risentimento. Mi sento fortunata per averlo conosciuto bene, avere la sua musica, essere stata lì in quel periodo. È rimasta solo gratitudine. E Diamond and Rust è la cosa migliore che io abbia mai scritto».

Nel film parla senza rammarico anche della voce che cambia, della fatica per preservarla. Qual è stato il periodo più bello per la sua voce?

«Ce ne sono stati un paio. Proprio all’inizio — e quando riascolto i dischi mi stupisce molto quello che ero in grado di fare allora. E poi ce n’è stato un altro, verso la fine dei trent’anni. Quella con la voce è stata la vera battaglia della vita per me, e lasciare il tour una decisione sofferta, ma giusta. Di recente ho scoperto di avere una voce nuova (nel film la sua coach le chiede “dove l’hai trovata?”, e lei risponde: “Da qualche parte nel mio passato”, ndr). È molto più bassa di quella di un tempo, ma è una benedizione».

Non ha paura di avere rimpianti per aver lasciato il palcoscenico?

«No, ho smesso di scrivere canzoni anni fa. Ho capito che le parole non sarebbero più arrivate. E poi non sono sfaccendata, anzi non sono mai stata così impegnata come ora. Ho pubblicato un libro di disegni capovolti, si intitola Am I Pretty When I Fly?, “Sono carina quando volo?”, che rappresenta la conclusione di un processo: ritrarre il mondo capovolto, raddrizzarlo, e a quel punto provare a capire che cosa mi suggerisce. E sto scrivendo un libro di poesie».

È sempre stata multitasking?

«Essere multitasking mi ha salvato la vita, conosco il successo, la sua natura, ma non mi interessa».

Ha mai cercato di incorporare nella sua arte le radici messicane paterne, radici che da ragazza, rivela, erano causa di «un complesso di inferiorità»?

«Non quanto avrei dovuto. Ho certamente incorporato le radici scozzesi di mia madre. Tutte le mie prime canzoni erano ballate. Solo molto dopo ho inciso un album in spagnolo, ma fu una scelta politica, determinata dal colpo di Stato in Cile. Scrivere canzoni nella lingua del popolo cileno è stata la mia reazione».

Nel film parla apertamente di tutto, amori compresi. A che punto è?

(ride) «Quando mi sono sposata volevo essere la moglie perfetta. Mi immaginavo preparare la zuppa circondata da un sacco di bambini. Ma era una fantasia, perché la vita che facevo rendeva tutto impossibile. Dopo anni e molto lavoro su di me ho capito che non desidero trovare qualcuno. Sono felice come sto adesso».

La musica può ancora essere decisiva per il cambiamento sociale?

«Non ho mai smesso di crederci e ho sempre lavorato perché fosse così. Ma ho anche avuto la fortuna, di non prendermi troppo sul serio. È anche capitato che il gruppo mi dimenticasse, che il bus del tour partisse senza di me per uno dei miei concerti più importanti! Quando ho rivisto la scena nel film ho riso fino alle lacrime. Ma da allora è cambiato tutto: ora la difficoltà è trovare la piattaforma giusta per produrre vero cambiamento. Mia nipote, 19 anni, è musicista e studia i meccanismi della produzione a Miami. Mi ha detto: “Sto per pubblicare il mio primo singolo”. E io: “Ma come fai? Chi te lo produce?”. Lei: “È già su Spotify”. Lei sa che i consigli di sua nonna in questo campo ormai sono inutili».

Ascolta sempre musica?

«Un tempo ero una terribile snob. Pensavo che una vera canzone popolare fosse tale solo se ti era stata tramandata da tuo nonno. Ora ascolto i Gipsy King, l’opera, il pop arabo e alcuni dischi di musica classica che mi ha lasciato mia madre».

Nel film ammette, e noi confermiamo: «Sono in forma per la mia età».

«Mia madre aveva buone ossa, mio padre una bella pelle. E non mi sono mai drogata seriamente. Ho usato Quaalude (farmaco con azione sedativa e ipnotica, molto popolare negli anni Settanta, ndr) per un periodo, ma non ho mai preso la roba tosta. E poi, mi hanno fatto notare, che nei filmati d’archivio avevo sempre una mela in mano».

Paola Piacenza per Il Corriere della Sera

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